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  • Mercoledì 18 dicembre 2024

Ad Avignone i collettivi femministi si fanno sentire

Per sostenere Gisèle Pelicot incollano scritte sui muri della città, mettono in scena dialoghi comici e si esibiscono con un coro fuori dal tribunale, tra le altre cose

di Ginevra Falciani

Avignone, 26 novembre
(EPA/YOAN VALAT/Ansa)
Avignone, 26 novembre (EPA/YOAN VALAT/Ansa)
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Camminando per le strade del centro storico di Avignone, specialmente in alcuni quartieri, è impossibile non notare delle grosse scritte incollate sui muri: sono composte da lettere nere e viola dipinte su fogli A4 bianchi e riportano slogan femministi e frasi come «Gisèle, le donne ti ringraziano». Sono fatte da alcuni gruppi femministi locali per il processo per gli stupri subiti da Gisèle Pelicot, che si sta svolgendo al tribunale di Avignone e che finirà entro il 20 dicembre dopo più di tre mesi di udienze.

Il processo è stato uno dei più seguiti degli ultimi anni dall’opinione pubblica francese e dalla stampa nazionale e straniera. La discussione che ne è nata non ha riguardato solo i fatti (51 uomini, incluso quello che oggi è l’ex marito di Gisèle Pelicot, sono accusati di averla violentata mentre era incosciente), ma anche la cosiddetta “cultura dello stupro”, un’espressione usata per descrivere una società nella quale la violenza e gli abusi di genere sono diffusi, minimizzati e normalizzati.

Il fatto che il processo sia così seguito e abbia assunto questa importanza è conseguenza della decisione di Gisèle Pelicot di avere un processo pubblico per far arrivare la sua storia a più persone possibili, ma anche del lavoro dei gruppi femministi locali, che anche dopo le prime manifestazioni molto partecipate a livello nazionale hanno continuato ad organizzare azioni ed eventi ad Avignone e davanti al tribunale.

L’hanno fatto per sostenere Gisèle Pelicot, per mantenere alta l’attenzione su un processo che ha spostato la questione da un piano individuale a un piano collettivo e politico e per sfruttare la presenza della stampa per continuare a sensibilizzare la popolazione francese sul tema della violenza maschile contro le donne. L’hanno fatto anche per creare degli spazi in cui le persone potessero parlare delle loro esperienze di violenza e del processo, che ha inevitabilmente scosso gli abitanti di Vaucluse, la regione di Avignone e di Mazan, il paesino dove i coniugi Pelicot abitavano e dove gli stupri sono stati commessi.

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Quella delle scritte incollate sui muri (che in Francia si chiamano collages) è senza dubbio l’iniziativa più conosciuta all’estero: è una pratica che i movimenti femministi francesi adottano da anni e che ad Avignone è portata avanti da più collettivi, tra cui i Collages Féministes Rebelles 84 (il numero del dipartimento di Vaucluse).

L’attivista Blandine Deverlanges, membro del collettivo locale Les Amazones d’Avignon, racconta che questa pratica ha diverse funzioni: essendo per strada le scritte vengono lette da chiunque, anche da chi in genere non si interessa di temi femministi, e inoltre permettono di veicolare un messaggio chiaro, che non può essere distorto o mal interpretato.

Deverlanges sostiene anche che l’atto di attaccare i manifesti possa essere considerato di per sé una pratica femminista: «Le nostre azioni avvengono per la maggior parte del tempo di notte. Mostrano agli uomini che le donne possono riprendersi gli spazi notturni […] e che il nostro posto è legittimo». Quando una donna passa davanti a loro mentre stanno incollando una nuova frase le propongono sempre di partecipare. «Molte accettano», dice Deverlanges, «a volte stanno tutta la notte, a volte solo qualche minuto, a volte tornano».

Anche quella di “riprendersi la notte” è una pratica femminista che risale agli anni Settanta: nacque a Bruxelles nel 1976 durante la prima manifestazione politica internazionale di sole donne e venne replicata in molti altri paesi. Rivendicare la notte significava e significa affermare che ogni donna ha il diritto di attraversare lo spazio pubblico senza paura di essere stuprata, molestata o aggredita sessualmente.

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Nuovi manifesti vengono affissi quasi ogni settimana: sia perché spesso non passa più di qualche giorno prima che vengano strappati, sia perché alcuni sono una risposta diretta a quello che avviene dentro al tribunale. Quando Guillaume De Palma, un avvocato della difesa, sostenne in aula che «c’è stupro e stupro» (il y a viol et viol) per dire che i suoi clienti non intendevano violentare Gisèle Pelicot, in città apparvero delle scritte e degli striscioni che dicevano «un viol est un viol», ossia «uno stupro è uno stupro».

Altri manifesti hanno riportato alcune frasi dette dagli imputati durante gli interrogatori: uno di loro aveva per esempio definito le sue azioni «uno stupro dettato dalla curiosità» e un altro si era difeso dicendo che si era trattato di «uno stupro fisico» ma che «nella mia mente e nel mio cervello non avevo alcuna intenzione di commettere uno stupro». Gli avvocati della difesa hanno chiesto più volte la rimozione dei manifesti, che secondo loro violano la privacy e minano il diritto alla presunzione d’innocenza dei loro assistiti.

In particolare, nelle loro arringhe è stato molto criticato il manifesto delle Amazones d’Avignon che chiedeva «20 anni per ciascun» imputato, la pena che i pubblici ministeri hanno richiesto solo per Dominique Pelicot. Gli attacchi sono stati però una reazione generale alla decisione dei movimenti femministi di occuparsi del processo.

Le azioni attorno al processo non si sono infatti limitate alle scritte sui muri. Manon Maurin, Johanna Roudil e Juliette Latil sono tre cantanti che all’inizio del 2024 avevano fondato ad Avignone un coro femminista con l’idea di preparare uno spettacolo per l’8 marzo, che i movimenti femministi hanno ridefinito come un giorno di sciopero femminista: si chiama Le chant des déferlantes e oggi è composto stabilmente da una trentina di persone. Il nome può essere tradotto in “Il canto delle dirompenti” o “delle dilaganti”, dato che la parola “déferlantes” viene spesso usata per descrivere il movimento delle onde o la marea crescente (un’immagine spesso usata negli ultimi anni dai movimenti femministi).

Dall’inizio di settembre Le chant des déferlantes si è riunito ogni 15 giorni per cantare davanti al tribunale di Avignone, durante la pausa fra l’udienza del mattino e quella del pomeriggio. Prima di ogni appuntamento la scaletta delle canzoni viene condivisa sui loro social, così da permettere al pubblico di unirsi.

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Negli ultimi anni cori come questo sono nati in molte città francesi: come suggerisce il nome, sono specializzati in canti femministi, sia francesi che stranieri. Nel repertorio del coro di Avignone c’è per esempio “Canción Sin Miedo” (in italiano, Canzone senza paura), scritta nel 2020 dalla cantante messicana Vivir Quintana, che parla di femminicidio e che è diventata uno degli inni del movimento Non una di meno; ma anche “La lega (Sebben che siamo donne)”, una canzone popolare di fine Ottocento cantata dalle mondine che lavoravano nelle risaie del Nord Italia e ripresa dai movimenti femministi nella seconda metà del Novecento.

Per entrare a far parte di un coro femminista non bisogna essere cantanti professioniste, né essere per forza una donna cisgender: il coro di Avignone, per esempio, è composto anche da persone trans e non binarie e si ritrova per provare ogni due settimane nella sede del Centro LGBT+ di Avignone, un’associazione e un punto di ritrovo per molte realtà locali. Marion Vallejo, una medica e membro del coro, dice che «il canto è un mezzo di lotta molto potente perché ci permette di far sentire la nostra voce, ci dà coraggio e anche molta gioia, è un modo gioioso di fare militanza».

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Con altre persone del coro, a ottobre Vallejo ha anche riaperto la sezione regionale di Nous Toutes, il collettivo femminista più grande in Francia, che con la pandemia aveva smesso di riunirsi. Dice che l’idea di riaprire la sezione (che si chiama Nous Tous.tes 84) era in discussione da un po’ e l’inizio del processo aveva creato «una forte domanda di mobilitazione da tutta la regione», dove ormai, salvo che ad Avignone, governa ovunque l’estrema destra.

Specialmente all’inizio tutti parlavano del processo, tutti i giorni e in ogni ambiente, e questo era «provante» per chi aveva subito una violenza e non aveva un contesto dove si sentisse tranquilla a parlarne. Inoltre Vaucluse è un dipartimento dove abitano poco più di 500mila persone, più o meno quanto la Basilicata, ed erano diverse quelle che avevano scoperto di conoscere uno dei 51 imputati. Anche di questo si parlava spesso alle riunioni iniziali.

Questo interesse si è tradotto in una più ampia partecipazione anche agli eventi di piazza. Sabato 14 dicembre, l’ultimo weekend prima della sentenza, si è tenuto davanti al tribunale di Avignone un presidio a sostegno di Gisèle Pelicot e delle vittime di violenza organizzato da Tous.tes 84, Le chant des déferlantes, il Centro LGBT+ e altre associazioni della zona, come il Collectif Droits des Femmes. Hanno partecipato più di 700 persone, un numero che fino a un anno fa era piuttosto impensabile per Avignone.

Durante la giornata alcune organizzatrici hanno messo in scena un dialogo teatrale comico scritto a partire dalle testimonianze degli imputati, e il coro ha cantato, accompagnato dal pubblico, una decina di canzoni, fra cui anche una scritta pochi mesi fa proprio sul processo dalla fotografa Elvire Berthenet.

La canzone, chiamata “Des bons pères de famille” (Dei buoni padri di famiglia), racconta come i 51 imputati non siano mostri (come spesso vengono etichettati gli uomini che commettono violenza), ma degli «uomini ordinari» e di come la maggior parte di loro, prima del processo, conducesse una vita normale: fra loro c’è un camionista, un pompiere, una guardia carceraria, un esperto informatico che lavorava per una banca, un infermiere, un giornalista locale; 37 hanno figli e uno aveva da poco fatto domanda di adozione; 22 hanno delle compagne e 9 sono sposati o si stanno per sposare.

Davanti all’entrata del tribunale era stata organizzata una postazione con fogli e penne che chiunque poteva usare per scrivere un messaggio a Gisèle Pelicot. Alla fine del presidio erano decine i foglietti attaccati alla recinzione. In un messaggio di un ragazzo si leggeva: «Il tuo coraggio ci costringe ad aprire i nostri occhi sul male che abbiamo potuto possiamo fare in quanto uomini. Nulla sarà più come prima, promesso». Un altro, scritto con un pennarello arancione e firmato da “Marine” diceva: «Grazie Gisèle, grazie a te non ho più vergogna dello stupro che ho subito».

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