• di Stefano Marinelli
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  • Lunedì 23 dicembre 2024

I molti problemi e i lenti progressi della giustizia penale internazionale

«L’inefficacia nel far eseguire i mandati di arresto contro Putin e Netanyahu non dipende dai difetti di un singolo procuratore o di un singolo stato, ma da un difetto strutturale della giustizia internazionale che è priva del potere di far eseguire le proprie decisioni. Ma in anni in cui gravi crimini internazionali vengono perpetrati in maniera manifesta, con i responsabili che ostentano sicurezza per la propria impunità, la giustizia internazionale sta vivendo un’evoluzione silenziosa. La denuncia di violazioni delle regole internazionali, anche quando perpetrate dagli stati più potenti, e il proliferare di strumenti locali per far fronte alle atrocità di regimi e guerre, costituiscono la funzione più realistica e realizzabile della giustizia internazionale nelle condizioni attuali»

Il presidente russo Vladimir Putin incontra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Gerusalemme, Israele, 25 giugno 2024 (Kobi Gideon / GPO via Getty Images)
Il presidente russo Vladimir Putin incontra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Gerusalemme, Israele, 25 giugno 2024 (Kobi Gideon / GPO via Getty Images)
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Il recente mandato d’arresto della Corte penale internazionale contro Benjamin Netanyahu sembra ricalcare quello emesso nel marzo del 2023 contro Vladimir Putin, accusato di crimini internazionali senza che l’uomo fosse fermato, né che le operazioni militari in Ucraina ne fossero scalfite. Le decisioni degli organismi di giustizia internazionale – difficilmente distinguibili per chi legge e a volte anche per chi scrive – sembrano accomunate da un aspetto: dopo la loro adozione, non succede niente di significativo né agli accusati, né sul campo. Le persone incriminate e i loro sostenitori gridano allo scandalo e all’oltraggio, mentre il beneficio per le vittime dei crimini rimane inesistente. Come scrisse in un commento online un esperto in materia, sarebbe bello se la Corte penale internazionale avesse il potere che i suoi critici le attribuiscono.

L’inefficacia nel far eseguire i mandati di arresto contro Putin e Netanyahu non dipende dai difetti di un singolo procuratore o di un singolo stato. La giustizia internazionale si rivela inefficace per un suo difetto strutturale: è priva del potere di far eseguire le proprie decisioni, esecuzione che a livello nazionale è demandata alle forze dell’ordine. La scelta di eseguire o meno un mandato d’arresto dipende interamente dalla volontà degli stati. È quindi inevitabile che il funzionamento dei tribunali internazionali rifletta l’equilibrio di potere tra i vari paesi, che li hanno creati in modo da conservare la sovranità necessaria affinché le loro decisioni non gli si ritorcessero contro.

Se il sostegno politico c’è, la giustizia internazionale è efficiente. È successo quando i processi di Norimberga e Tokyo punirono i leader di Germania e Giappone sconfitti nella Seconda guerra mondiale, o quando negli anni ’90 le grandi potenze riunite nel Consiglio di sicurezza dell’ONU decisero di occuparsi dei crimini commessi nelle guerre nei Balcani e in Ruanda, creando tribunali specifici che poterono pronunciare sentenze contro centinaia di persone e tenerle in custodia.

L’efficienza viene meno quando perseguire crimini internazionali non è nell’interesse delle grandi potenze. La debolezza dei tribunali è quindi strettamente legata al problema dei doppi standard, cioè dell’’applicare le regole in maniera selettiva, a seconda di chi sia lo stato o l’individuo che le viola. Da molte ricerche emerge che la giustizia del vincitore è una condizione congenita, nata insieme agli organismi di giustizia internazionali. Dopo la Seconda guerra mondiale il tribunale di Tokyo – istituito dalle potenze vincitrici Stati Uniti, Unione Sovietica e Regno Unito – non si occupò della lampante violazione del diritto bellico costituita dalle bombe su Hiroshima e Nagasaki; e così il Tribunale internazionale penale per l’ex Jugoslavia, istituito dal Consiglio di sicurezza dell’ONU (contenente le medesime potenze, più Francia e Cina) non perseguì nessuno dei casi controversi che avevano coinvolto il personale della NATO, come la distruzione di un treno di civili o di una stazione radio di Belgrado. Allo stesso modo, e per la stessa ragione, nessuna corte si è ancora occupata dei principali conflitti armati degli ultimi decenni, dall’invasione dell’Iraq del 2003 alla guerra civile in Siria, cominciata nel 2011 e appena conclusasi con la caduta del regime di Assad, dove sono coinvolti gli Stati Uniti e la Russia.

Una grande speranza per superare il problema dei doppi standard era riposta proprio nella Corte penale internazionale, tribunale fondato nel 1998 da un nuovo trattato internazionale, lo Statuto di Roma, indipendente dal Consiglio di sicurezza dell’ONU (che però conservò il potere di attivare la giurisdizione della Corte e di sospenderla per un anno). Invece dal 2002, anno in cui è entrata in funzione, fino agli ultimi mandati d’arresto, la Corte si è occupata solo di situazioni che non intaccavano gli interessi delle grandi potenze, di crimini commessi prevalentemente nel continente africano, senza oltretutto ottenere, il più delle volte, il sostegno politico necessario a perseguire i responsabili.

Russia, Cina e Stati Uniti, che non sono entrati a far parte dello Statuto, non sono vincolate a cooperare con la Corte. Le superpotenze hanno utilizzato strumentalmente il tribunale attivando la sua giurisdizione in altri stati che non aderiscono al trattato, il Sudan e la Libia, senza poi sostenerne le decisioni. E ne hanno ostacolato l’azione quando si è trattato di difendere i propri cittadini. All’indomani della sua nascita gli Stati Uniti hanno adottato una legge che autorizza il presidente a usare qualsiasi mezzo, incluso l’uso della forza, per liberare persone di nazionalità statunitense o di paesi suoi alleati detenute dalla Corte nei Paesi Bassi, tanto che la norma è stata soprannominata “legge di invasione dell’Aia”.

Il risultato è che in oltre 20 anni di attività la Corte penale internazionale è riuscita a condannare per crimini internazionali appena quattro persone, peraltro a seguito di complessi dilemmi etici (è il caso, per esempio, del militante del gruppo armato ugandese Lord’s Resistance Army, Dominic Ongwen, che ha commesso crimini internazionali dopo esserne stato vittima, essendo stato rapito dallo stesso gruppo armato e arruolato come “bambino soldato” quando aveva nove anni).

Negli anni scorsi, anche quando ne ha avuto l’occasione, la Corte ha sempre evitato di intraprendere azioni contro cittadini di grandi potenze colpevoli di crimini internazionali, come nel caso dell’attacco a una nave di aiuti umanitari a Gaza o delle indagini contro membri degli eserciti occidentali in Afghanistan. Per questo i mandati d’arresto contro Putin e Netanyahu costituiscono un’azione senza precedenti nella storia della giustizia penale internazionale. Sebbene non abbiano avuto al momento conseguenze tangibili sul campo, se non possibili limitazioni alle missioni internazionali dei leader incriminati, rappresentano un punto di svolta storico nella pratica dei tribunali, che potrebbe portare a un superamento del problema dei doppi standard, ma anche mettere a rischio l’esistenza stessa della giustizia internazionale. È quello che nei giorni scorsi ha detto la presidente della Corte Tomoko Akane, lamentando gravi minacce, pressioni e atti di sabotaggio ricevuti a seguito degli ultimi mandati d’arresto.

Il paradosso è che se la Corte penale internazionale arriva a colpire il presidente di un membro permanente del Consiglio di sicurezza come la Russia o il primo ministro di un paese alleato dei membri permanenti occidentali (Regno Unito, Francia e soprattutto Stati Uniti) fa emergere o aggrava la propria incapacità di dare esecuzione alle decisioni prese. Quello che sta accadendo è che diversi stati membri, tra cui l’Italia, stanno per la prima volta mettendo in dubbio la loro collaborazione con la Corte, sebbene le loro stesse leggi lascino poca discrezionalità nel decidere se seguirne o meno le decisioni. Più che una scelta politica, la questione chiama in causa la separazione tra poteri esecutivo e giudiziario, un indice della qualità di una democrazia. Un altro governo democratico come quello del Sudafrica, per esempio, avrebbe voluto accogliere Putin senza eseguire il mandato d’arresto, ma la magistratura locale ha ribadito l’obbligo di arrestare l’accusato e la visita del presidente russo è stata cancellata.

L’esistenza stessa di corti internazionali non è un dato scontato. Fino al secolo scorso i concetti di diritti umani, che proteggono gli individui dagli abusi degli stati, o di crimini internazionali, che colpiscono non solo le vittime dirette, ma anche la comunità internazionale nel suo complesso violando principi universali, erano pressoché inesistenti. Anche dopo la Seconda guerra mondiale, negli anni in cui si costituiva l’ONU e con essa l’attuale assetto della comunità internazionale, il primo ministro britannico Winston Churchill si oppose ai processi di Norimberga, preferendo esecuzioni sommarie per i leader nazisti. Furono il presidente degli Stati Uniti Roosevelt e il capo della Russia Stalin a insistere perché fosse celebrato un processo, il primo per il suo valore per l’opinione pubblica americana, il secondo per il suo utilizzo propagandistico.

Negli ultimi anni i tribunali internazionali sono stati meno cauti nell’occuparsi delle violazioni perpetrate dagli stati più potenti, e i mandati di arresto della Corte penale internazionale vanno in questa direzione. Un’altra tendenza recente è il forte aumento, se non l’“esplosione”, di stati che ricorrono alla giustizia internazionale per denunciare violazioni commesse da altri stati. Negli ultimi anni, per esempio, la Corte europea dei diritti umani ha visto crescere le dispute tra stati in materia di violenze di massa, come nel caso dell’Ucraina contro la Russia. Anche per la Corte europea, tra gli organismi internazionali più efficaci nell’attuare sentenze e garantire risarcimenti a individui, dare esecuzione alle decisioni nelle controversie tra stati può essere un processo lungo e complesso, in particolare in quelle contro la Russia, che dopo l’aggressione all’Ucraina del 2022 è stata espulsa dal Consiglio d’Europa, e quindi dal trattato istitutivo della Corte.

Sono aumentate anche le azioni contro le grandi potenze della Corte internazionale di giustizia, che a differenza della Corte penale internazionale è un organo dell’ONU attivo dal 1946 e si occupa di responsabilità statale e non di persone fisiche. Lo scorso luglio si è pronunciata sull’illegalità dell’occupazione dei territori palestinesi e negli ultimi anni si è occupata di accuse di genocidio, nel 2019 chiamata in causa dal Gambia per le persecuzioni dei Rohingya in Myanmar, nel 2022 dall’Ucraina per dimostrare l’infondatezza delle ragioni dell’aggressione russa, e nel 2024 dal Sudafrica per le violazioni di Israele a Gaza. Ma anche in questi casi le misure cautelari stabilite dalla Corte internazionale di giustizia hanno avuto scarse conseguenze politiche e non hanno migliorato la condizione delle popolazioni coinvolte, perché, ancora una volta, la loro esecuzione dipende dalla volontà degli stati. La tendenza a occuparsi dei crimini commessi dalle grandi potenze suggerisce un possibile passo verso il superamento del problema dei doppi standard e della giustizia dei vincitori. Ciò costituisce un punto di svolta, un passaggio necessario per ottenere una giustizia efficace oltre che imparziale.

L’efficacia della giustizia internazionale è, invece, già più affermata a livello locale con la diffusione di strumenti, istituiti sulle specificità di singoli stati, volti a sostenere processi di riconciliazione nazionale o di democratizzazione. Nel 2013 la docente di Harvard Kathryn Sikkink aveva definito una “cascata di giustizia” il recente proliferare di tribunali e commissioni internazionali nei paesi in fase di transizione democratica. Ormai in numerosi casi diffusi su tutti i continenti, dalla Tunisia alla Colombia, dal Nepal al Gambia, la giustizia per i crimini internazionali e la violazione di diritti umani si è affermata come una componente indispensabile per i processi di pace o di sostegno alla democrazia.

In Guinea è stata istituita una commissione per la riconciliazione nazionale e si sta lavorando per offrire risarcimenti alle vittime di episodi di violenza di massa attraverso meccanismi di giustizia locali, così come raccomandato dal report finale della commissione. Il processo innescato dalla commissione ha resistito anche ai cambi di regime, come il colpo di stato del 2021 che ha interrotto la transizione democratica. Nell’agosto scorso è stato infatti condannato per crimini contro l’umanità il leader militare Moussa Camara, responsabile del cosiddetto “massacro dello stadio” del settembre 2009, quando represse le proteste contro di lui nella capitale Conakry con le forze armate, che uccisero e stuprarono centinaia di persone.

L’idea alla base di questo tipo di commissioni è istituire una “giustizia di transizione”, che ponga al centro le vittime e non i carnefici, per focalizzarsi sulle esigenze delle prime, non sempre immediate da intuire. In Afghanistan, per esempio, le vittime civili di attacchi delle forze occidentali affermavano di dare importanza a una riparazione simbolica, come il riconoscimento del danno e le scuse, non meno che al risarcimento materiale offerto dagli eserciti.

Sono esempi di una giustizia riparativa, alternativa al tradizionale approccio penale solitamente limitato ai crimini più efferati, che predilige il soddisfacimento dei bisogni delle vittime rispetto alla necessità di punire i carnefici per favorire il passaggio da un conflitto armato alla pace o da un regime autoritario a una democrazia. Questo approccio, sempre più diffuso, pone al centro le parti lese e le loro esigenze mentre le persone individuate come responsabili sono invitate a riconoscere le proprie azioni, a offrire delle scuse e a contribuire alla ricostruzione del contesto sociale attraverso il raggiungimento di una verità condivisa. Pene e sanzioni verso i responsabili non sono una condizione essenziale e possono essere limitate ai casi più gravi. Un altro principio fondamentale è il focus sulla prevenzione di futuri crimini, che passa dall’individuazione delle cause strutturali, spesso sociali ed economiche, che hanno portato alla sua commissione.

L’importanza per le vittime di affermare una verità condivisa emerge anche dalle testimonianze ascoltate nei processi internazionali del passato. Antonio Cassese, docente di diritto internazionale e presidente di diversi tribunali internazionali (dall’ex Jugoslavia al Libano) scomparso nel 2011, ha raccontato la vicenda di un ex calciatore jugoslavo arrestato, torturato e costretto ad assistere agli abusi e all’omicidio della sua famiglia, che rimase in vita solo per poter testimoniare: una volta ascoltato, si tolse la vita. Per lui, riportare la propria storia e contribuire alla costruzione di una narrazione condivisa era l’unica ragione per sopravvivere.

L’economista e filosofo indiano Amartya Sen ha detto che la giustizia è un concetto astratto e difficile da definire, mentre l’ingiustizia è un elemento più tangibile, di cui tutti abbiamo un’idea precisa. In anni in cui gravi crimini internazionali vengono perpetrati in maniera palese e manifesta, con i responsabili che ostentano sicurezza per la propria impunità, la giustizia internazionale sta vivendo un’evoluzione silenziosa, come una foresta che cresce. In assenza di riforme praticabili dalle attuali istituzioni globali, la denuncia di violazioni delle regole internazionali, anche quando perpetrate dagli stati più potenti, e il proliferare di strumenti locali per far fronte alle atrocità di regimi e guerre, costituiscono la funzione più realistica e realizzabile della giustizia internazionale nelle condizioni attuali.

Vista da vicino, la giustizia internazionale ha problemi ancora più profondi di quelli evidenti dall’esterno. È incapace di far rispettare le più elementari regole a tutela della dignità umana, per problemi strutturali che discendono dalla stessa natura delle istituzioni. Da vicino, però, si vedono anche i progressi di corti che cercano per la prima volta di infrangere l’impunità garantita finora alle grandi potenze, e di strumenti locali di giustizia di transizione considerati sempre più indispensabili ai processi di riconciliazione e democratizzazione. Per quanto non abbiano prodotto risultati soddisfacenti, e rischino di far perdere il sostegno di diversi paesi, questi progressi costituiscono un punto di svolta essenziale per realizzare la grande ambizione delle corti internazionali di affermare una giustizia imparziale per contribuire a contrastare le violenze di massa.

Stefano Marinelli
Stefano Marinelli

Dopo aver studiato diritto internazionale a Londra e Ginevra, ha insegnato discipline internazionali in diverse università americane in Italia e lavorato per organizzazioni non governative nel campo della trasformazione dei conflitti. Per l'Agenzia per il Peacebuilding ha condotto monitoraggi dei processi di giustizia internazionale in Guinea, Gambia e Afghanistan. È autore del libro The International Criminal Court and the Responsibility to Protect (Routledge, 2023). È fondatore e coordinatore del blog internationallaw.blog.

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