Come fa a esserci tutto questo pistacchio “di Bronte”?
Il piccolo comune siciliano produce il più rinomato del mondo, ma questa fama è sfruttata anche in modo ambiguo
I prodotti a base di pistacchi o con l’aggiunta di pistacchio in qualche forma, specialmente creme, pesti o granelle, sono una delle mode gastronomiche più evidenti degli ultimi anni, ed è sempre più comune sentire fastidi e lamentele a proposito. Ma quello che è finito dentro a panettoni, panini, pastasciutte, gelati e un sacco di altri alimenti anche insospettabili non è quasi mai un pistacchio qualunque: bensì un pistacchio “di Bronte”, almeno in teoria.
Su Rivista Studio, Arnaldo Greco ha sarcasticamente stimato che se tutto il pistacchio che si vede in giro dovesse arrivare davvero da Bronte, l’area del comune siciliano dovrebbe essere «estesa come la Groenlandia». È un’esagerazione, ma c’è un motivo se molti più prodotti al pistacchio sono associati a Bronte di quanti contengano effettivamente pistacchio coltivato a Bronte, quello che può essere effettivamente indicato come “pistacchio di Bronte DOP”, cioè di Denominazione di origine protetta, una particolare tutela giuridica che l’Unione Europea attribuisce a prodotti che mantengono determinati standard produttivi.
Molti prodotti hanno scritto “di Bronte” sulla confezione anche se i pistacchi che contengono sono stati coltivati all’estero, per esempio in Turchia, in Iran o negli Stati Uniti, perché sono stati poi sgusciati e confezionati a Bronte. Se i pistacchi stranieri a Bronte sono stati poi anche trasformati, anche solo sminuzzati in una granella, sulla confezione può essere scritto “prodotto e confezionato a Bronte”, in modo da sfruttare l’ambiguità tra luogo di produzione e luogo di coltivazione.
Per poter scrivere su un’etichetta che un prodotto trasformato, come per esempio un pesto, contiene “pistacchio di Bronte DOP”, il pistacchio utilizzato deve invece essere coltivato effettivamente a Bronte. È comunque sufficiente che ce ne sia una percentuale molto bassa, anche del 5 per cento. Enrico Cimbali, presidente del Consorzio di tutela del pistacchio verde di Bronte, spiega che «la cosa fondamentale è specificare nell’etichetta l’esatta percentuale di pistacchio di Bronte DOP usata nella preparazione». L’altra condizione da soddisfare è che quella percentuale sia costituita interamente da pistacchio di Bronte DOP: non sono consentiti blend (ossia miscugli) con altre varietà.
Nel 2023 sono state prodotte circa 2mila tonnellate di pistacchio di Bronte DOP (per intenderci, più o meno mille suv), quindi coltivati, raccolti e confezionati a Bronte. È l’ultima stima disponibile, dato che la raccolta si fa biennalmente, e soltanto negli anni dispari. È «poco più di un punto percentuale della produzione globale», secondo Cimbali: una coltivazione insomma piuttosto esigua, inferiore a quella impiegata nei molti prodotti con scritto in qualche forma “Bronte” sulla confezione.
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Anche se il pistacchio di Bronte è diventato un marchio DOP nel 2009, il suo mito cominciò già negli anni Novanta. Alberto Grandi, docente dell’Università di Parma e autore del libro La cucina italiana non esiste, oltre che del podcast DOI – Denominazione di Origine Inventata, dedicato ai falsi miti della cucina italiana, dice che «in quel periodo tutte le gelaterie italiane inserirono il gusto al pistacchio nella loro proposta», al punto che «il pistacchio veniva percepito anzitutto come un gusto, e poi come un frutto».
Lauro Lupo, titolare di un’azienda dolciaria brontese, spiega che prima di allora i pistacchi erano un cibo «di nicchia»: venivano consumati soprattutto in Sicilia, dove si sviluppò l’usanza di servirli per accompagnare gli aperitivi, e in pochi immaginavano di consumarli in altri modi. «Ai tempi era commercializzato soltanto il prodotto sgusciato: non c’erano semilavorati, né tantomeno tutte le farine, granelle e creme che vediamo oggi», dice. Fuori dalla Sicilia, la domanda per questi frutti era molto bassa. Le poche richieste provenivano da pasticcieri e cioccolatai attenti alle novità, soprattutto francesi o tedeschi, che «venivano a Bronte per comprare i pistacchi e utilizzarli per le loro preparazioni», dice Lupo.
Dopo essere diventato un gusto di gelato obbligatorio per qualsiasi gelateria, il pistacchio diventò sempre più popolare e pian piano il suo utilizzo si estese anche ad altre preparazioni. La conquista vera e propria del mercato è però un fenomeno più recente, avvenuta nell’ultimo decennio, quando anche grazie al suo colore verde e alla sua resa su Instagram il pistacchio è diventato un ingrediente comune in molti piatti anche salati, in abbinamento per esempio a mortadella, stracciatella, tonno o gamberi.
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Per essere tutelati dal marchio DOP i pistacchi di Bronte devono soddisfare determinati requisiti, che come avviene in questi casi sono specificati in un apposito disciplinare di produzione.
Il pistacchio di Bronte DOP è quello che viene coltivato nei terreni di Bronte, Adrano e Biancavilla, tre comuni della provincia di Catania. La pianta da cui si ottiene è il risultato di un innesto: la base (la parte con le radici, chiamata anche portainnesto) è costituita dal terebinto, un arbusto che ha radici molto profonde (e quindi in grado di farsi strada nella roccia lavica), cresce spontaneamente ed è molto resistente alla siccità. La parte superiore, quella in cui nascono i frutti, è invece una particolare varietà della Pistacia vera, la pianta da cui si ottengono i pistacchi, chiamata “napoletana” o “bianca”. È tuttavia ammessa una percentuale «non superiore al 5 per cento di piante di altre varietà e/o di portainnesti diversi dal terebinto».
Il disciplinare indica anche alcune caratteristiche estetiche e di gusto tipiche del pistacchio di Bronte, che deve avere una forma «allungata e poco compressa, delle dimensioni di un’oliva», un seme «di colore verde smeraldo» e ricoperto da una pellicola «rosso rubino» e un sapore «fortemente aromatico».
Perché un pistacchio di Bronte sia classificato come “DOP” è necessario rispettare alcune caratteristiche produttive, e in particolare due: deve essere coltivato sui terreni di origini vulcanica tipici della zona e deve essere raccolto ogni due anni, nel periodo che va da fine agosto a fine settembre, e rigorosamente a mano.
Secondo Lupo, l’adempimento di questi obblighi fa sì che il prezzo di questi pistacchi sia «molto alto», anche per la retribuzione di chi lo raccoglie: «È un lavoro molto faticoso, e che giustamente deve essere ben retribuito: in media, un operaio costa almeno 100 euro al giorno», dice Lupo.
Come tutti i lavori dell’agricoltura, anche la coltivazione di pistacchi risente di fattori ambientali. Gli alberi di pistacchi non si annaffiano: vengono nutriti soltanto dall’acqua piovana e dalle riserve delle falde acquifere del sottosuolo. Ci sono però delle annate in cui non piove nei momenti di germoglio della pianta, e questa circostanza ha «gravi ripercussioni sulla produzione», spiega Lupo, che stima il prezzo del pistacchio di Bronte (sgusciato) in circa 60 euro al chilo.
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