A Mayotte si teme un disastro sanitario
Le persone rimaste tra le macerie a causa del ciclone stanno bevendo acqua contaminata, e il rischio di un'epidemia di colera è molto alto
Le operazioni di soccorso che si stanno svolgendo a Mayotte, il territorio d’oltremare francese che la scorsa settimana è stato colpito da un violento ciclone tropicale, procedono lentamente e con enormi difficoltà: in molte parti dell’arcipelago manca l’elettricità, i servizi di telecomunicazione sono interrotti e le organizzazioni umanitarie temono che la carenza di acqua potabile possa provocare un’epidemia di colera e di altre malattie. I pontili del porto di Mamoudzou, la capitale dell’arcipelago, sono stati distrutti, e le barche affondate. Il ciclone ha danneggiato anche la torre di controllo dell’aeroporto Marcel-Henry.
Giovedì il presidente francese Emmanuel Macron è arrivato a Mayotte con un aereo presidenziale, insieme a una ventina di persone tra medici, infermieri e personale della sicurezza civile che distribuiranno cibo e medicinali alle persone sfollate. Poche ore prima il governo francese aveva attivato per la prima volta dalla sua istituzione lo «stato di calamità naturale eccezionale», un regime speciale che comporta misure d’urgenza per garantire interventi più rapidi.
A Mayotte le persone vivono soprattutto in baracche, e molte infrastrutture erano fragili e precarie già prima dell’arrivo del ciclone. Oltre a non avere a disposizione cibo e medicinali, gli abitanti rimasti tra le rovine devono arrangiarsi con ciò che trovano, aumentando il rischio di bere acqua contaminata e di sviluppare infezioni batteriche difficili da curare. Claudia Lodesani di Medici senza frontiere ha detto a Reuters che garantire l’accesso all’acqua potabile è fondamentale per scongiurare l’epidemia di colera e di altre malattie, e ha sottolineato che nelle condizioni attuali il rischio di un’epidemia è «molto alto».
Naouelle Bouabbas, una dentista che lavora nell’unico ospedale attualmente in funzione a Mayotte, ha raccontato che «la gente è assetata, e sta già bevendo acqua sporca», mentre Ambdilwahedou Soumaila, il sindaco della capitale Mamoudzou, ha detto che molti corpi stanno iniziando a decomporsi, e che questa circostanza potrebbe creare un ulteriore problema sanitario.
L’arcipelago copre una superficie di 374 chilometri quadrati, più o meno il doppio del comune di Milano, e ha una popolazione di circa 320mila persone. Un altro fattore che complica le operazioni di soccorso è l’impossibilità di ottenere un bilancio definitivo dei decessi: secondo le autorità locali i morti sono centinaia, se non migliaia (non hanno comunicato ancora numeri precisi).
Ricavare una stima attendibile è difficile, per vari motivi. Il primo è che a Mayotte decine di migliaia di persone vivono irregolarmente. Sono soprattutto migranti: non essendo registrati come cittadini o residenti in quel luogo è come se formalmente non esistessero, e la loro morte può essere inserita nei conteggi ufficiali solo dopo il ritrovamento dei corpi. A Mayotte vivono inoltre soprattutto persone di religione musulmana, il cui rito prevede la sepoltura a 24 ore dalla morte: molti corpi sono quindi stati sepolti prima ancora che i soccorritori potessero identificarli.
Il ciclone tropicale aveva colpito l’arcipelago sabato scorso, causando piogge molto intense e raffiche di vento molto forti: secondo il servizio meteorologico francese è la tempesta più forte ad aver colpito l’area negli ultimi 90 anni. Con oltre il 77 per cento di abitanti sotto la soglia di povertà, l’arcipelago è la regione più povera tra i dipartimenti e i territori della Francia, che la colonizzò nel 1843 e oggi continua ad amministrarla.
Prima dell’arrivo del ciclone le autorità avevano emesso un’allerta e invitato la popolazione a mettersi al riparo ma, secondo quanto raccontato da un abitante del luogo all’agenzia di stampa Associated Press, molti avrebbero ignorato gli avvertimenti. Fahar Abdoulhamidi ha detto che nessuno credeva che il ciclone sarebbe stato così forte e che molte persone che vivono nelle baracche (chiamate banga) non hanno voluto lasciarle per il timore che venissero saccheggiate in loro assenza. Secondo Abdoulhamidi, inoltre, molti migranti irregolari si sarebbero rifiutati di andare nei rifugi allestiti nell’arcipelago per paura di essere espulsi.