La prigione di Evin è un simbolo del regime iraniano
Il carcere dove è detenuta la giornalista italiana Cecilia Sala è la struttura in cui sono imprigionati oppositori politici e cittadini stranieri
La giornalista italiana Cecilia Sala è detenuta da oltre una settimana dal regime iraniano nel carcere di Evin, a Teheran. La prigione di Evin è nota per essere la struttura in cui sono imprigionati oppositori politici, giornalisti e cittadini stranieri. È operativa dal 1972 e già prima della Rivoluzione islamica del 1979 vi venivano rinchiusi dissidenti politici. Da quando il movimento antigovernativo guidato dall’ayatollah Ruhollah Khomeini portò alla fine del regno dello scià e alla creazione della Repubblica Islamica dell’Iran, una teocrazia guidata da religiosi sciiti, Evin è diventata un temuto simbolo del regime.
La prigione è composta da due sezioni maschili e una femminile. I prigionieri vivono o in celle comuni sovraffollate e in pessime condizioni igieniche; oppure in celle di isolamento, piccole, senza finestre e con nessun contatto con altre persone.
Cecilia Sala è detenuta in una cella di isolamento da giovedì 19 dicembre. Dopo un giorno di detenzione le sono state concesse due telefonate, alla famiglia e al suo compagno, il giornalista del Post Daniele Raineri; dopo una settimana ha potuto incontrare l’ambasciatrice italiana Paola Amadei. Sala e Amadei hanno dovuto parlare in inglese, in modo che le autorità iraniane presenti potessero controllare che cosa si dicevano.
Negli anni dissidenti iraniani e cittadini stranieri che hanno passato periodi di detenzione a Evin e sono riusciti a uscirne hanno raccontato le condizioni di vita all’interno. L’imprenditore britannico-iraniano Anoosheh Ashoori ha passato quattro anni in una cella di isolamento della sezione maschile: ha raccontato a Deutsche Welle che la stanza era di circa 8 metri quadrati, che la luce restava sempre accesa giorno e notte, rendendo difficile dormire, e che dalla sua cella poteva sentire urla e lamenti provenienti dalle altre celle.
Nizar Zakka, imprenditore libanese detenuto nel 2015, ha detto sempre a Die Welt: «Nelle celle di isolamento non hai nulla, solo un tappeto e una coperta per coprirti. Ho preso ogni tipo di infezione perché la maggior parte dei cuscini e delle coperte è sporca e infestata da insetti». Secondo altre testimonianze gli unici altri oggetti che si possono avere in una cella di isolamento sono il Corano e alcuni libri di preghiere islamiche. Quasi sempre non ci sono letti o brandine, ma si dorme per terra.
Nel 2022 un’altra cittadina italiana, la blogger e viaggiatrice Alessia Piperno, fu detenuta per oltre un mese nel carcere di Evin. Piperno fu arrestata per motivi mai completamente spiegati, ma probabilmente con l’accusa di essere “complice”, insieme ad altri otto cittadini stranieri, delle proteste che erano in corso contro la polizia religiosa e il regime, iniziate dopo la morte di Mahsa Amini. Amini era morta in carcere dopo essere stata arrestata perché non indossava correttamente il velo islamico.
Piperno fu detenuta per la maggior parte del tempo nelle celle comuni, fu liberata grazie a una mediazione diplomatica e un anno dopo ha scritto un libro in cui ha raccontato il periodo nel carcere. In un’intervista al Corriere della Sera di settembre del 2023 disse: «Evin è un luogo disumano, sporco, puzzolente. Dormi per terra, hai 5 minuti d’aria il martedì e il giovedì, una doccia alla settimana, una turca con escrementi che nessuno puliva. Il cibo era poco e rivoltante. Si sentivano le urla delle persone torturate». Altre detenute hanno raccontato a BBC che le stanze comuni ospitano anche venti persone e che sono prive di riscaldamento.
Il carcere di Evin era particolarmente affollato nel periodo delle proteste iniziate dopo la morte di Amini, che furono per questo represse molto violentemente, con oltre 500 manifestanti uccisi. In un anno furono arrestati oltre 19mila manifestanti, non tutti ovviamente detenuti ad Evin. Il 15 ottobre all’interno della prigione si sviluppò un incendio e ci furono delle sparatorie, al termine delle quali almeno otto prigionieri furono uccisi.
È anche vietato scattare fotografie all’esterno della struttura. Nel giugno del 2003 la fotografa e giornalista Zahra Kazemi, che aveva una doppia cittadinanza iraniana e canadese, fu arrestata perché aveva scattato alcune foto dell’ingresso della prigione: morì a Evin 19 giorni dopo, ufficialmente per un infarto. Due anni dopo emersero prove di torture e violenze.
Il carcere ha una capacità di circa 15mila persone, con sezioni destinate espressamente agli stranieri e agli oppositori politici. Le condizioni di detenzione dei dissidenti di solito sono molto più rigide e crudeli: varie ong hanno denunciato violazioni dei diritti umani, episodi di tortura e violenza, fisica e psicologica.
Nel 2009 vi fu detenuto il giornalista iraniano-canadese Maziar Bahari, di Newsweek, accusato di spionaggio: gli venne estorta una confessione, ma dopo 118 giorni di prigione fu rilasciato su cauzione. Gli fu chiesto di spiare alcuni oppositori del regime, ma riuscì poi a raggiungere la famiglia a Londra. Jason Rezaian, capo dell’ufficio del Washington Post a Teheran, fu arrestato per spionaggio nel luglio del 2014, detenuto a Evin e rilasciato nel gennaio del 2016.
A Evin sono ancora rinchiusi, fra gli altri, l’attivista iraniana Narges Mohammadi, vincitrice del Nobel per la Pace nel 2023, e lo scienziato svedese-iraniano Ahmadreza Djalali, condannato per spionaggio per conto di Israele. Ma sono stati detenuti anche la nota attrice iraniana Taraneh Alidoosti e il regista iraniano Jafar Panahi: entrambi erano stati arrestati per motivi politici e sono poi stati rilasciati.