Il difficile accordo tra Volkswagen e i sindacati, infine
È stato raggiunto dopo mesi di tensioni: sono state sventate le chiusure di vari stabilimenti, a patto di ridurre di oltre un decimo i dipendenti in Germania
Dopo tre mesi di negoziazioni e tensioni, venerdì l’azienda automobilistica Volkswagen – la più importante in Germania e in Unione Europea – ha trovato un accordo con i sindacati sul duro piano di risanamento prospettato negli scorsi mesi dalla dirigenza per far fronte alla crisi che ha colpito l’azienda e tutto il settore: per la prima volta nella storia Volkswagen aveva proposto la chiusura di alcuni stabilimenti, licenziamenti di massa e abbassamento generalizzato degli stipendi, a fronte dei quali i sindacati e il potente consiglio di fabbrica minacciavano scioperi a oltranza.
L’azienda ha promesso di tenere aperte tutte le sue fabbriche in Germania e di garantire i posti di lavoro fino alla fine del 2030, ripristinando così lo storico accordo sull’occupazione attivo dagli anni Novanta e che aveva stralciato nei mesi scorsi. L’accordo è stato raggiunto in un’ultima serie di negoziazioni durata più di 70 ore in un hotel della città di Hannover: la IG Metall, l’influente sindacato tedesco dei metalmeccanici, l’ha definito «un miracolo di Natale».
L’azienda in compenso ha ottenuto la possibilità di portare avanti senza intralci un piano di ristrutturazione comunque severo, per tornare più profittevole a fronte di vendite di auto in costante calo: prevede di risparmiare con questo accordo 4 miliardi di euro l’anno, grazie a una produzione inferiore e soprattutto con la riduzione di oltre 35mila posti di lavoro entro il 2030, attraverso prepensionamenti e uscite incentivate (su 300mila dipendenti solo in Germania, e quasi 670mila nel mondo). Il nuovo piano industriale prevederebbe nel medio termine un risparmio complessivo di 15 miliardi di euro all’anno.
La IG Metall e il consiglio di fabbrica, cioè la rappresentanza interna dei lavoratori, hanno anche accettato di rinunciare a qualsiasi aumento retributivo fino al 2031. Il piano originario prevedeva una riduzione generalizzata degli stipendi del 10 per cento. Come suggerito da tempo dai sindacati gli aumenti già concordati non saranno pagati direttamente ma serviranno a finanziare un fondo per compensare i lavoratori colpiti dalla ristrutturazione, quelli che andranno mandati via e quelli che vedranno ridursi l’orario di lavoro.
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Le attività saranno diminuite in cinque stabilimenti: tra questi c’è l’importante fabbrica di Zwickau, che perderà una linea di assemblaggio, e la sede principale dell’azienda, Wolfsburg, dove le linee produttive saranno dimezzate. Complessivamente l’azienda produrrà 734mila veicoli in meno ogni anno, su un totale di oltre 9 milioni. Sul destino di due stabilimenti in particolare c’è ancora incertezza: sebbene Volkswagen abbia detto di non volerne chiudere nessuno, ha fatto capire che cercherà di riconvertire totalmente gli stabilimenti di Dresda e di Osnabrück, e che ne valuterà anche la vendita.
«Con il pacchetto di misure raggiunto, l’azienda ha tracciato una rotta decisiva per il suo futuro in termini di costi, capacità e strutture», ha dichiarato Oliver Blume, amministratore delegato del gruppo Volkswagen. «Nessuno stabilimento verrà chiuso, nessuno sarà licenziato e il nostro storico accordo aziendale sarà garantito a lungo termine», ha dichiarato Daniela Cavallo, capo del consiglio di fabbrica della Volkswagen.
Al raggiungimento dell’accordo, di cui sia l’azienda che i lavoratori si dicono molto soddisfatti, si è arrivati dopo un periodo di scontri.
Volkswagen non andava più bene da tempo, a causa di uno strutturale calo delle vendite nei paesi europei e della perdita di quote di mercato in Cina, da sempre mercato di riferimento per l’azienda. Da simbolo del rilancio industriale del paese nel secondo dopoguerra e dell’eccellenza tedesca nel settore delle auto, l’azienda è diventata il simbolo della crisi dell’auto e dell’industria tedesca, che sta affossando l’economia della Germania, unico paese della zona euro che quest’anno sarà in recessione per il secondo anno di fila.
A settembre iniziò a circolare il piano di risanamento prospettato dall’azienda, che per la prima volta dalla sua fondazione fece capire di essere disposta a chiudere e a licenziare. Da lì è partita una lunga e complicata vertenza coi sindacati e il consiglio di fabbrica, un organo potentissimo interno all’azienda che ha avuto un ruolo enorme nelle negoziazioni. I consigli di fabbrica sono una peculiarità del sistema industriale tedesco: nascono come organi di rappresentanza dei lavoratori, quindi sono una sorta di sindacato interno all’azienda, ma hanno anche un ruolo di supervisione dell’operato della dirigenza, e al pari degli azionisti possono bloccare anche le decisioni più importanti.
Di fronte al piano di chiusure il consiglio di fabbrica di Volkswagen, di fatto il più potente e noto della Germania, ha bloccato tutto e ha avviato in collaborazione coi sindacati una serie di cosiddetti scioperi di avvertimento, cioè brevi interruzioni non annunciate dal lavoro: nelle scorse settimane vi hanno preso parte circa 100mila lavoratori dell’azienda. Daniela Cavallo, che guida il consiglio dal 2021 ed è oggi considerata la sindacalista più importante in Europa, aveva promesso scioperi a oltranza se non fosse stato raggiunto un accordo entro Natale.
A questo si è unita l’impellenza dell’azienda di rispondere alla crisi. Dall’inizio dell’anno il valore delle azioni di Volkswagen ha perso oltre il 20 per cento in borsa, ed è sceso addirittura sotto a quello che aveva dopo il cosiddetto “Dieselgate”, il grave scandalo in cui fu coinvolta nel 2015 per aver truccato i suoi motori diesel in modo da farli risultare meno inquinanti di quanto in realtà fossero, e per cui dovette spendere decine di milioni di euro per risarcire i clienti.
La crisi di Volkswagen è diventata anche un caso politico. È la più importante e iconica azienda tedesca e le sue difficoltà sono fonte di preoccupazione e imbarazzo per il governo del cancelliere Olaf Scholz, di centrosinistra e tra i più impopolari degli ultimi anni, ora accusato anche di non aver impedito il declino della società più importante del paese: se la vertenza si fosse prolungata avrebbe potuto essere un grosso problema per lui e il suo partito nella campagna elettorale che è in corso per le elezioni del prossimo 23 febbraio.