La spesa militare complica il rapporto tra Meloni e Trump
Il ruolo di mediatrice che la presidente del Consiglio vuole ritagliarsi passa anche per i molti miliardi in più che dovrebbe mettere sulla difesa
Dopo la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali, si è diffusa tra vari analisti politici europei la convinzione che Giorgia Meloni possa avere un ruolo di mediatrice tra l’Unione Europea e la nuova amministrazione statunitense. È una tesi che si basa su alcuni dati concreti: la stima più volte espressa da Trump nei confronti di Meloni, il rapporto di simpatia che c’è tra lei ed Elon Musk, la notevole stabilità del governo italiano rispetto a quelli degli altri grandi paesi europei, in particolare Francia e Germania.
Tuttavia, ci sono alcune questioni rilevanti nel rapporto tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea su cui proprio l’Italia sembra essere in difficoltà, e su cui dunque il governo di Meloni dovrà prendere decisioni non semplici e ambiziose, forse impopolari, se vorrà davvero ritagliarsi un ruolo diplomatico così importante. Sono perlopiù questioni legate all’ambito militare: da un lato la necessità di aumentare le spese per la difesa, come richiesto da tempo dai governi americani e dalla NATO, l’alleanza militare di cui fanno parte i paesi nordamericani e molti paesi europei; dall’altro la disponibilità a inviare soldati italiani in Ucraina nel contesto di una missione internazionale (probabilmente sotto la guida dell’ONU) delegata a cercare un’intesa tra Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin, secondo un piano a cui starebbe lavorando lo stesso Trump.
Il rischio insomma, per Meloni, è di trovarsi su una linea di frattura tra Stati Uniti e Unione Europea più che su una di mediazione.
Alcune questioni sono più concrete e urgenti. Altre, come quella del contingente internazionale da inviare in Ucraina, sono per ora più ipotetiche e dipendono dagli imprevedibili sviluppi della guerra, nonché da eventuali negoziati. Ma su tutti questi aspetti il governo ha iniziato a ridefinire i propri orientamenti.
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Il punto più delicato in questo senso è la spesa per la difesa. Dal 2014 i paesi della NATO hanno preso l’impegno ad aumentare le risorse destinate al settore, fino almeno al 2 per cento del proprio prodotto interno lordo (PIL). Nel suo primo mandato alla Casa Bianca, Trump era stato molto netto nel denunciare i ritardi dei paesi europei a perseguire questo obiettivo. La guerra in Ucraina ha portato anche i paesi dell’Est Europa – su tutti la Polonia – e quelli baltici a pretendere una maggiore determinazione sul tema. Nella riunione della NATO a Washington, a luglio scorso, per la prima volta è stata discussa la necessità di aumentare questa soglia: portandola almeno al 2,5 per cento, anche se alcuni paesi membri hanno addirittura suggerito il 3 per cento.
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L’Italia ha finora sempre avuto un atteggiamento ambiguo. Tutti i governi hanno ribadito l’impegno a raggiungere il 2 per cento, ma hanno al contempo sostenuto la necessità di arrivarci gradualmente, tenendo conto delle ristrettezze finanziarie e dei complicati equilibri di bilancio.
Nel marzo del 2022 il ministro della Difesa Lorenzo Guerini indicò per la prima volta il 2028 come l’anno in cui ragionevolmente si sarebbe potuti arrivare al 2 per cento, e questo stesso obiettivo era stato poi confermato anche dal suo successore, Guido Crosetto. Ma è una previsione che si sta rivelando inverosimile.
Nelle previsioni ufficiali sulla finanza pubblica definite dal governo per i prossimi tre anni nella legge di bilancio, l’andamento della spesa per la difesa resta abbastanza stazionario: l’1,57 per cento nel 2025, l’1,58 nel 2026 e l’1,61 nel 2027. Una progressione molto lenta se si pensa che al momento dell’insediamento del governo di Meloni, nell’autunno del 2022, la spesa per la difesa era dell’1,54 per cento del PIL.
L’Italia si colloca così tra gli 8 paesi della NATO meno rispettosi di questo parametro, e tra questi è l’unico grande stato europeo (e l’unico del G7 oltre al Canada). Dei 31 membri, oltre all’Italia, sono attualmente sotto al 2 per cento solo Spagna, Belgio, Croazia, Lussemburgo, Portogallo, Slovenia e appunto il Canada.
Per dare un’idea di come la guerra in Ucraina ha cambiato scenari e prospettive, nel 2022 i paesi che rispettavano l’impegno del 2 per cento erano 7, oggi 23.
Il fatto è che però anche questo obiettivo minimo pare ormai superato: perché è troppo in là nel tempo e perché è troppo poco ambizioso. E la lentezza con cui molti paesi europei della NATO stanno agendo ha alimentato le irritazioni di molti politici e analisti statunitensi, non solo Repubblicani, che si dicono non più disposti a sostenere da soli più del 65 per cento delle spese della NATO: su un bilancio totale di 1.474 miliardi di dollari, nel 2024, gli Stati Uniti ne hanno spesi 967.
L’Italia, finora, ha sempre cercato di valorizzare il proprio impegno mostrando che in termini assoluti, con circa 34,4 miliardi di dollari spesi nel 2024, l’Italia è il quinto paese contributore dopo Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia. In realtà nel 2024, per la prima volta, l’Italia verrà superata dalla Polonia, che è tradizionalmente il principale fornitore europeo di truppe e contingenti per le missioni NATO.
Ma neppure queste argomentazioni valgono più granché. Lo staff dei consiglieri di Trump ha già espresso informalmente ai consiglieri diplomatici di Meloni l’esigenza di potenziare la spesa della difesa. Lo stesso è avvenuto nel corso di incontri parlamentari. Nei giorni scorsi una delegazione di parlamentari europei – 8 parlamentari in rappresentanza di 6 paesi, per l’Italia c’era Lia Quartapelle del Partito Democratico – ha avuto dei colloqui con importanti esponenti politici sia Democratici sia Repubblicani a Washington.
Rich McCormick, che è deputato Repubblicano della Georgia, veterano di guerra e uno dei membri più influenti delle commissioni Difesa e Esteri della Camera, ha esordito in modo inequivocabile chiedendo a tutti i delegati europei: «Quanto spende per la difesa il tuo paese?».
Mario Diaz-Balart, deputato della Florida vicino a Trump e con importanti incarichi nella commissione della Camera che delibera sulle spese militari, a un certo punto ha interrotto alcuni deputati europei che cercavano di spiegare la difficoltà dei loro paesi nel raggiungere gli obiettivi di spesa stabiliti dalla NATO con un perentorio «no more games» (“niente più giochetti”). I colloqui con Thom Tillis, senatore Repubblicano del North Carolina, e con Ben Cardin, senatore Democratico del Maryland che presiede la commissione Esteri, non sono andati in maniera molto diversa, così come quelli con diplomatici e analisti di vari think tank.
Meloni è consapevole di tutto ciò, e lo è anche Crosetto, che si è esposto più volte in questo senso. Meloni, che finora aveva per lo più aggirato il tema, lo ha invece affrontato martedì alla Camera in maniera diretta. Ha detto infatti che aumentare la spesa militare è anche una questione di tutela della sovranità e dell’autonomia dell’Italia, e che finché gli Stati Uniti sosterranno un peso così elevato degli impegni della NATO sarà anche impensabile evitare le loro ingerenze in questioni politiche e militari che riguardano l’Italia e l’Europa.
Ma al di là della volontà politica, sono i vincoli finanziari a rendere difficilmente raggiungibile l’obiettivo. L’Italia ha stanziato per il 2025 poco più di 32 miliardi di euro per la Difesa, pari appunto all’1,57 per cento del PIL. Per raggiungere il 2 per cento servirebbero circa 11 miliardi. Se l’obiettivo fosse innalzato al 2,5 per cento del PIL, ne servirebbe il doppio; e la cifra salirebbe a quasi 30 miliardi per raggiungere il 3 per cento del PIL. Sono somme semplicemente insostenibili per il bilancio italiano, se si pensa che l’intera manovra finanziaria, cioè il totale delle risorse stanziate dal governo per il 2025, è di circa 30 miliardi. Per questo il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha detto che già l’obiettivo del 2 per cento è «molto ambizioso», visti anche i vincoli di spesa imposti dalle norme finanziarie europee del Patto di stabilità e crescita.
Proprio a queste norme ha fatto riferimento Meloni martedì alla Camera per indicare la via che intende seguire per trovare una soluzione. Meloni ha richiamato il precedente del 2015, quando la Commissione Europea consentì che alcuni paesi si discostassero temporaneamente dei vincoli previsti dal Patto di stabilità allora in vigore per fare fronte agli effetti della crisi economica, ovvero che potessero fare più deficit (disavanzo di bilancio) senza che questo comportasse automaticamente sanzioni o procedure d’infrazione. L’Italia fu il principale beneficiario di questa “flessibilità”, negoziata dal governo di Matteo Renzi: tra il 2015 e il 2018 poté spendere circa 30 miliardi in più del previsto, che vennero utilizzati per affrontare alcune emergenze legate a calamità naturali e all’accoglienza dei migranti, per evitare l’aumento dell’IVA e per finanziare alcuni sgravi fiscali per lavoratori e imprese.
Se questa è dunque la soluzione che anche Meloni vuole perseguire, ci sono almeno tre incognite. La prima è politica: dovrà essere brava a negoziare con la Commissione e con gli altri leader e ottenere queste concessioni, cercando di sfruttare il peso politico che si è guadagnata in Europa e la debolezza di altri governi europei. La seconda è tecnica: il nuovo Patto di stabilità prevede infatti già una clausola d’emergenza che permette di non rispettare i piani di spesa e di bilancio concordati con la Commissione ai paesi che devono fare maggiori investimenti in difesa. Ma è una condizione eccezionale e temporanea, difficilmente una simile clausola può giustificare una maggiore spesa di 10 o 20 miliardi.
La terza è finanziaria, collegata alle precedenti: al di là dei vincoli e delle norme del patto di stabilità, ciò che rende difficilmente raggiungibile l’obiettivo del 2 per cento per l’Italia è lo stato piuttosto disastrato del suo bilancio. Un maggior deficit di decine di miliardi, se pure non venisse contestato dalla Commissione Europea, andrebbe comunque ad aggravare il già enorme debito pubblico italiano, che è il più alto tra i paesi sviluppati in rapporto al PIL dopo il Giappone ed è uno degli elementi che rende fragile la nostra economia, e che disincentiva gli operatori di mercato dall’investire in Italia. Sarebbe dunque molto difficile rendere compatibile un esborso rilevante, di almeno 10 miliardi nel giro di un paio d’anni, con la necessità di tenere in ordine i conti pubblici.
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