A Latakia l’esercito assadista si dissolve dentro a un ufficio
Nel centro di riconciliazione i militari consegnano i loro fucili agli insorti in cambio di un pezzo di carta che dice che è tutto perdonato, ma è troppo presto per dire se la pace durerà
di Daniele Raineri
Latakia è la città della Siria dove gli assadisti erano più forti. Si affaccia sul Mediterraneo, ha molti condomini e un lungomare ben tenuto, e in questi anni di rivolte armate e di guerra civile non ha quasi sofferto danni materiali. È rimasta una terra a parte, protetta dai monti fortificati alle sue spalle. Non è stata conquistata dagli insorti, ma si è consegnata quando è stato abbastanza chiaro che per il regime di Bashar al Assad non c’era più nulla da fare. Chi immaginasse una Rapallo, la cittadina ligure, intoccata ai margini di un conflitto che si trascina da tredici anni avrebbe fatto un passo in avanti nella conoscenza di Latakia (però attenzione: è molto più grande).
Due giorni dopo la fuga del presidente Assad, la popolazione di Latakia si è raccolta nella piazza centrale per una grande manifestazione che celebrava la rivoluzione: «Uno uno uno, il popolo siriano è uno!» cantavano. Un’immensa bandiera della rivoluzione esposta quel giorno è ancora appesa a un ponte. A Latakia non si credeva possibile che il regime che aveva viziato e protetto la popolazione locale per cinquant’anni potesse venire giù di colpo. Ora che è successo, si vuole evitare che venga condannata una città intera.
Gli insorti comunque non hanno alcuna intenzione di farlo. Hanno aperto un centro per la riconciliazione a Latakia e altri due nella vicine Jableh e Tartous, dove i soldati assadisti possono venire a consegnare le armi. In cambio viene dato loro un pezzo di carta provvisorio che dice che non sono più nemici, ma normali cittadini della Siria post Assad.
Fuori dal centro per la riconciliazione di Jableh, che in tempi normali è il consiglio comunale, c’è una folla di uomini in abiti civili che non vedono l’ora di autodenunciarsi come soldati di Assad e si schiacciano contro il cancello. Un paio di agenti con le divise grigie del ministero dell’Interno del governo di Salvezza nazionale tengono in fila gli uomini e regolano gli ingressi. Il governo di Salvezza nazionale è quello degli insorti nella regione di Idlib e gli agenti vengono da Idlib, ma da dieci giorni e di colpo si devono occupare di tutto il paese. È chiaro che non possono pensare di vendicarsi delle truppe di Assad e devono fingere che tutto sia stato perdonato in fretta.
Non per tutti è così, soprattutto se si tratta dei vertici del regime. In un video che gira sui canali Telegram che seguono la Siria, gli insorti nella zona di Latakia prendono a calci un ufficiale di Assad con le mani legate e la faccia sanguinante e lo colpiscono in bocca con il calcio di un fucile.
Dentro il centro di Jableh, Khaled, ufficiale 24enne degli insorti, riceve seduto dietro a una scrivania gli assadisti in fila uno dopo l’altro. «Seimila negli ultimi tre giorni soltanto in questo centro», dice al Post. In un angolo della stanza c’è una catasta di fucili d’assalto. Khaled apre il cassetto più basso della scrivania: è pieno di pistole e di granate consegnate. Apre il cassetto in mezzo: uguale. Apre il cassetto più alto: pieno di chiavi di automobili militari consegnate dagli assadisti.
La maggior parte dei concilianti arriva non armata, mostra il tesserino militare, viene fotografata da un uomo in borghese con un singolo telefonino, per gli archivi, e poi ritira il pezzo di carta che dichiara l’avvenuta riconciliazione. Se porta un fucile oppure una pistola c’è un passaggio in più, un modulo in carta carbone sul quale viene scritto il numero di serie dell’arma. A chiedere ai soldati in fila, molti di mezz’età, se hanno paura, la risposta di tutti è: «No, non ho paura, va bene». Così, con un passaggio burocratico non molto più lungo dell’iscrizione a una palestra, si dissolve l’esercito assadista nella regione più assadista della Siria.
Viene in mente che cosa dicevano i neoconservatori americani, una corrente politica che appoggiava l’invasione dell’Iraq del dittatore Saddam Hussein da parte degli Stati Uniti nel 2003. Sostenevano che il cambio di regime a Baghdad sarebbe stato facile come sostituire un microchip in un computer: togli il microchip “dittatura” e inserisci il microchip “nuovo governo”. Non andò per nulla così. All’invasione americana seguirono dieci anni strazianti di combattimenti, terrorismo e sofferenze dei civili. E anche di accuse contro l’ottimismo dei neoconservatori americani.
Ecco, in Siria anche il governo degli insorti vuole farla facile, come se si trattasse di togliere il microchip “regime assadista” dal paese e inserire un nuovo microchip. Per ora non si vedono disastri, ma sono passati soltanto undici giorni. C’è una differenza con il cambio di regime in Iraq: qui i tredici anni di combattimenti, terrorismo e sofferenze dei civili ci sono già stati.
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A pochi chilometri dal centro di riconciliazione c’è l’accademia navale e davanti c’è un posto di blocco. Un insorto messo lì a fare la guardia ha sul braccio una patch in velcro con il sigillo del profeta Muhammad in bianco su fondo nero, conosciuto anche come il simbolo dello Stato Islamico. Poco dopo entra nel gabbiotto ed esce senza, forse perché si è accorto di essere osservato.
Due video girati in questi giorni a Latakia mostrano due simboli dello Stato Islamico. Il giorno della caduta della città una macchina militare con sei insorti a bordo è passata in mezzo alla folla che celebrava la fine del regime con una bandiera dello Stato Islamico e un inno del gruppo terroristico a tutto volume. Il titolo dell’inno è “Qariban qariba”, vuol dire “Presto, presto”, e il testo è tutta una minaccia sul fatto che presto un’armata, intenta ad affilare le sue spade, marcerà di notte contro i nemici per distruggerli.
Si possono fare alcune ipotesi. Potrebbe essere una bravata di alcuni miliziani non dello Stato Islamico arrivati in una città simbolo della Siria assadista, che hanno voluto fare un gesto spavaldo di sfida alla borghesia di Latakia e al potere locale. Oppure potrebbe trattarsi di una storia più specifica: sarebbero ex appartenenti al gruppo Jund al Aqsa, una fazione jihadista vicina allo Stato Islamico che un tempo era forte nella regione di Idlib e poi è scomparsa nel 2017, sconfitta dal gruppo di Abu Mohammed al Jolani (lui oggi si fa chiamare Ahmad al Sharaa, il gruppo oggi si chiama Hayat Tahrir al Sham). Alcuni ex miliziani si sarebbero arresi e riciclati come insorti e ogni tanto tirerebbero fuori i vecchi simboli.
Una patch in velcro dello Stato Islamico sul braccio a Latakia ha il potenziale di mettere in ombra la transizione pacifica di una regione da un milione di persone, mentre tutto il mondo osserva con attenzione per capire chi sono, esattamente, questi insorti e chi è il loro capo, Ahmad al Sharaa. È il siriano pragmatico che in questi giorni siede con diplomatici di tutto il mondo e annuncia elezioni? Oppure è il “foreign fighter” che vent’anni fa giurò fedeltà allo Stato Islamico?
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Pochi giorni fa alla cittadella di Aleppo, il monumento più conosciuto della città, mentre la gente sventolava festosa le bandiere verdi, bianche e nere della rivoluzione siriana, c’era anche un gruppo di miliziani di Hayat Tahrir al Sham e dietro di loro arrotolata la loro bandiera bianca con la shahada, la professione di fede islamica, scritta in nero. Alla richiesta fatta dal Post di sventolarla per una fotografia, hanno risposto: «Questa no», come se avessero ricevuto un ordine specifico di non esporla. Al Sharaa ha dichiarato che il gruppo sarà dissolto e i suoi uomini andranno a far parte del nuovo esercito siriano. Assieme, si presume, a molti dei siriani che in questi giorni si presentano ai centri per la riconciliazione.
Ci sono almeno tre punti da considerare in questa storia. Uno è che Al Jolani e lo Stato Islamico sono nemici.
Un altro è che se i miliziani a Latakia fossero davvero dello Stato Islamico non si terrebbero, ci sarebbero esecuzioni di massa e saccheggi. Quando nell’agosto del 2013 lo Stato Islamico espugnò una guarnigione assadista a Tabqa, vicino alla città di Raqqa, condusse i prigionieri in fila indiana fino a un pendio roccioso poco distante e poi li uccise a raffiche di mitragliatrice: in tutto morirono 165 soldati. Il gruppo terroristico pubblicò un video in alta definizione degli eventi di quel giorno.
Un terzo punto è che prima o poi il nuovo governo siriano si scontrerà con le fazioni estremiste che hanno combattuto per la sua instaurazione.
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Nel frattempo la vita a Latakia è normale. Traffico, ristoranti aperti, maggioranza dei negozi in piena attività, fermate dei bus affollate.
Pochi curiosi vanno e vengono da un palazzetto estivo di Assad, costruito come ci aspetteremmo dagli architetti di un dittatore mediorientale. Una grande aquila a sovrastare il cancello d’ingresso, infiniti pavimenti di marmo di Carrara e colonne anche in marmo, una piscina vuota profonda due metri, bassorilievi eroici, statue in stile classico adesso abbattute a faccia in giù.
A intervalli regolari si sente il rombo forte degli aerei da trasporto militare russi Ilyushin Il-76 che decollano dalla base di Khmeimim, tra Latakia e Tartous. A ogni decollo il cargo è seguito da un elicottero da guerra, che tiene d’occhio il terreno attorno alla pista nel caso ci fosse qualche squadra ostile che vuole abbattere l’aereo quando è più vulnerabile.
C’è un’altra base russa più all’interno, ma in questi giorni è stata svuotata, e poi c’è il porto militare di Tartous, ma le navi russe si sono spostate al largo perché in questi giorni Israele ha affondato con missili le navi siriane alla fonda a pochi moli di distanza.
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Attorno alla base di Khmeimim i miliziani di Hayat Tahrir al Sham hanno messo un paio di automobili, e aspettano senza fare nulla tutto il giorno che la situazione sia risolta a livello politico. Poco lontano ci sono i negozietti costruiti in questi nove di anni di presenza di soldati russi, il barbiere e il supermarket con l’insegna in cirillico. Fuori dai negozi ci sono un blindato russo e un soldato che dall’alto punta la strada con la mitragliatrice, come da procedura di sicurezza.
Tra il governo russo e il governo provvisorio siriano sono in corso negoziati. La Russia vorrebbe che fosse rispettato l’accordo stretto con il regime di Assad nel 2017 che garantiva una presenza di cinquant’anni delle basi militari russe su quel tratto di costa siriana. Era vantaggioso per le navi e gli aerei russi perché consentiva loro di fare rifornimento e quindi di arrivare più lontano. Le basi in Siria sono importanti per il presidente russo Vladimir Putin, che vuole far tornare la Russia allo status di potenza globale.