Tutti questi resi sono un problema, per le aziende e per noi
La diffusa abitudine di ordinare molta merce online con l'intenzione di restituirla ha grandi costi per i venditori, per non parlare di quelli ambientali
Da oltre un decennio, centinaia di migliaia di video che si trovano online seguono lo stesso, popolarissimo, formato. C’è un utente – spesso una ragazza giovane – che mostra una serie di articoli acquistati di recente, di persona o più spesso online: trucchi o vestiti, scarpe, libri, soprammobili, giocattoli, accessori di tutti i tipi. Quasi sempre è nella sua camera da letto, o in soggiorno, o comunque in casa. Se sono vestiti o accessori mostra come le stanno addosso, e parla candidamente di quello che le piace. Può capitare, per esempio, che la creatrice del video si renda conto che un vestito non le sta bene o non è della taglia giusta mentre si filma, una situazione che di solito piace proprio perché riproduce l’esperienza di andare a fare compere in un negozio fisico e provarsi vari abiti alla ricerca di quello giusto.
Questo genere di contenuto si chiama “haul video”, (termine che vuol dire più o meno «video del bottino»): secondo il New York Times già nel 2010, quando non esistevano altre grandi piattaforme di condivisione dei video, su YouTube se ne potevano guardare almeno 250mila. Oggi su TikTok ci sono almeno 3,8 milioni di video dedicati soltanto agli oggetti acquistati su Amazon e 1,2 milioni di video dedicati a Shein, l’e-commerce cinese specializzato nel fast fashion.
Alcuni influencer abbastanza grandi ricevono i prodotti gratuitamente dalle aziende stesse, come forma di marketing; molti altri li comprano da sé, e non si fanno problemi a restituire buona parte dei prodotti acquistati, approfittando del fatto che nell’ultimo decennio quasi tutti i principali siti di e-commerce hanno adottato politiche relative ai resi gratuiti molto flessibili e favorevoli ai consumatori. Ma la tendenza a comprare più prodotti del necessario approfittando del fatto di poterli facilmente rispedire indietro – la «haul culture», come la chiama un recente articolo di Vogue – è molto diffusa anche tra i consumatori qualunque. E sta portando molte aziende a ripensare il proprio approccio ai resi.
Secondo Vogue ci sono almeno tre tendenze che concorrono al grande numero di resi effettuati ogni giorno, quanto meno nel settore dell’abbigliamento. La prima è legata al fatto che la taglia di un abito può variare molto da un marchio all’altro, o anche all’interno dello stesso marchio. Per questo, c’è chi ha preso l’abitudine di comprare online lo stesso prodotto in taglie leggermente diverse e poi restituire tutte le taglie tranne quella prescelta. Altri ancora comprano un prodotto in tanti colori diversi per capire quale sta loro meglio addosso, come se fossero semplicemente clienti di un centro commerciale che si provano i vestiti nel camerino.
La seconda tendenza è quella che Vogue chiama “wardrobing” (“guardarobare”, più o meno): è la pratica di comprare un abito online con l’intenzione di indossarlo una volta sola, magari per un evento specifico, senza togliere il cartellino, e poi restituirlo per riavere i soldi indietro.
La terza, non molto diversa, prevede invece di comprare un particolare prodotto per indossarlo, fare una foto o un video da pubblicare sui social network, e poi restituirlo: si fa in particolare per stare dietro ai “microtrend” passeggeri che vanno di moda su TikTok o Instagram per poche settimane e dare l’impressione di avere un guardaroba molto più vario e ampio di quanto non sia in realtà.
Secondo un sondaggio svolto dall’azienda di logistica per e-commerce ZigZag su duemila famiglie nel Regno Unito, il 69 per cento degli intervistati appartenenti alla generazione Z (i nati tra 1997 e 2012 circa) almeno una volta ha ordinato più prodotti del necessario, pianificando fin da subito di rendere almeno una parte dell’ordine. I più giovani, aggiunge Vogue, sono quelli che più sono abituati ad acquistare online, e quelli che più hanno interiorizzato l’idea che sia legittimo comprare qualcosa su internet soltanto per provarla, senza necessariamente volerla tenere.
In questo contesto, le aziende devono capire come trovare un equilibrio tra la necessità di trattenere i clienti – abituati ormai a politiche sui resi molto flessibili e pronti a fare shopping altrove in caso queste politiche siano troppo stringenti – e limitare il numero di resi. Le aziende, infatti, spesso non sono felici di riavere indietro i prodotti rimborsati: devono addossarsi il costo della restituzione, della logistica e del trasporto, oltre a quello delle persone che si occupano di tutto il processo di stoccaggio, che prevede l’ispezione dei pacchetti, il controllo qualità, l’eventuale sanificazione e il re-imballaggio.
A questo si aggiunge un ulteriore costo, molto più rilevante per la collettività: quello ambientale. Spostare tutta questa merce avanti e indietro, inutilmente, produce un’enorme quantità di anidride carbonica, che si aggiunge a quella già prodotta dalla normale logistica. E non c’è solo questo. Secondo le stime, soltanto il 50 per cento circa degli abiti che vengono restituiti viene poi rivenduto. Gli altri, invece, contribuiscono ad aggravare il problema dello smaltimento di milioni di capi fast-fashion che vengono buttati via ogni anno, e che vengono spesso gettati in grandi montagne di rifiuti come quelle, ormai molto note, che esistono nel deserto di Atacama, in Cile. Alcune aziende hanno provato a sottolineare l’impatto ambientale dei resi sui propri siti, nella speranza di influenzare così il comportamento dei consumatori e responsabilizzarli.
Altre stanno adottando degli approcci più diretti. Siti come Zara, H&M e Boohoo hanno nel tempo alzato il costo dei resi. Asos ha cominciato a individuare i clienti con un tasso di restituzione sospettosamente elevato per vietare loro di rendere i prodotti, a meno che non ne tengano almeno l’equivalente di 40 euro. Marchi e rivenditori di fascia più alta, come Ssense o Saks, hanno introdotto un divieto di acquisto a vita ai clienti con un tasso di restituzione troppo elevato. E il sito Net-a-Porter si riserva il diritto di fare lo stesso se scopre che i vestiti resi sono stati usati prima per «scopi commerciali, imprenditoriali o professionali».
In altri casi c’è chi ha preferito soluzioni tecnologiche: la startup EcomID, per esempio, offre a i siti di e-commerce la possibilità di analizzare le abitudini di spesa dei loro clienti per decidere il costo di reso da proporre. In pratica, vuol dire che ai clienti che rendono meno spesso i prodotti vengono offerti resi gratuiti o molto economici, e a quelli che lo fanno troppo spesso vengono offerte condizioni molto meno vantaggiose. Tra i loro clienti c’è anche il gruppo H&M. Un’altra soluzione è quella di offrire strumenti avanzati per identificare la taglia giusta per il cliente prima dell’acquisto, in modo da minimizzare la necessità di comprare varie taglie per trovare quella perfetta.
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