Conviene davvero tenere i negozi aperti a Natale?
Per gran parte dei negozi e centri commerciali è un affare, un po' meno per i dipendenti
di Mariasole Lisciandro
Da quando nel 2012 il decreto cosiddetto “Salva Italia” del governo Monti liberalizzò gli orari e i giorni di apertura degli esercizi commerciali è avvenuta una sorta di cambiamento culturale, e ormai soprattutto nelle grandi città le persone si sono abituate a poter fare i loro acquisti anche nei giorni di Natale o Ferragosto.
La decisione venne presa anche perché il settore stava iniziando a risentire della concorrenza e del sempre maggiore potere delle aziende straniere, che stavano già iniziando a estendere le aperture nei propri paesi per competere con i negozi online. Ma da subito la decisione alimentò delle discussioni legate sia all’opportunità di obbligare i dipendenti a lavorare nei giorni di festa, sia al fatto stesso di introdurre nelle abitudini delle persone un bisogno che fino a pochi anni prima non esisteva, e cioè poter fare shopping in giorni in cui ci si dedicava normalmente ad altro.
Finora i negozi si sono regolati in autonomia, ma recentemente alcuni deputati di Fratelli d’Italia hanno presentato una proposta di legge per imporre la chiusura nelle festività. Pur essendo in una fase molto preliminare, si è comunque rinnovato un dibattito che va avanti da anni tra le associazioni di categoria, contrarie alle chiusure, e i sindacati, che invece sarebbero favorevoli.
La proposta prevede che gli esercizi commerciali debbano rimanere chiusi nelle sei principali festività dell’anno, cioè Capodanno, Pasqua, il primo maggio, il 15 agosto, Natale e Santo Stefano. È esclusa invece la festa della Liberazione, il 25 aprile, e la chiusura non riguarda bar, ristoranti e negozi nelle aree di servizio e negli aeroporti. Per chi dovesse rimanere aperto è prevista una sanzione da 2mila a 12mila euro, o la chiusura temporanea dell’attività nei casi più gravi o ripetuti.
Sandro Castaldo, professore ordinario di marketing dell’Università Bocconi ed esperto di tecniche della grande distribuzione, sostiene che il dibattito sulla convenienza di tenere aperti i negozi vada necessariamente distinto su due livelli: le ragioni economiche delle aziende, da un lato, e il diritto dei lavoratori al riposo e al godimento dei giorni di festa, dall’altro. I due livelli possono risultare nettamente divisi, ma in realtà sono più sovrapposti di quanto si pensi, secondo Sebastiano Grandi, professore di marketing all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza: garantire il benessere, il riposo e la soddisfazione dei dipendenti dovrebbe essere prioritario per le aziende del commercio e della grande distribuzione, sia per un’ovvia questione etica sia perché lavoratori scontenti possono essere particolarmente controproducenti in questo settore, in cui sono sempre il primo punto di contatto con i clienti.
Dal punto di vista puramente economico i centri commerciali, i supermercati e i negozi hanno tutto l’interesse a restare aperti anche nei giorni festivi: le festività natalizie, e in particolare il 25 e il 26 dicembre, portano una concentrazione di vendite che periodi normali non hanno, e questo permette loro di contribuire a coprire i costi fissi, come l’affitto o il costo del personale, che continuerebbero ad avere anche stando chiusi.
Garantiscono poi al cliente un servizio entrato ormai nelle abitudini di consumo, come fare la spesa a ridosso delle feste o comprare all’ultimo momento un regalo: abitudini che però sono nate e si sono consolidate proprio grazie alla liberalizzazione degli orari e dei giorni di apertura, e alle contestuali campagne di marketing che le hanno alimentate e hanno contribuito a renderle sempre più accettate e normali per le persone, creando in molti casi dei falsi bisogni. Oggi i supermercati sono quasi sempre aperti sette giorni su sette e anche durante le festività se ne trovano di aperti, magari con orari ridotti. Ma non è così ovunque, nemmeno nei paesi più sviluppati: in Germania o in Norvegia, per esempio, è normale che i negozi la domenica siano chiusi.
Secondo i dati dell’azienda di ricerche di mercato Nielsen, però, le settimane in cui c’è più alta concentrazione di visite e di vendite sono proprio quelle intorno alle festività principali. Dal grafico si vede che i momenti di picco dell’anno sono a Pasqua e a Natale: nella settimana di Natale del 2023, in cui la vigilia era lunedì e Natale martedì, i negozi italiani hanno venduto il 44 per cento in più dell’ultima settimana di novembre.
Questo vale soprattutto per i centri commerciali in cui c’è sia un supermercato che una serie di negozi, dove l’acquisto di necessità può portare anche allo shopping meno essenziale. Grandi fa l’esempio di un cliente di un centro commerciale che dopo aver fatto la spesa decide di fare un giro per guardare i negozi: «Se dopo aver fatto la spesa una persona passa di fianco al negozio di calze e lo trova chiuso, è difficile che ritorni lì a comprare le calze, la vendita è persa e le calze, se le servono, le compra altrove un altro giorno».
Se in passato il differimento dell’acquisto poteva rappresentare un problema tutto sommato secondario per le aziende, oggi tutto è complicato dalla possibilità di acquistare online: «Il lockdown ha insegnato che quando non è possibile andare in un negozio fisico l’online è l’alternativa», dice Castaldo. Del resto i momenti di maggior traffico dei siti di e-commerce sono proprio negli orari in cui i negozi fisici sono chiusi.
Tra i motivi di maggior contrarietà delle associazioni di categoria all’imposizione di una chiusura per legge durante i festivi c’è proprio il rischio di cedere quote di mercato all’online nei giorni di maggior afflusso. Mario Resca, presidente di Confimprese, l’ha reputata «una proposta anacronistica»; Carlo Alberto Buttarelli, presidente di FederDistribuzione, ha detto che il rischio è concreto e che «ogni euro che passa dal negozio fisico all’e-commerce è un impoverimento del territorio».
Le valutazioni di carattere esclusivamente economico, però, tengono fuori le ragioni di etica del lavoro e del consumo. Il contratto collettivo nazionale del commercio, che è la base dei rapporti di lavoro del settore, non prevede comunque che il lavoratore sia obbligato a lavorare nei festivi. Anzi prevede che debba dare l’esplicito consenso, anche se poi nella realtà le cose sono molto diverse ed è frequente che i lavoratori si trovino costretti ad accettare per compiacere l’organizzazione aziendale: sia nelle realtà più piccole, dove magari c’è scarsa possibilità di fare turni, che in quelle più grandi, dove i dipendenti hanno meno potere contrattuale.
Proprio per questo secondo gran parte dei sindacati di categoria una regolamentazione dei festivi è essenziale, poiché la sola gestione da parte delle imprese ha posto tutto l’onere delle aperture straordinarie sui lavoratori, che indietro ricevono ben poco. Secondo il contratto del commercio nei giorni festivi viene corrisposto generalmente il 30 per cento in più della retribuzione ordinaria, mentre se il lavoro è notturno la maggiorazione è del 50 per cento. Per un dipendente di quarto livello, quindi di medio inquadramento, che prende da contratto collettivo almeno 1.718 euro lordi al mese (circa 1.400 netti), sono circa 24 euro lordi in più per una giornata festiva di 8 ore lavorative, 41 se il lavoro è notturno. Sono cifre irrisorie, che non compensano il disagio per il dipendente di perdersi un giorno di festa: «La festa non si vende», dice la Filcams Cgil.
Questa retribuzione aggiuntiva è il minimo previsto dai contratti collettivi, ma per incentivare o ridurre il peso di lavorare in un giorno di festa le aziende possono offrire anche condizioni migliorative, come premi o giornate aggiuntive di riposo: è una pratica però ancora scarsamente diffusa nelle aziende italiane. Questo concorre a rendere la carriera nel settore commerciale non più particolarmente ambita.
Sebastiano Grandi fa notare che peraltro i contratti del commercio non sono in sé particolarmente generosi, soprattutto a fronte dello sforzo organizzativo che richiede lavorare in un negozio o in un supermercato: non sono normali lavori di ufficio e spesso i lavoratori devono scendere a compromessi rispetto alla loro vita familiare, in un settore dove generalmente gli stipendi sono anche sotto la media nazionale e i contratti part-time molto diffusi.
Il sindacato di categoria Uiltucs da tempo chiede che venga fissato un limite di legge alle giornate festive che un’azienda può chiedere di lavorare ai singoli dipendenti. Una sorta di tetto, dunque, visto che attualmente le aziende possono decidere arbitrariamente orari e aperture, col risultato che nei casi dove le turnazioni sono più inefficienti ci sono dipendenti che lavorano tutte le domeniche e tutti i festivi.
Secondo il segretario di Uiltucs, Paolo Andreani, alcune aziende hanno già introdotto un limite, ma sono casi isolati. «Noi comprendiamo che esiste un tema di fatturati e di disponibilità», dice. «E l’unica è convincere le grandi imprese a distribuire equamente il lavoro festivo, a distribuire equamente il disagio e pagarlo. Questo disagio va pagato». Andreani comunque ammette che soprattutto nelle città turistiche sarebbe difficile pensare di chiudere del tutto i negozi nei giorni con più gente in giro.
Secondo Grandi sarebbe peraltro nell’interesse delle stesse aziende commerciali offrire condizioni migliorative, in generale ma soprattutto nei festivi, per rendere attrattivo un settore che presto rischia di trovarsi alle prese con il problema di non trovare più lavoratori disposti a lavorare a queste condizioni. Carlo Alberto Buttarelli di FederDistribuzione dice che secondo lui il problema è proprio pensare a un nuovo modo per rendere di nuovo attrattivo di per sé il lavoro nel commercio, non tanto la questione dei giorni festivi di per sé, sulle cui chiusure si potrebbe in effetti ragionare.
Detto questo, oggi non è in vigore nessun obbligo per le attività commerciali di restare aperte nei giorni di festa, e ognuna può decidere in base alla sua convenienza e giro d’affari. Mentre rimanere aperti potrebbe essere una buona idea per un negozio del centro di una grande città turistica, lo è meno per un commerciante di un piccolo paesino isolato. Ma dato che con la liberalizzazione tutti possono rimanere aperti, talvolta aprire i giorni di Natale e Santo Stefano è quasi una necessità per i negozi, che non vogliono rischiare di perderci troppo rispetto ai concorrenti: una decisione che ricade in ultima istanza sui lavoratori.
Ci sono però alcune aziende che decidono deliberatamente di chiudere nei giorni festivi, e di farlo per una ragione etica: in Italia un esempio sono i supermercati Coop, che a Natale sono chiusi.
– Leggi anche: Perché i supermercati sono fatti così