La scienza dovrebbe depoliticizzarsi?
Gli endorsement e la partecipazione nel dibattito riducono la credibilità delle istituzioni scientifiche, ma certi casi sembrano più giustificati di altri
A metà novembre, dopo l’elezione di Donald Trump alle presidenziali statunitensi, la giornalista scientifica Laura Helmuth si è dimessa dall’incarico di direttrice dell’autorevole rivista di divulgazione Scientific American, che svolgeva dal 2020. Aveva fatto molto parlare di sé, nei giorni e nei mesi precedenti, per un criticato endorsement della rivista alla candidata Democratica Kamala Harris, ma soprattutto per alcuni post su Bluesky in cui Helmuth definiva gli elettori di Trump «gretti, stupidi e intolleranti», e se la prendeva con la generazione X, di cui fa parte, perché «piena di fascisti del cazzo».
In un lungo dibattito sulle relazioni tra scienza e politica, particolarmente acceso dalla pandemia in poi, lo stile di Helmuth è stato descritto da diversi commentatori politici e studiosi come un esempio di partecipazione al dibattito che ha effetti controproducenti per la scienza. Da un lato questo tipo di approccio suscita infatti diffidenza verso l’indipendenza del metodo e dei principi fondamentali della scienza da altre istituzioni. E dall’altro lato contribuisce a ridurre la complicata discussione sulle reciproche influenze tra scienza e politica a un dibattito polarizzato e privo di sfumature in cui o l’una è subordinata all’altra, o viceversa.
Di conseguenza è aumentata negli ultimi tempi la quantità di persone che si chiedono se non sia forse più utile, per il funzionamento della società, che chi si occupa di scienza per lavoro non si occupi di politica sui media. Confermando un’impressione piuttosto diffusa, una ricerca pubblicata ad agosto su una rivista del Center for Economic Studies dell’università Ludwig Maximilian di Monaco mostra che quando scienziati e scienziate esprimono pubblicamente le loro personali opinioni politiche, come nel caso di Helmuth, la loro credibilità professionale ne risente indipendentemente dalle idee espresse.
Il gruppo autore della ricerca creò una serie di finti profili social sulla base di curriculum reali e opinioni realmente espresse su Twitter tra il 2016 e il 2022 da circa 98mila scienziati e scienziate. Sottopose quindi quei profili a un campione rappresentativo di circa 1.700 persone statunitensi. Dai risultati della ricerca emerse che gli scienziati politicamente neutrali erano considerati più credibili, mentre lo erano meno quelli che mostravano apertamente un’appartenenza politica. Le persone intervistate erano inoltre meno invogliate a leggere i testi scritti da scienziati politicamente schierati.
Un risultato in parte simile era emerso in precedenza anche da un esperimento sugli effetti degli endorsement delle riviste scientifiche, condotto durante la pandemia da Floyd Jiuyun Zhang, un economista dell’università di Stanford. Zhang chiese a un gruppo di persone che includeva sia sostenitori di Trump sia sostenitori del presidente statunitense Joe Biden di esaminare due diverse pagine della rivista scientifica Nature. Una conteneva una pagina di informazioni generiche sulla rivista, l’altra un endorsement per Biden.
I risultati dell’esperimento, pubblicati nel 2023 sulla rivista Nature Human Behaviour, mostrarono che l’endorsement generava una significativa riduzione della fiducia nella credibilità della rivista tra i sostenitori di Trump. In quel gruppo riduceva inoltre sia la voglia di informarsi sul Covid attraverso articoli di Nature sull’efficacia del vaccino, sia la fiducia nella scienza in generale. Nel gruppo che sosteneva Biden produceva invece effetti positivi ma trascurabili sulla fiducia nella scienza. Nel complesso Zhang trovò scarse prove che l’endorsement potesse cambiare le opinioni delle persone su Biden e Trump.
A settembre il saggista ed esperto di politica statunitense Tom Nichols criticò sull’Atlantic l’endorsement di Scientific American, il secondo in oltre 175 anni di storia dopo quello del 2020 (all’epoca Helmuth dirigeva la rivista da sei mesi). «Per quanto possa sembrare strano dirlo, una rivista dedicata alla scienza non dovrebbe schierarsi in una competizione politica», scrisse Nichols. Non dovrebbe farlo, secondo lui, perché non ce n’è bisogno: è molto probabile che i lettori di una rivista scientifica già sappiano che uno dei candidati ignora il significato di concetti come probabilità o revisione paritaria, per esempio.
Il fatto che una rispettata rivista scientifica esprima apertamente una preferenza per un candidato o una candidata può inoltre contribuire a creare confusione sul ruolo della scienza in una società. Sebbene i dati che la scienza fornisce siano fondamentali nel dibattito, la maggior parte delle scelte rese necessarie dalla valutazione di quei dati sono politiche: riguardano giudizi e valori la cui priorità e importanza devono essere decise dall’elettorato, possibilmente informato. «La scienza non può rispondere a queste domande; può solo raccontarci le probabili conseguenze delle nostre scelte», scrisse Nichols.
Un’opinione simile alla sua è stata espressa a novembre dalla geofisica Marcia McNutt, presidente dell’Accademia nazionale delle scienze (United States National Academy of Sciences). In un editoriale sulla rivista Science McNutt ha scritto che gli scienziati non dovrebbero mai sottrarsi al dovere di fornire dati che possano guidare le decisioni politiche, e dovrebbero anche difendere la scienza dall’interferenza della politica. Devono però «evitare la tendenza a insinuare che la scienza detti le politiche», ha aggiunto, perché «spetta ai funzionari eletti determinarle sulla base dei risultati desiderati dagli elettori e dalle elettrici».
La scienza non può dire se nell’uso delle risorse idriche, per esempio, la società debba dare priorità al sostentamento della fauna o agli allevamenti. Può però fornire previsioni sui risultati immediati e a lungo termine di queste due scelte, e di qualsiasi altra, nell’allocazione di quelle risorse. Se possibile, può anche individuare approcci che evitino il gioco a somma zero: che siano cioè a vantaggio sia della fauna che degli allevamenti. In generale, ha scritto McNutt, gli scienziati dovrebbero fare di più per «spiegare meglio le norme e i valori della scienza» e per rafforzare nel pubblico la convinzione che «la scienza, nella sua forma più elementare, sia apolitica».
Secondo diversi giornalisti, tra cui Noah Smith e Jesse Singal, negli ultimi anni Scientific American era andata ben oltre l’espressione di una preferenza politica, assumendo in diverse occasioni posizioni ideologiche che hanno screditato non solo la rivista ma tutto l’establishment scientifico. Le dimissioni di Helmuth, ha scritto Smith, sono un segnale che quell’establishment ha preso atto di avere un problema di pubbliche relazioni e sta ora cercando di migliorare la situazione.
Dalla credibilità percepita della scienza dipende, tra le altre cose, anche la comunicazione efficace dei dati e delle previsioni sul cambiamento climatico: un fenomeno scientifico ma anche una questione intrinsecamente politica. È infatti il tema rispetto al quale negli ultimi anni la politicizzazione della scienza e la partecipazione degli scienziati nel dibattito, anche nella forma dell’attivismo, sono sembrate a una parte della comunità scientifica e dell’opinione pubblica un modo giustificato, se non addirittura necessario, di comunicare l’urgenza della questione.
Da tempo si discute del ruolo degli organismi scientifici internazionali nell’affrontare questioni specifiche di grande rilevanza politica. Il più importante nel caso del cambiamento climatico è l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dell’ONU, responsabile della valutazione dei cambiamenti climatici. Gli scienziati che ne fanno parte sentono da anni la necessità di influenzare la politica affinché mitighi gli effetti catastrofici previsti sulla base delle loro scoperte. Ma allo stesso tempo uno dei principi fondamentali dell’IPCC stabilisce che il suo linguaggio sia «pertinente ma non prescrittivo per le politiche» dei paesi.
Alcuni mesi dopo l’allarmante rapporto sul clima pubblicato dall’IPCC nel 2021, gli autori di un articolo uscito sulla rivista Climate and Development, dal titolo «La tragedia della scienza del cambiamento climatico», proposero una moratoria sulla ricerca e sulla pubblicazione dei rapporti da parte dell’IPCC finché i governi non avessero fatto di più. Gli autori definirono «rotto» il contratto non scritto tra scienziati e società, in base al quale la seconda sostiene i primi con l’obiettivo di comprendere meglio il mondo e informare la politica a vantaggio della collettività.
Diversi scienziati considerano la prolungata inazione dei governi una ragione per sostenere iniziative radicali di disobbedienza civile, nella convinzione che tali azioni – per quanto penalizzanti per la reputazione e per la carriera professionale di chi le compie – siano il modo più potente di influenzare la politica e l’opinione pubblica. Ma non tutti gli scienziati sono d’accordo su questo, sebbene la maggior parte reputi insufficiente nel caso del cambiamento climatico limitarsi a condividere dati e previsioni, disse al Washington Post nel 2022 il sociologo David Meyer, insegnante alla University of California Irvine. È sempre più difficile per loro aggrapparsi alla «convinzione religiosa che far emergere la verità sia ciò che conta», disse Meyer: «Cosa fai quando ti rendi conto che devi impacchettare la verità con qualcos’altro, per salvare il mondo?».
Le attenzioni ricevute dalle iniziative di movimenti e gruppi ambientalisti formati da scienziati e accademici sembrerebbero per alcuni aspetti legittimare la politicizzazione della scienza. Nel 2022 il fisico Peter Kalmus, scienziato del clima alla NASA e attivista del gruppo internazionale Scientist Rebellion, acquisì grande popolarità dopo essere stato arrestato per essersi incatenato al portone di ingresso della sede di Los Angeles della JPMorgan Chase, il principale finanziatore di combustibili fossili al mondo.
In breve tempo Kalmus diventò il più seguito scienziato del clima su Twitter, superando l’astrofisica e climatologa canadese Katharine Hayhoe. Ma molti esperti dubitano che l’attivismo di pochi scienziati possa fare più che attirare per qualche giorno l’attenzione dei media. «Non credo ci sia un singolo approccio alla questione universalmente valido per tutti gli scienziati», disse Hayhoe al Washington Post commentando l’invito alla disobbedienza civile rivolto da Kalmus alla comunità scientifica.
In altre occasioni in cui l’oggetto del dibattito non era il cambiamento climatico, in anni recenti, la politicizzazione della scienza è sembrata una scelta meno calcolata e più arbitraria, che presentava più rischi di polarizzare il dibattito che opportunità di renderlo equilibrato e informato.
Nel 2023, per esempio, Helmuth condivise su Twitter uno studio sui passeri dal collo bianco (Zonotrichia albicollis), una specie caratterizzata da un particolare dimorfismo. Ne esistono due varianti, diverse per colore della testa: a strisce bianche o a strisce marrone chiaro. Entrambi i gruppi contengono sia maschi che femmine, ma a causa di una mutazione cromosomica i passeri dello stesso colore non possono accoppiarsi tra loro. Questo fa sì che un individuo possa di fatto accoppiarsi soltanto con un quarto della popolazione invece che con metà.
Riprendendo i titoli di altri giornali che anni prima avevano ripreso lo studio definendo questa specie «il passero con quattro sessi», Helmuth aveva utilizzato quello studio e altri come un argomento per sostenere che i sessi in natura siano disposti lungo uno spettro. La sua tesi fu estesamente criticata da diversi scienziati, tra i quali il biologo statunitense Jerry Allen Coyne.
Sul suo blog Why Evolution is True Coyne scrisse che se i sessi del passero fossero quattro, produrrebbero quattro diversi tipi di gameti, e non è così. «Se sei un biologo sano di mente e usi la definizione biologica di sesso, è un caso di specie con due sessi e due morfologie per ciascun sesso», che «è sicuramente un caso interessante, ma è profondamente fuorviante usarlo come eccezione al binarismo sessuale», aggiunse, sostenendo che Helmuth e altre persone di scienza come lei siano in malafede perché non possono non saperlo.
La mancanza di fiducia nella scienza e la crisi dell’autorevolezza degli esperti hanno sicuramente molte ragioni diverse. Ma una di queste, secondo Singal, è la tendenza di alcuni scienziati a ipotecare la propria credibilità sposando cause politiche. Questo non solo rende più difficile difendere la scienza come istituzione, ma genera un contesto favorevole al populismo reazionario che dilaga da tempo negli Stati Uniti e in gran parte dell’Europa, perché pseudoscienza e ciarlataneria prosperano quando la credibilità percepita della scienza viene meno. «Ecco come si ottiene un mondo in cui Robert Kennedy Jr. è segretario alla Salute», ha concluso Singal.
Secondo lui, chiedere agli scienziati di occuparsi più di scienza che di obiettivi politici progressisti non significa pretendere da loro di essere apolitici, o di non avere alcun ruolo nel dibattito. Possono anche intervenire, purché lo facciano in modo informato e con le dovute cautele, senza fare «prediche su come la società dovrebbe essere ordinata» e senza distorcere «dati politicamente scomodi».