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  • Lunedì 23 dicembre 2024

14 mesi nascosti in una chiesa

Nell'unica parrocchia cattolica nella Striscia di Gaza vivono da rifugiate circa 500 persone, alcune delle quali hanno paura anche solo a uscire in cortile

La celebrazione della messa del Venerdì santo nella chiesa della Sacra Famiglia a Gaza, il 29 marzo 2024 (AFP/ANSA)
La celebrazione della messa del Venerdì santo nella chiesa della Sacra Famiglia a Gaza, il 29 marzo 2024 (AFP/ANSA)
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Domenica 22 dicembre il patriarca latino di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa, la massima autorità della Chiesa cattolica in Israele e Palestina, Giordania e Cipro, ha celebrato la messa di Natale nella chiesa della Sacra Famiglia, nella città di Gaza, nel nord della Striscia. Non è stata una messa ordinaria, come tante che vengono celebrate nel mondo in questo periodo. Erano mesi che Pizzaballa cercava di raggiungere la chiesa della Sacra Famiglia di Gaza, l’unica chiesa cattolica della Striscia, nei cui locali dall’inizio della guerra con Israele vivono circa 500 persone. Si sono nascoste e rifugiate lì all’inizio della guerra, e alcune di loro non mettono piede all’esterno dall’ottobre del 2023.

La maggior parte sono fedeli cristiani, cattolici e ortodossi, ma ci sono anche tre sacerdoti, cinque suore e 58 persone musulmane con disabilità, quasi tutte bambini che hanno bisogno di cure speciali.

Prima dell’inizio della guerra, nella Striscia di Gaza vivevano poco più di mille persone di fede cristiana, fra cui circa 150 cattolici e tutti gli altri greco-ortodossi, su una popolazione di circa 2,2 milioni di persone. Da allora alcune decine sono fuggite dalla Striscia e 46 sono morte a causa delle condizioni di vita o uccise dai bombardamenti. Quasi tutte quelle che rimangono vivono rifugiate nel complesso della chiesa della Sacra Famiglia, oppure in quello della chiesa di San Porfirio, una chiesa ortodossa poco distante. Infine, circa una quarantina di fedeli è rimasta nel sud della Striscia.

Nell’ultimo anno la chiesa della Sacra Famiglia è «diventata un ospedale, un cimitero e soprattutto un rifugio», ha detto il parroco della chiesa Gabriel Romanelli, in un’intervista telefonica con il quotidiano spagnolo El País. Il giorno dell’attacco del 7 ottobre Romanelli si trovava fuori dalla Striscia ed è riuscito a rientrare solo a maggio del 2024.

La chiesa della Sacra Famiglia, nel 2022 (Wikimedia Commons/Dan Palraz)

Per via della situazione critica e dei ricorrenti bombardamenti dell’esercito israeliano sulla Striscia, la chiesa si era preparata per affrontare una situazione di emergenza ben prima dell’ottobre del 2023, mettendo da parte materassi, coperte, batterie e cibo non deperibile per ospitare circa 80 persone per alcuni giorni. Queste scorte però sono finite molto velocemente, dato che nei primi giorni della guerra nella chiesa si erano rifugiate già 200 persone: fra loro c’è anche Mousa Ayyad, fra i dirigenti dell’ospedale di al Ahli.

Da qualche tempo però la comunità riceve aiuti umanitari dalla Chiesa cattolica, fra cui cibo e medicinali, grazie al supporto logistico di organizzazioni umanitarie cristiane e dell’Ordine di Malta. Questi aiuti vengono razionati e distribuiti anche con le migliaia di famiglie che abitano appena fuori dal complesso e che sono rimaste nel nord della Striscia, una delle aree più bombardate nell’ultimo anno.

Anche per via degli intensi bombardamenti ormai da diversi mesi moltissime persone non escono dalla struttura, nemmeno nel cortile interno, per paura di essere colpite. A dicembre del 2023 dei cecchini israeliani uccisero due donne, una madre e sua figlia, e ferirono altre sette persone all’interno del perimetro della struttura. L’esercito israeliano aveva detto di sospettare che all’interno della parrocchia ci fossero dei lanciamissili di Hamas. Il 17 ottobre 2023 l’esercito aveva bombardato anche uno degli edifici della chiesa ortodossa di San Porfirio, uccidendo 18 persone.

Le rovine di una parte della chiesa di San Porfirio dopo il bombardamento israeliano (EPA/MOHAMED HAJJAR/ANSA)

Parlando delle persone che vivono dentro la chiesa, il patriarca Pizzaballa ha detto che «hanno trovato rifugio lì all’inizio della guerra e, nonostante tutte le richieste di evacuazione dell’esercito [israeliano], hanno deciso di rimanere, come molti altri. Prima di tutto perché non sanno dove andare. Non hanno un posto. Non c’è un posto sicuro a Gaza, né a nord né a sud».

Nonostante la situazione molto complicata, la chiesa rimane effettivamente un luogo più sicuro di altri. Periodicamente riesce a raccogliere acqua da un pozzo che si trova all’interno della struttura e grazie a dei pannelli solari installati sui tetti riesce ad avere un po’ di energia che serve per ricaricare le batterie che vengono utilizzate in moltissimi modi: per tenere accesi i telefoni, ma anche per purificare l’acqua.

Romanelli ha detto al País che dentro la chiesa le persone si sono organizzate in comitati per occuparsi della cucina e dell’acqua, delle pulizie, della sicurezza, dell’assistenza agli anziani e ai malati e anche della scuola: da quando è tornato, lo scorso maggio, ha organizzato un programma di lezioni per 150 studenti, a cui un gruppo di persone fa lezione a turno. Regolarmente viene celebrata la messa. Ogni giorno intorno alle 20 Romanelli riceve una telefonata da Papa Francesco, che come lui è argentino, che si informa della situazione.

In questi giorni la comunità ha organizzato il suo secondo Natale dall’inizio della guerra, addobbando l’albero e allestendo un presepe. Dopo che gli era stato negato l’ingresso nella Striscia il 20 dicembre, Pizzaballa è riuscito ad arrivare a Gaza, accompagnato dal suo vice, da due suore e un convoglio di auto della Caritas. È stata la sua seconda visita dall’inizio della guerra: la prima era avvenuta a maggio.