Il “caveau” dei Carabinieri con reperti e opere d’arte rubate
È in realtà il deposito di una caserma a Roma, dove convivono oggetti antichissimi e falsi che non valgono nulla
di Laura Fasani
Il primo colore che si nota, entrando, è il fucsia di un ritratto di Marilyn Monroe appeso a catene di ferro, lungo la parete di sinistra. Attira l’attenzione anche perché non c’entra niente con il frammento di lapide appoggiato sul tavolo sottostante dentro una scatola di legno, né con l’anfora antica lì a fianco. Appartengono a epoche ed estetiche piuttosto lontane, e hanno anche un’altra sostanziale differenza: il ritratto di Marilyn Monroe di Andy Warhol è un falso, non vale niente, mentre l’anfora e la lapide sono reperti archeologici di grande valore.
Il posto che custodisce queste opere d’arte si trova a Trastevere, a Roma. Non è un museo però, e solo poche persone autorizzate possono visitarlo. Lì vengono infatti conservati quadri, sculture, manufatti preziosi e reperti archeologici che devono essere catalogati, studiati, eventualmente restaurati, e poi restituiti ai legittimi proprietari, privati o pubblici. È il “caveau” – così lo chiama chi ci lavora anche se non ha porte blindate – con pezzi artistici diversissimi e di ogni epoca, che hanno una sola cosa in comune: il fatto di essere stati rubati e poi recuperati dal Comando dei Carabinieri per la Tutela del patrimonio culturale (TPC). Oltre alle opere autentiche, nel caveau ci sono moltissimi falsi, cioè riproduzioni di opere d’autore, soprattutto quadri, vendute sul mercato dell’arte e poi intercettate durante le indagini. «C’è di tutto e di più», commenta il colonnello Paolo Befera.
Il caveau si trova dentro la caserma La Marmora in via Anicia, un grande edificio circondato da telecamere che un tempo era il convento della chiesa di San Francesco a Ripa Grande, nell’adiacente piazza di San Francesco d’Assisi. Oggi è invece la sede del reparto operativo dei Carabinieri per la TPC. È anche una sorta di «magazzino vivente», dice Befera, perché anche in altre zone della caserma sono stipate decine di opere e reperti, appena portati lì dopo la confisca o pronti per essere spediti alle loro destinazioni finali. Dire quanti siano con esattezza è complicato, spiega il comando, perché il ricambio è frequente, anche se alcuni sono lì da qualche anno. Al momento ce n’è circa un migliaio.
Befera guida il reparto operativo, che ha competenza in Italia e a livello internazionale ed è composto da quattro sezioni: archeologia, antiquariato, falsificazione e arte contemporanea, e “cyber investigation”, cioè indagini informatiche. Il Comando per la TPC è un reparto particolare dell’Arma dei carabinieri: fu istituito nel 1969 per, appunto, dedicarsi alla tutela del patrimonio culturale italiano e per questa ragione dal 1975 lavora a stretto contatto con il ministero della Cultura. La sede centrale è a Roma, poi ci sono i due gruppi principali di Roma e Monza che coordinano le attività di altri quattordici nuclei, distribuiti in varie città italiane, e della sezione di Siracusa. Nei primi anni i carabinieri che lavoravano in questo comando erano una decina, oggi sono circa 350.
Nel 2023 sono stati recuperati oltre 105mila beni culturali, più del doppio rispetto al 2022 (48.522). Complessivamente valgono più di 264 milioni di euro. Sono soprattutto dipinti e grafiche, ma anche monete antiche, sculture, oggetti religiosi di valore e, in misura minore e in netto calo rispetto all’anno prima, libri. In 54 anni di attività i Carabinieri per la TPC hanno recuperato oltre 3 milioni di beni culturali e sequestrato 1,5 milioni di opere d’arte false.
La buona parte di queste è passata dal caveau di via Anicia. «Qui lo chiamiamo così, anche se tecnicamente è un magazzino dei corpi di reato», spiega Bufera. È un deposito, come ce ne sono in ogni caserma: solo che qui invece di armi o sostanze illegali ci sono le opere d’arte. Ci si accede solo se autorizzati e accompagnati da qualcuno dell’Arma. Per entrare bisogna innanzitutto consegnare un documento d’identità all’ingresso dell’area militare, dove c’è un box per i controlli all’altezza della sbarra. Lì si aspetta la propria guida, poi insieme si entra nel corpo principale della struttura. La porta del caveau è subito a sinistra dopo l’ingresso, può aprirla soltanto il custode e si entra insieme. Il comando spiega che oltre ai Carabinieri del nucleo per la TPC ci possono entrare solo autorità, forze di polizia di altri paesi che vengono a Roma per fare formazione in quest’ambito, studenti delle scuole e delle università con visite organizzate, e giornalisti autorizzati e accompagnati.
Dentro al caveau ci si muove seguendo le indicazioni della persona responsabile della visita. È un po’ diverso da come ce lo si aspetterebbe, non ci sono grosse casseforti in vista e nemmeno teche allarmate.
Il comando dice che non è possibile entrare nei dettagli delle misure di sicurezza, ma che «sono attivi tutti i livelli di sicurezza» e la caserma è controllata 24 ore su 24 da personale militare. Lo spazio è suddiviso in due stanze. Nella prima ci sono soprattutto reperti archeologici, quadri falsi e alcune rarità, e gli strumenti di lavoro dei “tombaroli”, le persone che scavano senza autorizzazione nelle tombe antiche o in altri siti archeologici per poi rivendere manufatti e oggetti di valore; nella seconda ci sono diversi oggetti sacri insieme a opere d’arte a tema religioso.
Nella prima stanza i reperti visibili sono disposti su tavoli lungo i muri, ma ce ne sono moltissimi altri nelle scatole appoggiate sugli scaffali numerati che arrivano quasi fino al soffitto, e in altre accumulate per terra. A ogni reperto, o quadro, è legato con un filo di spago un cartellino che ne illustra le informazioni principali: il numero, la pratica giudiziaria, la descrizione, le misure, la data del sequestro, se esiste o no una sua riproduzione fotografica, il soggetto che ne ha diritto.
Tra i più notevoli in questo momento ci sono un’anfora dell’VIII secolo avanti Cristo, di cui i Carabinieri hanno recuperato i singoli pezzi in un mercato clandestino, e un grande dipinto di Giovanni Battista Caracciolo, conosciuto come Battistello, pittore napoletano vissuto tra il XVI e il XVII secolo e che si ispirò a Caravaggio. Appesi alla parete di sinistra, oltre al falso Warhol, c’è anche un falso Lucio Fontana (un’imitazione dei suoi celebri tagli nella tela).
Nella seconda stanza si trova il settore ecclesiastico, con candelabri, calici di pregio e alcuni dipinti del Quattrocento. Befera spiega che la sua squadra recupera molte opere d’arte trafugate nelle chiese, perché sono generalmente ambienti poco protetti, dove quindi è facile rubare. «Non abbiamo ancora trovato però l’opera più importante, la Natività di Caravaggio: fu rubata nello stesso anno in cui fu istituito il nucleo, il 1969, dall’oratorio di San Lorenzo a Palermo. La cerchiamo da allora», dice.
La maggior parte dello spazio della seconda stanza è occupata da un cubo di metallo che contiene una serie di griglie in cui sono incastrati i dipinti.
Tra questi ci sono alcuni presunti falsi di Amedeo Modigliani, recuperati con un recente sequestro e per i quali è in corso un procedimento, altri falsi di Giorgio De Chirico e una riproduzione dei Covoni di grano di Vincent van Gogh. Befera spiega che è molto più facile falsificare opere contemporanee: non solo per la tecnica meno complessa rispetto a, per esempio, quella usata per i dipinti del Quattrocento, ma anche perché esistono più versioni autoriali dello stesso quadro ed è pertanto più difficile per un critico e per le forze dell’ordine distinguere un falso da uno dei numerosi autentici.
Anche per questa ragione, continua Befera, oggi tra i falsari vanno moltissimo le grafiche come quelle di Banksy, perché sono assai remunerative, sono facili da riprodurre e da vendere, spacciandole per riproduzioni autentiche di una serie con una certa tiratura.
Tutte queste opere, autentiche e false, finiscono nel caveau dopo essere state confiscate durante le indagini, a cui spesso collaborano altri corpi di polizia e nel caso di inchieste fuori dall’Italia anche organizzazioni come l’Interpol e le polizie locali. Se sono ritrovate all’estero tuttavia la confisca non è immediata, specie se si trovano già all’interno di un museo: vengono avviate cause che possono durare per anni, come nel caso della disputa per l’Atleta di Fano con il Getty Museum di Los Angeles, oppure si coinvolgono altri ministeri, come quello degli Esteri, per trovare un accordo a livello diplomatico.
Per le indagini il nucleo dei Carabinieri per la TPC si avvale di una banca dati che contiene informazioni su oltre 1 milione e 300mila opere d’arte rubate o esportate illegalmente, di cui oltre 900mila sono accompagnate da una fotografia. A questa banca dati negli ultimi anni si è aggiunto un sistema di intelligenza artificiale che scandaglia i siti internet su cui vengono vendute opere d’arte, come i cataloghi delle case d’asta e i siti di e-commerce, ed è in grado di riconoscere quelle contenute nella banca dati. È stato necessario realizzare questo sistema, chiamato S.W.O.A.D.S. (Stolen Works of Art Detection System), dal momento che molte opere d’arte rubate o false vengono vendute online sui mercati internazionali.
Questo tipo di monitoraggio si è aggiunto a quello più classico, praticato da tempo, che consiste nel fare verifiche su opere e reperti esposti nei musei o in collezioni private e venduti da antiquari, case d’asta, fiere e mercatini.
Molti reperti archeologici però vengono venduti in modo illegale senza che nessuno ne abbia mai denunciato il furto, banalmente perché non si sapeva che esistessero. È il caso di molti manufatti di valore trovati dai tombaroli, che dopo averli scovati li danno solitamente ad altre persone che fanno parte di una rete criminale organizzata, e che li immettono nei mercati internazionali. Befera spiega che molti di questi reperti vengono poi trovati nei musei. Per capire se sono stati sottratti dai tombaroli gli investigatori, tra i vari metodi, esaminano le carte d’archivio dei commercianti d’arte, e provano a verificare l’esistenza di schede identificative false di quei reperti. «Ma è comunque un percorso molto più complesso rispetto a quello che permette di ricorrere alla banca dati», dice Befera.
– Leggi anche: Chi erano questi tombaroli
Un caso ancora più raro è quando si riescono a intercettare i tombaroli prima che sottraggano gli oggetti dalle tombe antiche: è successo per esempio con l’indagine che negli scorsi mesi aveva portato alla scoperta di uno scavo abusivo in un terreno privato a Città della Pieve, in provincia di Perugia. Per quella indagine erano state sequestrate otto urne funerarie in travertino bianco umbro e due sarcofagi con il relativo corredo funerario che risalgono all’età ellenistica, al III secolo a.C. Molti sono in ottime condizioni e conservano ancora tracce dei colori originali, comprese delle lamine d’oro impresse sulle sculture. Sono attualmente conservati nella caserma a Trastevere, in un’ala che si affaccia sul chiostro del convento.
Befera lo definisce «uno dei recuperi più straordinari degli ultimi venti, trent’anni».
L’autorità giudiziaria ne ha autorizzato il restauro, che sarà fatto dall’Istituto centrale per il restauro del ministero della Cultura, che già collabora attivamente con i Carabinieri. Dopodiché una commissione apposita deciderà a quale museo assegnare i reperti.
Diversamente da altri tipi di indagini, quelle su reperti o opere d’arte rubate non hanno tra gli obiettivi principali quello di punire gli autori dei furti, bensì recuperare le opere e restituirle ai luoghi ai quali erano state sottratte.
Peraltro per anni il contrabbando di oggetti di valore trafugati dai tombaroli comportò pochi rischi: prima dell’introduzione nel 2022 di sanzioni più severe in materia di reati contro il patrimonio culturale, i processi erano perlopiù sommari e piuttosto lenti, e i tombaroli non rischiavano l’arresto nemmeno in flagranza di reato. Ma anche in altri casi può essere difficile rintracciare gli autori dei furti o dei falsi, che magari sono in circolazione da anni o sono stati tramandati a lungo come eredità nelle famiglie prima di essere venduti o donati a un museo.
Mentre descrive i vari reperti archeologici esposti nel caveau, Befera dice che la «cosa più emozionante» del suo lavoro è poterli riportare nei loro luoghi, perché sono un bene collettivo. Qualsiasi oggetto di interesse archeologico, anche se trovato in terreni privati, è infatti considerato di proprietà dello Stato. «Si fanno le valutazioni economiche certo, i reperti etruschi dell’ultimo sequestro valgono circa cinque milioni di euro. Ma il loro valore è in realtà inestimabile, perché permetteranno a storici e archeologi di ricostruire un pezzo di storia che ancora mancava», dice.