La Guyana riprova a fare i conti con il massacro di Jonestown

Fu il più grande suicidio collettivo della storia recente, e il piano per trasformare il sito in una meta turistica ora sembra più concreto

Il cosiddetto “Tempio del Popolo” di Jonestown, Guyana, nel novembre del 1978 (AP Photo)
Il cosiddetto “Tempio del Popolo” di Jonestown, Guyana, nel novembre del 1978 (AP Photo)
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A qualche chilometro dal piccolo villaggio di Port Kaituma, nel nord della Guyana, in Sudamerica, c’è quel che rimane dell’insediamento di Jonestown, dove il 18 novembre del 1978 avvenne il più grande suicidio di massa della storia recente. In questi decenni le baracche abbandonate nel bel mezzo della giungla sono state visitate perlopiù da giornalisti e dai familiari delle oltre 900 persone che morirono per seguire il culto del discusso predicatore statunitense Jim Jones. Ora un piano per trasformarlo in una meta turistica sembra potersi concretizzare, portandosi dietro inevitabili discussioni.

Il piano è stato proposto da Wonderlust Adventures, un tour operator con sede nella capitale Georgetown, che organizza già visite nella zona: le descrive come un «invito a riflettere sulle scelte e sulle circostanze che portarono a un momento così tragico», e adesso vorrebbe farlo in modo più strutturato. L’iniziativa ha il sostegno dell’agenzia del turismo nazionale così come dell’associazione delle attività turistiche e alberghiere, ma anche del governo, ha detto ad Associated Press la ministra del Turismo, Oneidge Walrond.

Di rendere il sito un’attrazione turistica o un sito di interesse culturale in Guyana si è discusso ciclicamente, nonostante quelle che Walrond ha definito «alcune resistenze» di una parte della società.

Jonestown nel novembre del 1978 (AP Photo)

Jonestown si basava sul cosiddetto “Tempio del Popolo”, cioè il culto attorno a Jones, che era originario dell’Indiana, era bianco e aveva fondato la sua chiesa negli Stati Uniti nel 1954. Identificava sé stesso con il Messia del Cristianesimo, diceva di poter fare miracoli e, in un periodo in cui la segregazione razziale era rigidissima, sosteneva che la Bibbia fosse stata scritta dai bianchi per giustificare l’oppressione dei neri. Predicando l’uguaglianza tra le persone, in quello che descriveva come “socialismo apostolico”, ottenne una vasta notorietà soprattutto tra le comunità afroamericane.

Al picco della sua popolarità, a metà anni Settanta, il culto aveva migliaia di seguaci e perfino l’appoggio di alcuni importanti personaggi di San Francisco, dove Jones si era fatto conoscere grazie alla comune che aveva fondato nel nord della California nel 1965. Man mano però i sermoni di Jones assunsero toni più cupi e visionari, condizionati soprattutto dal timore di una catastrofe nucleare e dalla convinzione che chiunque all’infuori del culto stesse complottando contro di lui. La sua paranoia, accentuata dall’uso di amfetamine, sfociò in un controllo sempre più rigido e sistematico dei seguaci, che venivano costretti a vendere o a lasciare alla chiesa tutti i loro beni terreni, ma anche sottoposti a perquisizioni, pestaggi, lavori forzati e altri soprusi.

Le testimonianze di alcune persone fuoriuscite dal Tempio evidenziarono i lati più opachi del culto e fecero insospettire le autorità statunitensi: così nel 1977 Jones si trasferì proprio in Guyana, un’ex colonia britannica al confine con il Venezuela, dove tre anni prima aveva cominciato a fondare una comunità agricola. In pochi mesi arrivarono centinaia di persone, che era riuscito a convincere dell’imminente rischio di una catastrofe negli Stati Uniti. Al contempo, aveva cominciato a parlare della necessità che i seguaci dovessero “programmare” la loro morte come «atto rivoluzionario», «per la vittoria del popolo» contro le oppressioni.

Alcune case del “Tempio del popolo” dopo il massacro (AP Photo)

La situazione precipitò il 17 novembre del 1978, quando il deputato Democratico della California Leo Ryan fece visita a Jonestown con una troupe della NBC, alcuni giornalisti di diverse testate e una decina di parenti degli abitanti della colonia. Jones descrisse Ryan come un violento razzista, parlò di un’imminente invasione e cercò di impedire la sua visita, durante la quale molti seguaci lo avvicinarono per chiedergli aiuto. Prima che ripartissero, fece uccidere sia Ryan sia altre persone che lo accompagnavano. Poco dopo chiamò a raccolta gli abitanti della colonia e annunciò che era giunto il momento di commettere il “suicidio rivoluzionario”.

I seguaci del culto furono costretti a bere una bevanda contenente cianuro che uccideva in pochi minuti. Jones aveva ordinato di iniziare dai bambini: c’erano degli aiutanti che la somministravano anche con siringhe, mentre altri che disponevano i cadaveri in file ordinate, in modo da fare spazio. Quando quasi tutti furono uccisi si suicidarono anche le guardie di sicurezza. Jones si sparò alla tempia. L’ordine del suicidio era arrivato con dei messaggi in codice anche ai membri del Tempio rimasti in California. Nessuno di loro però lo eseguì.

In totale il 18 novembre del 1978 morirono 913 seguaci del culto: 909 a Jonestown e quattro a Georgetown. Morirono anche cinque membri della spedizione di Ryan. Più di due terzi dei membri del culto uccisi erano afroamericani: circa 300 erano anziani e 304 minorenni, di cui 131 con meno di dieci anni. La Guyana rifiutò di seppellire a Jonestown i cadaveri, che furono quindi riportati negli Stati Uniti. Solo la metà venne seppellita dai parenti: molti non avevano abbastanza soldi per pagare le spese di trasporto e di sepoltura, altri si vergognavano che un membro della famiglia fosse rimasto coinvolto nel cosiddetto “culto della morte”.

Una lapide che indica le persone morte nel massacro di Jonestown all’Evergreen Cemetery di Oakland, California, 18 novembre 2008 (EPA/ John G. Mabanglo via ANSA)

Fino a pochi anni fa il governo della Guyana non voleva avere niente a che fare con il massacro di Jonestown, a lungo l’unico motivo per cui il paese era noto all’infuori della regione, e considerato da alcuni un omicidio di massa, anziché un suicidio collettivo. Adesso però secondo Rose Sewcharran, la titolare di Wonderlust Adventures, «è arrivato il momento».

Nel 2015 al largo delle coste della Guyana è stato scoperto uno dei più grandi giacimenti di petrolio al mondo, che ha contribuito significativamente allo sviluppo economico del paese ed è peraltro tra i motivi dei tentativi di annessione di una porzione di territorio da parte del Venezuela. La nuova ricchezza ha fatto sviluppare le infrastrutture sia a Georgetown che nel resto della Guyana, e di conseguenza il governo sta tentando di incentivare il turismo, puntando anche sull’attrattività di una vicenda che tutto il mondo già conosce.

A detta di Walrond, la ministra del Turismo, rendere Jonestown un’attrazione «è possibile. Dopotutto abbiamo visto cosa ha fatto il Ruanda con la sua tremenda tragedia», ha detto riferendosi al Memoriale del genocidio di Kigali, che commemora le centinaia di migliaia di persone tutsi uccise nel giro di cento giorni nel 1994. In questo senso, Jonestown si inserirebbe nel più ampio fenomeno del cosiddetto dark tourism, o “turismo della tragedia”: la visita e l’esplorazione di luoghi legati alla morte, che per alcune persone sono esperienze macabre, sconvenienti e pruriginose, mentre per altre possono suscitare notevole interesse storico. A sua volta Sewcharran ha citato il campo di sterminio nazista di Auschwitz, in Polonia.

Comprensibilmente, questa possibilità ha suscitato un dibattito che coinvolge sensibilità e punti di vista diversi.

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Neville Bissember, professore di Legge all’Università della Guyana, ritiene che trasformare il sito del massacro in una meta turistica sia un’idea «macabra e bizzarra». In una lettera aperta si è domandato «quali parti della cultura e della natura della Guyana siano rappresentate» da un posto in cui sono state commesse atrocità contro quelli che ha definito «cittadini statunitensi passivi, che non avevano niente a che fare né con il paese né con i suoi abitanti».

Chi la tragedia l’ha vissuta in maniera più diretta invece ha opinioni contrastanti. Uno di questi è Astill Paul, il copilota del piccolo aereo che il 17 novembre del 1978 aveva portato a Jonestown Ryan, e che il giorno dopo fu testimone della sua uccisione. A detta di Paul il sito dovrebbe essere tutelato come patrimonio nazionale. Per Jordan Vilchez, che ha 67 anni, si unì al culto di Jones quando ne aveva 14 e il giorno del massacro si trovava a Georgetown, in ogni caso il sito dovrebbe essere trattato con il dovuto rispetto e raccontato con il dovuto contesto. Quel 18 novembre nel massacro morirono le sue due sorelle e due suoi nipoti.

L’area in cui oggi restano giusto le baracche abbandonate di Jonestown comunque è ancora «molto, molto, molto pericolosa», ha spiegato Fielding McGehee, ricercatore della non profit Jonestown Institute. È un posto che si può raggiungere prima con un viaggio in barca, in elicottero o in aereo, e poi percorrendo un sentiero di quasi 10 chilometri in mezzo alla giungla. Per questo anche solo renderlo accessibile richiedere una quantità di denaro che già da sola rischia di rendere il progetto impraticabile, dice. Intanto Walrond ha detto che il governo ha già cominciato a liberare l’area per fare in modo che si possa promuovere «un prodotto migliore»; sempre a suo dire per fare in modo che il piano proceda potrebbe però volerci l’approvazione del parlamento.

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