L’unico momento di confronto diretto tra presidente del Consiglio e opposizione
Sono le comunicazioni in parlamento prima del Consiglio Europeo, un rito con una sua procedura ben precisa
Quasi sempre, negli ultimi due anni, quando Giorgia Meloni ha discusso e spesso litigato con i leader dell’opposizione nelle aule parlamentari, erano i giorni che precedevano un Consiglio Europeo, cioè la riunione dei capi di stato e di governo dei 27 paesi dell’Unione. È dal 2012, infatti, in seguito all’approvazione di una legge proposta dal governo di Mario Monti e poi leggermente modificata in anni più recenti, che il presidente del Consiglio riferisce alle camere alla vigilia del Consiglio, attraverso la procedura delle cosiddette “comunicazioni”.
L’idea che ha ispirato quella norma era che, alla luce dell’influenza sempre maggiore della politica europea su quelle nazionali, fosse necessario coinvolgere maggiormente il parlamento nel dare gli indirizzi che il governo deve seguire durante i Consigli Europei. È un po’ come se il capo del governo, prima di andare a Bruxelles a discutere coi suoi omologhi, concordasse col parlamento quale orientamento seguire riguardo ai temi all’ordine del giorno del Consiglio.
Col tempo, però, questo rito parlamentare ha assunto un valore un po’ diverso. Il merito delle questioni da affrontare in Consiglio Europeo ha perso sempre più centralità nei dibattiti d’aula, e le comunicazioni sono diventate il principale momento di confronto e di scontro tra maggioranza e opposizione, anche perché sono diventati uno dei rarissimi casi in cui i leader dei partiti di opposizione possono rivolgersi direttamente al – o alla, in questo caso – presidente del Consiglio.
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Le comunicazioni seguono una procedura ben codificata e di per sé abbastanza rigida: in parte nel rispetto della legge del 2012 e delle sue modifiche, in parte nel rispetto di abitudini e prassi istituzionali ormai consolidate. Nei giorni precedenti al dibattito, un membro del governo – di solito un collaboratore del presidente del Consiglio, oppure il ministro per i Rapporti col parlamento – comunicano informalmente ai gruppi parlamentari quali sono i temi posti all’ordine del giorno del Consiglio Europeo. Questo consente di sapere, con una certa approssimazione, anche quali saranno gli argomenti affrontati dal presidente del Consiglio nel suo discorso, cosicché i vari partiti possano organizzarsi e preparare i loro interventi.
Dopodiché, nel giorno fissato per le comunicazioni, le cose si svolgono seguendo un canovaccio sempre uguale. Il presidente del Consiglio tiene il suo discorso – le comunicazioni, appunto – che è di solito piuttosto lungo e contiene un passaggio su ciascuno dei temi che verranno affrontati al Consiglio. Il presidente dice cosa ne pensa e quali posizioni intende assumere nel confronto con gli altri leader europei. Ma è ovviamente anche un discorso politico: per cui il presidente del Consiglio rivendica i successi veri o presunti del suo governo, attacca, critica o provoca le opposizioni, e insomma usa quello spazio per promuovere sé stesso e le cose fatte dal suo governo.
Ogni presidente del Consiglio ha il suo stile: alcuni sono più istituzionali, altri più battaglieri. Ma in generale questo primo intervento è di solito abbastanza pacato, e spesso noioso: anche perché, dovendo affrontare anche questioni tecniche, i presidenti del Consiglio tendono a leggere piuttosto fedelmente il discorso già scritto avvalendosi del contributo dei propri consiglieri, il che genera anche dei piccoli incidenti. Martedì scorso, per esempio, Giorgia Meloni aveva erroneamente invertito l’ordine di alcuni fogli del suo discorso alla Camera, ed è stata costretta a improvvisare un po’ in un paio di passaggi.
Poi, dopo una breve pausa, inizia il dibattito. Ogni partito prende la parola con uno o più esponenti del proprio gruppo. Al termine di questo primo giro di interventi, il presidente del Consiglio fa un nuovo discorso in cui replica agli interventi dei parlamentari, concentrandosi per lo più sulle critiche delle opposizioni. Anche queste repliche sono preparate: durante il dibattito il capo del governo si confronta coi suoi consiglieri e consulenti, con cui scambia messaggi e telefonate per ottenere chiarimenti, informazioni, elementi utili a consentirgli di ribattere in modo efficace. Anche qui, il tono della replica dipende dallo stile di ciascun presidente, ma sono di solito questi i momenti in cui il capo del governo si lascia andare di più: parla spesso a braccio, reagisce con frasi ironiche o polemiche alle obiezioni che ha ricevuto, attacca a sua volta le opposizioni.
A questo punto inizia la parte decisiva del dibattito, quella che prelude al voto. Il rito delle comunicazioni serve proprio a questo, in teoria: a fare in modo che il parlamento dia un indirizzo al governo in vista del Consiglio Europeo. E per farlo, il parlamento vota delle risoluzioni, documenti in cui vengono indicati gli impegni che i vari partiti chiedono al governo di assumersi in vista delle riunioni a Bruxelles. Sono atti vincolanti più in teoria che in pratica, nel senso che il presidente del Consiglio deve certamente tenere conto di quelle risoluzioni (che del resto sono scritte su iniziativa, o col coordinamento, del governo stesso già nelle ore o nei giorni precedenti al dibattito) ma poi prende decisioni che tengono conto anche degli equilibri politici e diplomatici che si determinano al Consiglio Europeo, e che possono variare anche a seconda di come si sviluppano le discussioni con gli altri leader e della necessità di raggiungere dei compromessi accettabili per tutti i 27 paesi dell’Unione.
Nel novembre del 2019, per esempio, Matteo Salvini accusò Giuseppe Conte di aver violato il mandato del parlamento, invocando anche l’intervento del presidente della Repubblica, sul tema del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), cioè il fondo di sicurezza finanziario per banche e paesi in difficoltà. Salvini sosteneva che l’approvazione che Conte aveva dato nell’autunno di quell’anno, quando ormai guidava un nuovo governo (insieme al PD), fosse in contraddizione con quanto previsto da una risoluzione votata dalla vecchia maggioranza di Lega e M5S nel giugno precedente, proprio in occasione delle comunicazioni del presidente del Consiglio prima di un Consiglio Europeo. Sullo stesso tema, e sempre facendo riferimento a quella risoluzione, anche Meloni nel dicembre del 2023 rinfacciò a Conte di aver dato il proprio assenso all’approvazione del MES in sede europea «col favore delle tenebre». Meloni lo fece agitando nell’aula della Camera e del Senato un documento con cui intendeva evidenziare l’incoerenza di Conte ma che in effetti, a ben vedere, smentiva la ricostruzione della stessa Meloni.
Affinché si possa arrivare al voto, però, c’è prima bisogno che il ministro per gli Affari europei, o un sottosegretario che gestisce quelle deleghe, intervenga per esprimere il parere del governo. Cioè, in sostanza, per indirizzare il voto dell’aula, o quantomeno quello della maggioranza. Le risoluzioni dei gruppi che sostengono il governo, che quasi sempre presentano un’unica risoluzione congiunta, ricevono evidentemente parere positivo; su quelle delle opposizioni, il governo o esprime parere contrario oppure propone delle riformulazioni, cioè si dice disposto a dare parere favorevole solo a patto che vengano modificate in alcuni passaggi.
Tutto ciò avviene dopo le repliche del presidente del Consiglio e prima dell’ultimo giro di interventi, quello delle dichiarazioni di voto, durante il quale un rappresentante di ciascun gruppo prende la parola per fare un discorso in cui deve annunciare come intende votare il proprio gruppo, e motivando quella decisione.
Ma questa che dovrebbe essere la parte essenziale dell’intervento è in effetti quasi sempre un breve inciso, e spesso la dichiarazione di voto viene addirittura data per scontata.
Le dichiarazioni di voto sono semmai il momento in cui gli esponenti più importanti dei vari gruppi colgono l’occasione per rivolgersi direttamente al presidente del Consiglio. I capigruppo, o i leader dei partiti, si riservano sempre questo intervento: così, infatti, possono parlare dopo le repliche del capo del governo, e incalzarlo o attaccarlo senza che questo possa ribattere di nuovo. È un modo per avere l’ultima parola.
Solo dopo si procede al voto. E lo stesso rito viene ripetuto in entrambe le camere, nello stesso giorno oppure in due giorni consecutivi, a seconda dei casi. Ultimamente si è diffusa, e con il governo Meloni si è definitivamente consolidata, l’abitudine per cui il presidente del Consiglio non pronuncia il discorso generale in entrambe le camere. Lo fa in una sola – o alla Camera o al Senato, rispettando un’alternanza che di volta in volta porta a privilegiare l’uno o l’altro – e poi consegna il discorso nell’altra, così da consentire a tutti di poterlo leggere. Ciò che avviene in entrambe, sempre, è invece il dibattito con gli interventi dei gruppi, le repliche del capo del governo e le dichiarazioni di voto.
Contestualmente, il giorno prima del Consiglio Europeo, o a volte il giorno stesso della partenza del capo del governo per Bruxelles, avviene anche il pranzo rituale dei ministri con il presidente della Repubblica. Una prassi che si è affermata stabilmente durante la presidenza di Giorgio Napolitano, che voleva in questo modo rafforzare anche simbolicamente il principio per cui il presidente del Consiglio, prima di affrontare il Consiglio Europeo, riceve un’investitura piena per rappresentare il paese.
Ma al di là del senso istituzionale di questi passaggi, il rito delle comunicazioni è diventato il momento in cui il confronto tra il capo del governo e le opposizioni raggiunge il suo massimo grado di teatralità a prescindere dal merito delle questioni in discussione al Consiglio Europeo. E questo è accaduto per vari motivi, soprattutto perché di fatto le comunicazioni sono ormai uno dei rarissimi casi in cui il capo del governo interviene in parlamento. A parte ovviamente il discorso di insediamento con cui deve ottenere la prima fiducia, e a parte i casi straordinari in cui è chiamato a riferire d’urgenza per una crisi internazionale o un fatto di particolare gravità, il presidente del Consiglio ha solo le comunicazioni come unico appuntamento fisso e ricorrente con il parlamento. Questa distanza tra deputati, senatori e capo del governo è stata spesso lamentata, talvolta portando come confronto opposto quello del parlamento inglese, dove il primo ministro riferisce all’aula di Westminster ogni mercoledì a ora di pranzo.
Anche per questo all’inizio di questa legislatura si era deciso di rendere abituali i cosiddetti “premier time”, cioè momenti in cui il presidente del Consiglio risponde in aula alle domande di deputati e senatori (anche se in maniera assai meno diretta rispetto a quanto avviene nel Regno Unito). Meloni si era impegnata col parlamento in questo senso, ma questo proposito non ha mai trovato davvero seguito, anche per via degli impegni istituzionali in Italia e all’estero, che secondo quanto spiegano i collaboratori di Meloni rendono difficile per lei trovare il tempo necessario.
Nonostante il regolamento del Senato dal luglio 2022 preveda che la presidente del Consiglio risponda al “premier time” almeno una volta ogni due mesi, finora, in oltre due anni, Meloni ha partecipato a tre “premier time”: una volta al Senato, il 23 novembre 2023, e due alla Camera, il 15 marzo 2023 e il 24 gennaio 2024. L’incontro di marzo alla Camera peraltro rimase celebre perché fu il primo momento di confronto diretto tra la presidente del Consiglio ed Elly Schlein, da poco eletta segretaria del PD.