A che cosa serve sentirci belli
«Non ci sono specchi nella tundra e neppure a Dandora, e non ne immagino in un campo di concentramento o in un campo profughi, dove manca persino il bagno. Ma ovunque c’è la consapevolezza che indossare un oggetto bello o truccarsi gli occhi per mostrarsi all’altro con dignità permetta di recuperare il ricordo di una vita precedente o di credere in un futuro migliore»
«Il mondo ha bisogno di bellezza».
È Kim Holmèn a dirmelo mentre camminiamo lungo le sponde del Mar Glaciale Artico.
Sono arrivata sin qui, alle isole Svalbard, uno dei luoghi più a nord tra quelli stabilmente abitati del mondo, per incontrarlo.
È il direttore internazionale del Norwegian Polar Institute, l’agenzia del governo norvegese che monitora e mappa gli effetti del cambiamento climatico nella regione artica.
Incontrarlo non è stato semplice e men che meno pensare di poter dialogare con lui, uno dei massimi esperti di cambiamento climatico al mondo, eppure infine, siamo qui, ed è di bellezza che parliamo. Del bisogno dell’uomo di essere circondato dal bello, dalla felicità, dalla serenità.
«La scomparsa dell’orso polare è una certezza eppure continueremo a vivere, divertirci, andare al cinema e in vacanza senza accorgerci che il mondo è un po’ più povero, più spoglio», mi dice Kim Holmèn, mentre lancia sassi piatti sul mare per farli rimbalzare. L’ansia per l’intervista è svanita, siamo due esseri umani persi nella meraviglia di ciò che abbiamo davanti ai nostri occhi.
Da queste rive ghiacciate il pensiero si sposta in un altro luogo, dove il confine non è una linea rossa tracciata su una cartina che divide idealmente esseri umani e orsi polari, ma una rete in filo spinato.
Ritorno a Lesbo, nel campo profughi di Moria, dove ho incontrato Leyla.
È arrivata insieme alla sua famiglia, marito e tre figli, su un gommone dalla Libia. Ma la loro origine è il Kurdistan Iracheno, un luogo che “non esiste”.
Leyla è una donna di poco meno di quarant’anni e ha un volto bellissimo. Capelli neri folti, zigomi alti e occhi lievemente allungati, bocca carnosa.
A Lesbo vive in una tenda malconcia: qualche cuscino, due o tre coperte, pochi abiti e una trousse rosa, che ricordo come fosse ieri perché spiccava in mezzo alle sue poche e povere cose.
All’interno c’era una matita per occhi ormai ridotta a mozzicone, un rossetto e degli orecchini che Leyla indossava ogni mattina dopo essersi truccata, per mettersi fila per il cibo.
Le ho scattato una fotografia con una luce di taglio per cancellare la tenda, il filo spinato, le speranze infrante e vedere soltanto lei e i suoi occhi bellissimi.
Nella fotografia, Leyla sorride: quando la vede mi dice che per lei è importante essere in ordine, ricordarsi come era la vita “prima”. Dopo avermelo detto si mette a cantare una delle sue canzoni preferite, non comprendo le parole ma non ha nulla di triste o malinconico, è invece una melodia piacevole, allegra, e in breve anche i suoi figli iniziano a cantare.
La matita per occhi di Leyla, il suo sorriso e il canto, mi riconducono a un altro luogo e a un altro tempo: sono al kibbutz Lohamei HaGeta’ot, in Israele.
È uno dei pochi kibbutz rimasti più o meno intatti, ci abitano ancora alcuni sopravvissuti.
Tante le testimonianze dolorose del Museo dell’Olocausto che sorge alle porte del kibbutz, d’improvviso vedo qualcosa brillare in una teca: è un braccialetto in vetro.
Sembra davvero un gioiello prezioso, luccica, richiama, brilla in mezzo al buio. È stato costruito da una donna disposta a rischiare la vita pur di indossare qualcosa di bello. Il vetro, infatti, veniva sottratto dallo stabilimento Siemens & Halske dove durante il nazismo si costruiva quello che serviva all’industria bellica hitleriana, utilizzando il lavoro delle persone internate nei campi di concentramento.
Il volto della donna del braccialetto di vetro non è arrivato fino a noi, ma provo a immaginarla e a immaginare il suo gesto, semplice come quello di Leyla. Il coraggio e la resistenza passano anche dal potersi riconoscere, persino nel dolore.
Se c’è qualcosa che ho imparato nel mio lavoro, è proprio che è possibile trovare dignità e bellezza in ogni luogo e che anzi, è quella in fondo la ricerca di ogni essere umano.
In Namibia vedo una donna vendere pietre a lato della strada. Sono le stesse che potrei raccogliere camminando lungo la spiaggia, ma è il fatto stesso di lavorare e guadagnarsi da vivere ad avere che fare con la dignità.
Nella fotografia che le ho scattato, la donna posa il vassoio di plastica su cui sono poggiate le pietre, liscia le pieghe di una t-shirt ormai logora con le mani, si mette di tre quarti, una mano su un fianco, l’altro braccio abbandonato lungo il corpo, e sorride per apparire al meglio in un ritratto, bella appunto.
Nella discarica di Dandora a Nairobi, in Kenia, ho incontrato un gruppo di donne sedute su cumuli di immondizia mentre si concedevano una delle rare pause dalla raccolta dei rifiuti da smistare.
Chiacchiero un po’ e chiedo il permesso di scattare una fotografia.
Si mettono in posa: una somiglia a una regina: indossa un turbante rosa e grandi orecchini, un’altra tiene fra le mani un cappello consumato, ma se lo sistema in testa sorridendo in mezzo ai rifiuti.
– Leggi anche: La contraddizione dei marabù
E da quell’immensa distesa nera torno nell’Artico, fra i sami, antico popolo nativo d’Europa.
Sono pastori nomadi dediti all’allevamento delle renne, che vivono in uno degli ambienti più difficili per l’uomo. Nelle lunghe transumanze sulla rotta della migrazione delle renne, ciò che gli serve è un riparo sicuro, degli abiti caldi, cibo, l’essenziale per sopravvivere a temperature che possono scendere fino a -40 gradi e in luoghi dove ci sono momenti di whiteout in cui perfino scorgere i propri piedi può risultare una sfida.
Eppure i sami indossano abiti dai colori accesi, ricamati a mano con complicati decori, che raccontano a quale luogo appartengono.
Ogni sami, sia uomo o donna, porta una cintura di pelle ricamata a cui è attaccato un coltello con il manico d’osso intagliato con figure di animali artici. È uno strumento da lavoro da usare ogni giorno, come estensione naturale delle proprie mani, che serve a scuoiare, tagliare il legno e uccidere, e accompagna ogni sami per tutta la vita, dal battesimo alla morte. Oggi un abito tipico sami – un gakti – completo di cintura e scarpe in pelle e pelo di renna può arrivare a costare sino a mille euro, a volte anche di più. Insieme al gakti i sami indossano gioielli e ornamenti in argento – ma prima di scoprire l’argento si utilizzava la mica, una pietra scura che, colpita dai raggi del sole, brilla in modo straordinario. Vestiti in questo modo ogni giorno i sami affrontano la tundra artica, la sfida del ghiaccio e delle tormente in inverno, e quella del vento forte che sferza la pelle e ferisce gli occhi in estate.
Non ci sono specchi nella tundra e neppure a Dandora, e non ne immagino in un campo di concentramento o in un campo profughi, dove manca persino il bagno. Ma ovunque c’è la consapevolezza che indossare un oggetto bello o truccarsi gli occhi per mostrarsi all’altro con dignità permetta di recuperare il ricordo di una vita precedente o di credere in un futuro migliore.
È un po’ come quando alla fine di una storia d’amore o in un momento di forte cambiamento nella vita, si compra un vestito nuovo o ci si taglia i capelli per vedersi diversi e piacersi di più».
È in fondo la stessa spinta vitale, un misto di orgoglio e vanità, di voglia di rinascita e consapevolezza di sé, di bisogno di apparire al meglio anche senza uno specchio, che racconta a che cosa serve sentirci belli.