Il disegno di legge sulla sicurezza sta mettendo in difficoltà il governo
Il presidente della Repubblica ha sollevato quattro obiezioni, che Giorgia Meloni vorrebbe accogliere e Matteo Salvini invece no
L’approvazione definitiva del cosiddetto “ddl Sicurezza”, un disegno di legge promosso dal governo che interviene sui fenomeni legati alla sicurezza urbana e sull’ordinamento carcerario, si sta rivelando molto più complicata del previsto, soprattutto per le obiezioni sollevate informalmente su alcune parti del testo dal presidente della Repubblica. Il provvedimento in effetti ha seguito fin dall’inizio un percorso piuttosto accidentato: approvato dal Consiglio dei ministri nel novembre del 2023, e subito celebrato dai partiti di governo con grande enfasi, è rimasto poi per molto tempo in attesa di essere discusso dalla Camera, che lo ha approvato solo nel settembre scorso.
A quel punto sembrava che le procedure per l’approvazione al Senato sarebbero state abbastanza agevoli, e invece non è stato così. Con ogni probabilità, il disegno di legge verrà rinviato al 2025, e dopo le modifiche che verosimilmente verranno fatte al Senato dovrà poi tornare alla Camera per una terza lettura. Questo prolungarsi dell’iter sta generando tensioni nella maggioranza e anche dentro i singoli partiti: la Lega di Matteo Salvini vorrebbe approvarlo in fretta e senza alcuna correzione, e così anche alcuni esponenti di Fratelli d’Italia e di Forza Italia; ma il grosso dei partiti di Giorgia Meloni e Antonio Tajani propende invece per cambiare il testo, accogliendo le rimostranze sollevate dagli uffici giuridici della presidenza della Repubblica.
Che la situazione si stesse complicando lo si è capito in modo chiaro mercoledì, quando il governo ha convocato una riunione al Senato tra i responsabili dei partiti di maggioranza che stanno seguendo il provvedimento, in discussione nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia del Senato. In quell’occasione il ministro per i Rapporti col parlamento Luca Ciriani, di Fratelli d’Italia, ha lasciato intendere che i collaboratori del presidente della Repubblica avevano segnalato aspetti critici che prefiguravano una possibile incostituzionalità del testo e di cui dunque bisognava tenere conto. Era insomma necessario intervenire, per evitare che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella potesse trovarsi poi nella condizione di non poter promulgare il disegno di legge, generando un incidente istituzionale di un certo rilievo.
Questo annuncio ha colto di sorpresa i responsabili dei partiti di maggioranza, che invece nei giorni precedenti erano stati ben istruiti da altri esponenti di governo – e in particolare dai sottosegretari della Lega all’Interno e alla Giustizia, Nicola Molteni e Andrea Ostellari – affinché non cedessero alle richieste delle opposizioni per modificare il disegno di legge. L’indicazione era che il testo si dovesse considerare “blindato”, come si dice spesso nel gergo della politica, cioè da approvare così com’era.
Anche Salvini ha protestato esplicitamente, e il suo staff ha diffuso una nota in cui si chiedeva di votare il provvedimento «immediatamente e senza perdite di tempo»: la Lega ha anche ipotizzato di ricorrere a strumenti procedurali straordinari per far decadere gli oltre 1.500 emendamenti presentati dalle opposizioni per rallentare i lavori. Inizialmente aveva trovato sponda anche in un pezzo di Forza Italia (come il capogruppo Maurizio Gasparri) e in alcuni senatori di Fratelli d’Italia vicini al sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove.
Questa ipotesi comunque è stata accantonata anche per l’intervento dei consiglieri di Giorgia Meloni, per i quali una forzatura del genere avrebbe costituito uno sgarbo nei confronti di Mattarella. O meglio: la tesi diffusa tra i collaboratori della presidente del Consiglio è che non si debba offrire al capo dello Stato il pretesto per cogliere in fallo il governo e innescare un possibile contenzioso istituzionale, cosa che alcuni collaboratori di Mattarella, secondo alcuni dirigenti di Fratelli d’Italia, non vedrebbero l’ora di fare.
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In effetti, negli ultimi tempi sono stati diversi gli interventi dei funzionari del Quirinale (la sede della presidenza della Repubblica) per suggerire o di fatto imporre modifiche e accorgimenti a provvedimenti che stavano per essere approvati in parlamento: dalla norma sul finanziamento pubblico ai partiti inserita nel decreto fiscale fino a quella sul coinvolgimento delle Corti d’appello nelle procedure giuridiche per il riconoscimento delle domande d’asilo, o ancora a quella sulle concessioni balneari nel decreto-legge “Coesione”. È prassi che i consiglieri del presidente della Repubblica vigilino sulle procedure parlamentari, con uno scambio di pareri quotidiano e di solito collaborativo tra il Quirinale e i leader della maggioranza: ma in questi mesi questa dialettica, tradizionalmente molto discreta, è spesso emersa chiaramente e talvolta in modo conflittuale, specie per quel che ha riguardato le iniziative più identitarie e azzardate del governo.
È stata poi alimentata anche da alcune prese di posizione del capo dello Stato stesso, che hanno fatto emergere la sua insofferenza: come in occasione delle critiche ai giudici italiani da parte di Elon Musk, o come quando Mattarella ricordò, con una frase che a molti osservatori è parsa piuttosto allusiva, che da presidente della Repubblica si era trovato a dover promulgare anche leggi che non condivideva.
Nel caso del ddl Sicurezza, però, le osservazioni di Mattarella erano state illustrate già settimane fa dai suoi consiglieri sia ai collaboratori di Meloni (in particolare al sottosegretario Alfredo Mantovano), sia a quelli del ministro dell’Interno Piantedosi e della Giustizia Carlo Nordio. Sono quattro obiezioni molto precise a un testo che è per molti aspetti controverso per la sua natura estremamente securitaria: il provvedimento, formato da 38 articoli, ne contiene almeno 20 che introducono nuovi reati o che inaspriscono pene e sanzioni per quelli già esistenti.
Le osservazioni del Quirinale riguardano alcune delle parti più discusse del disegno di legge. La prima è quella che, all’articolo 15, prevede la possibilità di arrestare le donne incinte o con figli di meno di un anno in apposite strutture detentive a loro destinate. In base al disegno di legge diventa facoltativo, e non più obbligatorio, rinviare l’esecuzione della pena per queste detenute, che potranno essere destinate a «istituti a custodia attenuata», cioè con misure restrittive meno severe rispetto a un normale carcere. Per le detenute che hanno figli fino a un anno l’assegnazione a queste strutture sarà obbligatoria, mentre per quelle che hanno figli da uno a tre anni sarà il giudice a decidere se sia il caso di mandarle in un carcere ordinario: questa eccessiva discrezionalità è considerata inopportuna dai tecnici del Quirinale.
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Altre obiezioni riguardano l’articolo 32, quello che modifica il codice delle telecomunicazioni impedendo di fatto alle persone che provengono da paesi fuori dall’Unione Europea di acquistare una scheda telefonica senza esibire il proprio permesso di soggiorno. Questa viene considerata da vari osservatori come una misura illiberale e discriminatoria nei confronti di tutti i migranti, anche quelli che sono in attesa di ricevere il permesso o di vedersi riconosciute delle specifiche tutele (tutte procedure per cui spesso risulta indispensabile fare delle telefonate, peraltro).
L’articolo 26 del disegno di legge introduce il reato di «rivolta all’interno di un istituto penitenziario»: un reato con pene che vanno da 1 a 8 anni ma che con le aggravanti possono arrivare fino a 20, e che si applicherebbe pure ai detenuti che esercitano «resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti», anche se passiva: si tratta di una formulazione così vaga ed estensiva che potrebbe comprendere anche il semplice comportamento di chi fa lo sciopero della fame o di chi disobbedisce pacificamente agli agenti penitenziari, cosa per cui sono comunque già previste sanzioni disciplinari. Per i consiglieri di Mattarella questo reato va circoscritto meglio, in maniera che possa eventualmente essere applicato solo ai casi in cui la resistenza passiva prefiguri reali e concreti pericoli di sicurezza.
E poi c’è l’articolo 19, quello che introduce aggravanti ai reati di violenza o resistenza a un pubblico ufficiale nel caso in cui questi vengano commessi per impedire la realizzazione di una cosiddetta «infrastruttura strategica». È una norma che riguarderebbe, per esempio, le manifestazioni più o meno violente fatte per impedire o sabotare la costruzione di opere ritenute di grande rilevanza dal governo. Secondo gli uffici giuridici del Quirinale, serve che l’elenco di queste infrastrutture venga definito da una legge ordinaria approvata dal parlamento, e non tramite un semplice atto amministrativo (che non deve passare dal parlamento e può essere scritto con meno vincoli in un secondo momento, a legge già approvata).
Sono obiezioni molto puntuali. Per questo il ministro Ciriani spiega che le modifiche che a suo avviso è necessario apportare sono «poche, piccole e prevalentemente tecniche», e che dunque «non snaturerebbero affatto il provvedimento». Anche Meloni la pensa così.
Sembra quindi scontato che ci saranno modifiche al testo del disegno di legge, ma resta da capire in che modo farle: la maggioranza sta discutendo proprio su questo. Se fosse il governo stesso a proporle, il regolamento del Senato consentirebbe alle opposizioni di fare dei cosiddetti “subemendamenti”, cioè avrebbero la possibilità di proporre ulteriori modifiche agli emendamenti, e le procedure di voto sarebbero lunghe e complesse. L’ipotesi più agevole sarebbe quella di fare le cosiddette “riformulazioni”: significa che il governo prende spunto dagli emendamenti delle opposizioni per definirli meglio. In questo modo però i partiti di centrosinistra potrebbero rivendicare una vittoria politica, e il governo vorrebbe naturalmente evitarlo.
Di certo c’è che i tempi dell’approvazione del provvedimento si dilateranno. Dalla prossima settimana la commissione Affari costituzionali dovrà infatti sospendere l’analisi del ddl Sicurezza per iniziare a discutere del decreto-legge Milleproroghe, che ha priorità perché va convertito in legge entro sessanta giorni dalla sua entrata in vigore da entrambe le camere. È quasi sicuro, dunque, che per il ddl Sicurezza se ne riparlerà a gennaio.
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