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  • Giovedì 26 dicembre 2024

L’acceso dibattito in India su dote e divorzio dopo un caso di suicidio

Dopo una vicenda di sospetti maltrattamenti familiari c’è chi chiede di rivedere le leggi che cercano di proteggere le donne

Bangalore, India (AP Images)
Bangalore, India (AP Images)
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Il 9 dicembre scorso Atul Subhash, un ingegnere informatico di 34 anni, è stato trovato morto nella sua casa di Bangalore, una città dell’India meridionale. Sul suo corpo è stato trovato un bigliettino con scritto «giustizia sarà fatta». Il giorno prima Subhash aveva caricato su Google Drive un video di circa 90 minuti, una nota di 24 pagine, una lettera indirizzata alla presidente indiana Droupadi Murmu, alcune foto personali e altri documenti. Alcuni di questi sono stati rimossi, ma continuano a circolare sui social. L’uomo ha accusato la sua ex moglie, Nikita Singhania, e la famiglia di lei di averlo ricattato attraverso una serie di cause legali diffamatorie, minacciato con l’allontanamento del figlio e, infine, di averlo spinto al suicidio.

La polizia ha aperto un’indagine e il 14 dicembre scorso l’ex moglie di Subhash, sua suocera e suo cognato sono stati arrestati e trasferiti nella prigione di Bangalore, con l’accusa di istigazione al suicidio. Hanno in seguito fatto domanda per uscire su cauzione.

Nel frattempo la notizia in India ha risollevato un dibattito non nuovo, che riguarda la possibilità che alcune leggi pensate per proteggere le donne dalle violenze coniugali e di genere sarebbero utilizzate per vessare gli uomini in casi di separazione o divorzio. La morte di Subhash è stata ampiamente ripresa sui social e non solo da gruppi di attivisti che dicono di sostenere i diritti degli uomini e sono state organizzate fiaccolate e manifestazioni. Molti hanno iniziato a fare pressione sui social su Accenture, la società di consulenza per cui lavora la donna, chiedendo che venga licenziata.

Subhash e Singhania si erano sposati nel 2019, ma dal 2021 vivevano separati: Singhania si era trasferita con il figlio di 4 anni a New Delhi, nel nord del paese, a più di 2mila chilometri di distanza da Bangalore. In  seguito alla separazione Singhania aveva sporto diverse denunce nei confronti di Subhash per maltrattamenti, abusi e violenze: accuse che lui, nel suo video, ha definito delle «sfacciate bugie». L’ingegnere ha detto anche che la famiglia della moglie aveva provato a estorcergli 30 milioni di rupie (circa 300 mila euro) per ritirare le denunce e 3 milioni (circa 30mila euro) per permettergli di vedere il figlio. Diceva infine che gli avevano chiesto di aumentare l’assegno di mantenimento da 40mila a 200mila rupie (più di 2mila euro al mese).

Dopo il suo arresto, durante l’interrogatorio con la polizia, Singhania ha raccontato una versione diversa. Sostiene che Subhash bevesse, che la picchiasse e che le imponesse di versare il suo stipendio sul conto corrente di lui. Ha anche sostenuto che la famiglia di Subhash avesse iniziato a farle pressione in seguito al matrimonio, perché non erano soddisfatti dei soldi che avevano ricevuto in dote. Per questo, tra le altre cose, nel 2022 aveva denunciato Subhash per violazione della legge sulla dote e maltrattamenti.

Nonostante sia ufficialmente illegale dal 1961, in India come in altri paesi dell’Asia è ancora comune che la famiglia della sposa offra soldi e regali di vario genere a quella dello sposo in seguito al matrimonio. Spesso accade che queste richieste non vengano o non possano essere soddisfatte, e nascono liti tra le famiglie che portano a maltrattamenti, abusi e in molti casi anche al femminicidio. Spesso accade che le donne vengano bruciate e che il caso venga denunciato alle autorità come un incidente domestico, magari legato all’esplosione di una bombola del gas. Secondo l’agenzia nazionale anticrimine indiana tra il 40 e il 50 per cento dei femminicidi in India avviene per questo motivo, che ha portato alla morte di più di 35mila donne tra il 2017 e il 2022.

Per questo dal 1986 esiste nel codice penale indiano una fattispecie di reato specifica per i maltrattamenti legati alla dote. Prevede l’arresto e, in caso di condanna, il carcere fino a tre anni. In diverse occasioni questa legge è stata però messa in discussione da coloro che ritengono che venga utilizzata dalle donne per minacciare i propri compagni e in molti casi spingerli al suicidio. Già quasi vent’anni fa la Save Indian Family Foundation, un’associazione per i diritti degli uomini, denunciava che la legge fosse nata come «strumento di uguaglianza» ma fosse diventata uno «strumento di terrore». In diverse occasioni è intervenuta sul tema anche la Corte Suprema, che in ultimo in seguito alla morte di Subhash ha detto di aver evidenziato una «crescente tendenza a usare la legge come un’arma di vendetta personale contro i mariti e le loro famiglie».

È una questione piuttosto complicata, anche perché i numeri da soli non aiutano necessariamente a leggerla. Sebbene in tempi recenti siano aumentate sia le denunce sia gli arresti per maltrattamenti legati alla dote, la percentuale delle condanne in questi casi rimane bassa. Secondo coloro che vorrebbero cambiare o indebolire la legge, questa tendenza è da interpretare come un segnale del fatto che molte denunce sarebbero false. Dall’altra parte è noto che nei casi di violenza di genere (che possono riguardare maltrattamenti legati alla dote, abusi o violenze sessuali) le donne spesso faticano a essere credute. Per questo secondo i gruppi femministi attaccare questa come altre leggi a tutela delle donne significherebbe eliminare uno strumento importante nella lotta contro la violenza di genere nel paese, che è ancora molto diffusa.

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Dove chiedere aiuto
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 02 2327 2327 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.
Puoi anche chiamare l’associazione Samaritans al numero 06 77208977, tutti i giorni dalle 13 alle 22.