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  • Domenica 29 dicembre 2024

È morto Jimmy Carter

Aveva 100 anni: fu presidente degli Stati Uniti per un solo mandato in mezzo a molte crisi, ma nei decenni successivi si guadagnò una nuova popolarità

Jimmy Carter nella sua casa di Plains, Georgia, nel 2017 (Dustin Chambers/The New York Times/contrasto)
Jimmy Carter nella sua casa di Plains, Georgia, nel 2017 (Dustin Chambers/The New York Times/contrasto)
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È morto a 100 anni Jimmy Carter, che fu il 39° presidente degli Stati Uniti tra il 1977 e il 1981, in un periodo complicato segnato principalmente dalla crisi energetica e da quella degli ostaggi americani a Teheran. Carter, che fu uno di quei presidenti a non venire rieletti per un secondo mandato – come dopo di lui George H. W. Bush e Donald Trump – è stato anche il presidente americano che è vissuto più a lungo. Ha fatto sapere della sua morte il figlio, James E. Carter III: Carter è morto domenica nella sua casa di Plains, in Georgia.

Proprio grazie alla sua longevità era riuscito a plasmare in prima persona la sua eredità politica, emancipandosi dalla fama di presidente perdente. Nel febbraio del 2023, dopo numerosi ricoveri in ospedale avvenuti anche negli anni passati, Carter era tornato a casa sua per ricevere cure palliative.

Parlando con il Washington Post, lo storico Joseph Crespino ha detto che non riesce a pensare a «nessun altro presidente che abbia vissuto abbastanza da assistere alla formazione della sua legacy [cioè l’eredità politica, ndr] mentre era ancora in vita». «Invece di prendersela a male per la sconfitta» ottenuta contro il Repubblicano Ronald Reagan nel 1980, ha spiegato Crespino, «usò l’influenza e la notorietà guadagnate in politica per aiutare milioni di persone e vincere un Premio Nobel per la Pace» nel 2002.

Da sinistra: il presidente egiziano Anwar el-Sadat, Carter e il primo ministro isrealiano Menachem Begin nel 1979 alla Casa Bianca, dopo la firma del trattato di pace tra i due paesi (Hulton Archive/Getty Images)

Carter nacque nel 1924 in una piccola città della Georgia, Plains, da una famiglia di agricoltori. Da giovane prestò servizio in marina e si laureò allo Union College in fisica nucleare e tecnologia dei reattori. Per queste sue competenze venne arruolato nel programma sui sottomarini nucleari, sia nell’oceano Pacifico che nell’Atlantico. Nel 1953, quando non aveva neanche trent’anni, morì suo padre e quindi tornò a Plains per occuparsi dell’impresa di famiglia insieme agli altri eredi e a sua moglie, Rosalynn Smith. In particolare Carter si dedicò a coltivare e vendere arachidi, impiegando le proprie conoscenze scientifiche per migliorare ed espandere l’attività.

Con il passare degli anni divenne un punto di riferimento per la comunità locale ed ebbe ruoli amministrativi locali, supervisionando vari ambiti come l’istruzione, la sanità e le biblioteche. Nel 1962 venne eletto senatore per la Georgia e nel 1966 si candidò a governatore dello stato, perdendo: vinse però le elezioni successive, nel 1971. Rimase governatore fino al 1975, quando aveva iniziato la campagna per le presidenziali già da un anno.

Carter all’epoca non era conosciuto a livello nazionale, e per quanto avesse avuto ruoli istituzionali nel suo stato non conosceva bene la politica di Washington. Perciò quando la campagna per le primarie del Partito Democratico iniziò, Carter non era affatto tra i candidati più in vista, anzi: il favorito sembrava essere George Wallace, dell’Alabama, ben più conosciuto a livello nazionale per le sue dure posizioni a favore della segregazione delle persone nere.

Carter improntò quindi tutta la sua campagna elettorale per farsi conoscere, pubblicando una breve autobiografia intitolata Why Not the Best? e percorrendo circa 80mila chilometri in 37 stati, anticipando gli altri candidati sul tempo. Il tono ottimista della sua campagna e il fatto che venisse percepito come un outsider, un imprenditore prestato alla politica, lo aiutarono: lo scandalo del Watergate che aveva investito la presidenza di Richard Nixon era ancora fresco, e la fiducia degli americani nei confronti della politica nazionale era ai minimi storici. Carter puntò molto su questo aspetto: nei discorsi indugiava sulla corruzione di Washington e sulla necessità di ritornare sulla via dell’onestà e della rettitudine (peraltro era molto religioso e non lo nascondeva).

Una delle mascotte della sua campagna elettorale fu una scultura di legno che raffigurava un arachide gigante con un ampio sorriso, disegnato in modo da ricordare quello di Carter stesso. Oggi la scultura si trova a Plains, la sua città di origine.

Carter vinse prima le primarie del suo partito e poi anche la sfida contro il candidato del Partito Repubblicano, Gerald Ford, che era stato vicepresidente di Nixon e lo aveva sostituito dopo le dimissioni nel 1973. Solamente che fu una vittoria di misura, mentre per quasi tutta la campagna elettorale Carter era stato in netto vantaggio.

Ford recuperò lo svantaggio attaccando a più riprese Carter, descrivendolo come inadatto e troppo debole per essere il leader di una nazione come gli Stati Uniti, specie in un periodo storico complicato come gli anni della Guerra Fredda e degli scontri diplomatici con l’Unione Sovietica. Carter sottovalutò quegli attacchi e fece una serie di altri errori, tra cui una famigerata intervista con Playboy in cui disse di aver desiderato altre donne nel corso della sua vita: «Nel mio cuore ho commesso adulterio un sacco di volte». Probabilmente era un goffo tentativo di mostrarsi simpatico agli occhi del pubblico maschile, ma il risultato fu controproducente: venne criticato dai media e perse terreno nell’elettorato più conservatore. Alla fine però risultò eletto con 297 voti dei grandi elettori, contro i 240 di Ford.

La presidenza di Carter ebbe molti problemi fin dall’inizio, in gran parte ereditati dagli anni passati ma che Carter non riuscì a risolvere. Innanzitutto la situazione economica: nel 1973 i paesi produttori di petrolio appartenenti all’OPEC avevano ridotto drasticamente la produzione per far aumentare il prezzo al barile, come ritorsione per la sconfitta subita da Egitto e Siria nella guerra dello Yom Kippur, contro Israele. Per decenni le economie occidentali avevano goduto dei prezzi bassi di carburanti ed energia, un fattore che aveva sostenuto la crescita negli anni Cinquanta e Sessanta. Con la decisione dell’OPEC ci fu il cosiddetto “shock petrolifero” che da una parte fece aumentare molto i prezzi (inflazione) dall’altro fece rallentare la produzione perché troppo costosa (stagnazione). La compresenza di questi due fenomeni viene definita stagflazione.

Era una realtà nuova per i politici, che non sapevano come rimediare. Negli Stati Uniti la crisi si era tradotta in moltissimi posti di lavoro persi e fabbriche che chiudevano, spostando la produzione altrove. Carter cercò di ridurre l’inflazione tagliando le spese federali e diffondendo linee guida alle aziende su salari e prezzi, ma le politiche adottate non furono sufficienti e il problema rimase, anzi si aggravò dopo un’altra crisi in Medio Oriente: la rivoluzione in Iran che trasformò il paese in una Repubblica Islamica, nel 1979. L’Iran faceva parte dell’OPEC e dopo il cambio di regime il prezzo del petrolio salì ancora.

Carter volle dare una nuova immagine della presidenza, meno pomposa e più informale, vicina alla gente. Tuttavia non bastò a convincere gli elettori che si stava facendo tutto il possibile per fronteggiare la crisi economica interna e le crisi diplomatiche internazionali. In particolare proprio in Iran ci fu la crisi che più di altre indebolì la presidenza di Carter, quando vennero presi in ostaggio 53 dipendenti dell’ambasciata statunitense. La gran parte di questi fu liberata solo 444 giorni dopo, alla fine di un lungo negoziato.

Carter partecipò alla cerimonia di inaugurazione del suo mandato con un normale abito invece che con il tight, come avevano fatto gli altri prima di lui.

L’insieme della crisi economica e della debolezza americana a livello internazionale – almeno se paragonata al dominio degli anni precedenti – contribuirono alla sconfitta di Carter alle presidenziali del 1980. Non succede spesso che un presidente in carica non venga rieletto, prima di Carter l’ultima volta era stata nel 1932 con Herbert Hoover battuto da Franklin Delano Roosevelt. Carter invece venne battuto da Ronald Reagan con quella che gli americani definiscono landslide, cioè una vittoria schiacciante in tutti gli stati o quasi.

Anche per questo Carter viene ricordato un po’ come il presidente perdente, dalle buone intenzioni ma incapace di metterle in pratica. Tuttavia negli anni è riuscito a riabilitare la propria immagine, complice anche la sua longevità e il suo impegno umanitario.

Con la sua fondazione, istituita insieme alla prima moglie, ha lavorato con successo per eradicare molte malattie diffuse nei paesi in via di sviluppo, come quella causata dal parassita detto verme della Guinea. Kai Bird, autore di una biografia autorizzata su Carter, lo ha conosciuto in maniera approfondita e di recente ha raccontato sul New York Times un’intervista con lui sugli anni della presidenza, per scrivere il libro, dicendo di essere rimasto impressionato dal vigore di Carter anche da ultranovantenne. «I suoi occhi blu mi fissavano con inquietante intensità, anche se era chiaramente più interessato al verme della Guinea».

Secondo Bird, Carter è uno dei presidenti più sottovalutati dell’ultimo secolo, perché la sua presidenza viene ricordata «semplicisticamente» come un fallimento, mentre in realtà fu più significativa di quanto sembri: «A lui si devono gli accordi di pace tra Israele ed Egitto a Camp David, l’accordo SALT II sul controllo delle armi [strategiche internazionali, ndr], la normalizzazione delle relazioni diplomatiche e commerciali con la Cina, la riforma dell’immigrazione. Fu lui che rese il rispetto dei diritti umani un principio cardine della politica estera americana».

Nel 2002 Carter ricevette il Premio Nobel per la Pace grazie al suo «sforzo decennale nel trovare soluzioni pacifiche a conflitti internazionali», anche per il suo ruolo in quell’accordo di pace tra Israele ed Egitto, nel 1979.