Alla fine la presidenza ungherese dell’Unione Europea ha combinato poco
Viktor Orbán era partito con iniziative provocatorie e ambiziose, che sono rimaste la cosa più eclatante del semestre
Martedì 31 dicembre finirà il turno dell’Ungheria alla presidenza del Consiglio dell’Unione Europea. Cominceranno così i sei mesi in cui toccherà alla Polonia coordinare i lavori dell’organo in cui siedono i rappresentanti dei 27 governi dei paesi membri (il calendario è fisso). A luglio, quando era iniziato il turno ungherese, c’erano state grandi preoccupazioni: perché toccava a un paese semi-autoritario e per il modo in cui il primo ministro Viktor Orbán aveva da subito interpretato il ruolo, facendo una serie di viaggi non concordati che aveva definito “missioni di pace”.
La pace in questione era quella in Ucraina, propugnata però dal capo di un governo con posizioni filorusse, e da questo punto di vista Orbán non ha ottenuto risultati. La presidenza ungherese è stata per lui soprattutto una grossa occasione di visibilità: sono stati raggiunti alcuni obiettivi concreti ma su altro, all’infuori cioè dalle ambizioni internazionali ed extraeuropee di Orbán, che peraltro non fanno parte dell’incarico a rotazione.
Il turno ungherese era cominciato con le visite – col senno di poi, inconcludenti – di Orbán al presidente russo Vladimir Putin, a quello cinese Xi Jinping e a Donald Trump, che non era ancora stato eletto. È finito con la proposta, fallita, di una «tregua di Natale» in Ucraina sulla quale c’è stato anche un incidente diplomatico: Orbán aveva suggerito la data del Natale ortodosso, che cade il 7 gennaio, ma dal 2023 la maggioranza degli ucraini lo celebra il 25 dicembre (si sono distanziati dalla tradizione russa per non condividere la festività con il paese invasore).
In ogni caso la presidenza ungherese è finita un po’ meglio, o comunque meno peggio, di com’era partita. Per sanzionare le iniziative non concordate di Orbán, infatti, già a metà luglio la Commissione Europea (l’organo esecutivo dell’Unione) aveva chiesto ai commissari di boicottare le riunioni informali organizzate dall’Ungheria, mandando al loro posto semplici funzionari. Le riunioni informali sono preparatorie a quelle formali, che si svolgono sempre nelle sedi istituzionali del Consiglio, a Bruxelles e in Lussemburgo.
Da lì in poi non ci sono stati momenti particolarmente eclatanti, in positivo o in negativo, al netto delle periodiche frasi provocatorie di Orbán.
A novembre Budapest ha ospitato la quinta riunione della Comunità Politica Europea, il format diplomatico a cui partecipano più di 40 paesi europei, inclusi i 27 dell’Unione. Il consigliere politico del governo ungherese Balázs Orbán (non è parente del primo ministro) ha scritto che l’occasione ha confutato «l’isolamento diplomatico» del suo paese. La dichiarazione risente, come altre, dello scollamento tra il modo in cui la presidenza ungherese si è raccontata, a partire dallo slogan trumpiano “Make Europe Great Again”, e quello che ha effettivamente fatto: cioè, tutto sommato, poco.
Il successo di una presidenza si misura sul suo «livello di invisibilità», ha detto Daniel Freund, un eurodeputato tedesco dei Verdi molto esperto.
Di solito, cioè, il governo che detiene la presidenza cerca di lavorare a porte chiuse, nelle riunioni informali, per realizzare le priorità stabilite all’inizio del semestre facilitando compromessi piuttosto che divisioni. In questo senso una buona presidenza può essere «invisibile»: questo era stato l’approccio adottato dalla Repubblica Ceca nella seconda metà del 2022, e ritenuto di successo. Il ministro ceco dell’Industria, Jozef Síkela, aveva fatto stampare su una felpa il suo mantra: «Ci riuniremo finché sarà necessario».
Secondo Freund, la presidenza ungherese è stata «chiassosa, incasinata, provocatoria» ed è stata eclissata dalla figura ingombrante di Orbán e dalle sue dichiarazioni.
La presidenza ha comunque coinciso con una fase particolare e parecchio interlocutoria per le istituzioni europee, e si sapeva: è quello che succede dopo le elezioni per rinnovare il Parlamento Europeo, che sono state a giugno. Questa fase è stata monopolizzata dalle trattative sulla composizione della Commissione Europea, entrata in carica a fine novembre.
Per esempio era stata rinviata la presentazione del programma della presidenza durante la sessione plenaria del Parlamento, a Strasburgo, prevista a settembre. Era avvenuta a ottobre, alcuni eurodeputati avevano contestato Orbán cantando Bella ciao dopo che aveva parlato. Il giorno dopo gli europarlamentari del partito del primo ministro avevano chiesto la revoca dell’immunità dell’eurodeputata italiana Ilaria Salis, che aveva criticato duramente Orbán: secondo Salis, era stata stata una ritorsione.
Negli ultimi sei mesi sono stati raggiunti anche alcuni risultati.
Tra i principali lo stesso Orbán ha messo l’accordo per il pieno ingresso di Romania e Bulgaria nell’area Schengen, la zona di libera circolazione che coinvolge la maggior parte dei paesi dell’Unione. A partire dal 1° gennaio, mercoledì, saranno aboliti i controlli via terra, dopo che a fine marzo erano stati già rimossi i controlli aerei e via mare. Concretamente significa che i cittadini europei potranno entrare in Romania e Bulgaria senza il passaporto, in qualunque modo ci arrivino. I negoziati hanno portato al superamento del veto dell’Austria, che finora aveva bloccato l’ingresso.
Infine l’Ungheria si è concentrata sull’allargamento dell’Unione ai Balcani occidentali. Lo aveva indicato tra le priorità e ci sono stati progressi soprattutto con Montenegro e Albania, paesi candidati rispettivamente dal 2010 e dal 2014. «Sono avvenute più cose negli scorsi due mesi che negli ultimi 15 anni», ha detto il primo ministro albanese Edi Rama. Anche gli avversari politici di Orbán gli hanno riconosciuto un certo impegno sui Balcani.
L’European Environmental Bureau, un grande network di associazioni ecologiste, invece ha criticato il governo ungherese per aver interrotto la consuetudine di allargare le riunioni dei ministri dell’Ambiente ai rappresentanti della società civile.
Da mercoledì inizierà la presidenza polacca che per molti versi proverà a essere il contrario di quella ungherese, soprattutto sull’Ucraina.
Recentemente il primo ministro slovacco Robert Fico ha rubato la scena a Orbán sui tentativi di fare da mediatore con Putin, anche se era andato a Mosca prevalentemente per parlare delle forniture di gas naturale da cui dipende il suo paese. Se nel programma ungherese la parola “Ucraina” compariva 7 volte, in quello polacco ricorre 41 volte. È diversa anche la congiuntura temporale: gli scorsi sei mesi erano ingessati a livello istituzionale, come detto, e quindi Orbán poteva fare danni fino a un certo punto.
La presidenza polacca inizia peraltro in un momento in cui sia Francia sia Germania, i due paesi più importanti dell’Unione, sono in una crisi politica. Donald Tusk, il primo ministro polacco, ha una considerevole esperienza nelle istituzioni europee: è stato presidente del Consiglio Europeo dal 2014 al 2019 e poi fino al 2022 presidente del Partito Popolare Europeo, il più grande e influente gruppo politico al Parlamento. Ci si aspetta, insomma, che provi a incidere più di Orbán.
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