L’attivista siriano che è stato ucciso per essersi fidato di Assad
Mazen al Hamada era rientrato in Siria con la promessa di incolumità, dopo essere già stato torturato una volta: giovedì c'è stato il suo funerale a Damasco
di Daniele Raineri
Giovedì nel centro di Damasco c’è stato il funerale di un uomo torturato e ucciso dal regime di Bashar al Assad che si chiamava Mazen al Hamada. All’uscita dalla moschea il corteo funebre si è trasformato in una manifestazione degli attivisti, che erano suoi amici e compagni, della prima fase della rivoluzione siriana contro Assad.
In testa c’era la bara chiusa coperta con la bandiera verde bianca e nera degli insorti e dietro circa tremila persone che cantavano slogan. C’era un verso classico delle rivoluzioni arabe del 2011: «Il popolo vuole la caduta del regime» mutato in «Il popolo vuole il sangue di Assad», che vuol dire: Assad deve essere condannato a morte.
Ecco una lista degli altri slogan sentiti al corteo:
«Libertà per sempre, che ti piaccia o no Assad»
«Mazen il tuo sangue non sarà dimenticato»
«Niente è per sempre niente è per sempre, viva la Siria e abbasso Assad»
«Dio è il più grande».
Mazen al Hamada, nato nel 1977, era considerato un simbolo dagli attivisti siriani. Era stato arrestato due volte nei primi anni della rivoluzione siriana, iniziata nel 2011. La seconda perché era stato sorpreso mentre tentava di far entrare di nascosto 55 scatole di latte in polvere per bambini in uno dei quartieri di Damasco assediati dalle forze di sicurezza del regime. Era stato portato nel carcere di Sednaya, diventato simbolo del sistema repressivo di Assad, e torturato.
Dopo la scarcerazione era andato in esilio nei Paesi Bassi e aveva iniziato a raccontare di come gli assadisti tentassero di reprimere le proteste con metodi sadici. Il racconto partiva da tutto quello che era successo a lui. Al primo interrogatorio gli avevano rotto le costole saltandogli sopra mentre era disteso sul pavimento perché si era rifiutato di confessare di avere un’arma e anzi aveva risposto che lui odiava le armi. Poi lo avevano preso a calci e bastonate, sempre mentre era a terra.
Alla seconda sessione di torture, raccontava Mazen, lo avevano spogliato completamente e appeso per ore all’inferriata di una finestra per le mani con due manette senza che i piedi toccassero terra, e già questa posizione causava un dolore che aveva definito insopportabile. Poi lo avevano picchiato, sodomizzato con un bastone e gli avevano stretto un morsetto di metallo attorno al pene che gli aveva causato danni irreparabili.
Al Hamada aveva deciso di parlare di queste torture umilianti ai giornalisti stranieri e davanti alle telecamere dei canali televisivi perché pensava che la sua testimonianza fosse importante e che avrebbe creato indignazione contro Assad. La faccia scavata, le occhiaie e le esperienze vissute in prima persona rendevano efficace il suo modo di raccontare un fatto del Medio Oriente, la campagna di repressione del regime siriano, che non conoscevano in molti. Aveva visitato redazioni di giornali e programmi tv, si era fatto un nome. Il Washington Post ha scritto che grazie a lui «il mondo non poteva più dire di non sapere».
Con il passare degli anni al Hamada era caduto in depressione, litigava con il governo dei Paesi Bassi perché pensava di avere diritto a una somma di denaro mensile, e invece era stato messo fuori di casa perché non poteva più pagare l’affitto. E litigava anche con altri attivisti. Era amareggiato perché, diceva, le sue testimonianze non erano servite a nulla. Nel 2020 quando Assad annunciò un’amnistia generale, al Hamada si convinse che la cosa migliore da fare era tornare in Siria, contro il parere di tutti i suoi conoscenti che lo avvertivano: sarebbe stato peggio di un suicidio.
Il regime siriano, che conosceva il valore simbolico di Mazen al Hamada in Europa, gli consegnò un visto per la Siria all’ambasciata di Berlino con la promessa di incolumità, e garantì che in cambio del suo ritorno avrebbe liberato altri prigionieri. Al Hamada fu arrestato appena sbarcato all’aeroporto di Damasco e scomparve.
Il suo corpo è stato trovato domenica nell’obitorio di un ospedale militare di Harasta, un quartiere di Damasco, con segni di sevizie sul corpo, assieme ad altri cadaveri. Nelle ultime ore del regime qualcuno dell’apparato di sicurezza di Assad lo ha torturato ancora una volta e lo ha assassinato prima di scappare.
È anche per queste storie di dissidenti che avevano deciso di tornare in Siria ed erano spariti nella rete di carceri, camere di torture e fosse comuni del regime che l’idea di fare un accordo con il presidente Assad per far rientrare in patria centinaia di migliaia di siriani che si erano spostate al sicuro in Europa sembrava sconnessa dalla realtà. Ci aveva pensato prima di tutti il governo italiano di Giorgia Meloni. Adesso il problema non c’è più.
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Il corteo funebre di Mazen al Hamada nel centro di Damasco è stato un momento di rivincita per gli attivisti della prima ora della rivoluzione siriana, quelli che puntavano a un sistema multipartitico al posto del partito unico Baath (il partito di Assad) e dove ci fossero tra le altre cose anche libertà di stampa e libertà di creare sindacati.
Gli attivisti pensavano che le manifestazioni disarmate sarebbero state sufficienti, come in Egitto e Tunisia, a far finire il regime. Presto furono presi di mira con violenza dall’esercito e furono prima affiancati e poi rimpiazzati dai gruppi islamisti violenti.
Assad ha sempre giocato sulla confusione che c’è in Occidente tra queste due categorie di oppositori, e ha represso gli attivisti con il pretesto che fossero pericolosi estremisti islamici. Ma gli estremisti islamici non chiedono cose come un sistema multipartitico e la libertà di stampa e di associazione.
In questi anni di guerra c’è stata una selezione naturale nel campo dei nemici di Assad. Soltanto i più duri e adatti alla guerriglia, gli islamisti, sono andati avanti per tutti questi anni e infine hanno conquistato la capitale. I più pacifici e aperti sono stati lasciati ai margini. Martedì il funerale di Mazen al Hamada è stato un ritorno, molto veloce, ai primi tempi delle proteste.
C’è il rischio, nel prossimo futuro, che questi attivisti siano sconfitti due volte: prima dal regime di Assad e poi dai gruppi armati che hanno preso il posto di Assad. Ma adesso è troppo presto per fare speculazioni, loro marciano nel centro di Damasco e rivendicano il loro ruolo.
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Mohamed Ali al Safah è un signore di quarant’anni che tiene per mano un bambino e ha un negozio di frutta e verdura. Spiega che è venuto al corteo perché Mazan al Hamada era un manifestante pacifico ucciso dal «criminale Assad» («criminale Assad» è una coppia di parole che in questa fase rivoluzionaria della Siria si sentono sempre assieme).
Pensa che il nuovo governo sia il governo del popolo e dei manifestanti «che 14 anni fa sono usciti nelle strade per ottenere le libertà che sognavamo. Mio padre, i miei quattro zii, due dei miei fratelli e mio figlio sono morti perché un giorno ci fosse questa manifestazione di oggi. È un sogno storico nella capitale, Damasco, la capitale degli Omayyadi». Gli Omayyadi sono la prima dinastia di califfi della storia islamica.
Continua l’uomo: «Ci sentivamo stranieri nel nostro stesso paese. Ora questo è il nostro paese. Ci hanno accusati di essere terroristi, criminali, takfiri (che è un modo per dire estremisti) e mercenari. Questa manifestazione è davanti ai vostri occhi. Sono terroristi? Vedete delle armi con loro? Sono manifestanti pacifici che portano la bandiera della rivoluzione. È così che siamo usciti 13 anni fa a petto nudo. Il regime ci ha uccisi e ha ucciso i miei parenti nel quartiere al Midan di Damasco».
Aya è una donna di 22 anni, fa la farmacista, è assieme ad altre due donne. «Siamo qui per partecipare al funerale di uno dei detenuti uccisi nelle prigioni del regime dopo essere stato torturato, come è successo a migliaia di detenuti. Siamo rimasti in silenzio e non abbiamo potuto esprimere la nostra opinione sotto il regime, oltre a subire i furti e le ingiustizie. Ora vogliamo fare qualche cosa perché ci sentiamo in colpa perché i detenuti erano in prigione e sotto tortura».
Quando le si chiede che sensazione abbia a camminare e manifestare in libertà nel centro di Damasco dice che non riesce a credere a quello che sta succedendo, perché non immaginava che il regime di Assad sarebbe finito. Aya sostiene che oggi a Damasco non c’è paura e dice di sentirsi in mani sicure. «Siamo un popolo che si accoglie molto bene a vicenda. Abbiamo vissuto con una persona ingiusta per 50 anni. Naturalmente, ora siamo in grado di essere migliori e non c’è nessuno peggiore di lui».