Zara non molla
Come fa, dopo 50 anni, a reggere la concorrenza delle altre catene di abbigliamento e degli e-commerce cinesi Temu e Shein?
La catena di fast fashion Zara è il marchio più importante del gruppo spagnolo Inditex, che controlla anche Pull&Bear, Massimo Dutti, Bershka, Stradivarius e Zara Home, e che oggi ha reso noti i risultati finanziari dei primi nove mesi del 2024: il fatturato è stato di 27,4 miliardi, l’utile è aumentato dell’8,5 per cento e le vendite del 7,1 per cento rispetto all’anno precedente. La situazione riflette la «solida crescita di vendite» che gli esperti si aspettavano, come l’ha definita il sito di moda Business of Fashion (BoF), e che si spiega soprattutto col modello di produzione e vendita del gruppo e col successo per ora inscalfibile di Zara.
Il successo di Zara è noto e resiste da tempo ma resta sorprendente per la capacità di adattarsi a un mercato che ha sempre nuove difficoltà: soltanto negli ultimi 5 anni ci sono state la crisi economica dovuta alla pandemia, l’arrivo di Temu e Shein, gli e-commerce cinesi che vendono vestiti di tendenza a prezzi molto molto bassi, e un generale aumento della consapevolezza rispetto all’impatto ambientale delle catene di fast fashion, i cui capi costano poco ma durano anche meno. Secondo BoF, Inditex ha scavato «un fossato apparentemente insuperabile attorno al suo marchio più grande», e nei prossimi mesi si capirà come intenda rafforzarlo: dovrà gestire l’avanzata di Shein, che si sta muovendo per quotarsi in borsa a Londra nel 2025, e i dazi alle importazioni minacciati dal nuovo presidente americano Donald Trump.
Secondo gli esperti Zara ha successo perché risponde meglio di ogni altro ai desideri dei clienti grazie alla «sua catena di approvvigionamento ultra-efficiente», come la chiama BoF. I prodotti sono disegnati da un team creativo di circa 300 persone che prende ispirazione dalle sfilate, dal modo in cui si vestono le persone e dalle richieste dei clienti; il tempo che serve per trasformare le proposte in abiti nei negozi è brevissimo, a volte bastano 10-15 giorni. Zara produce i capi di tendenza in Spagna, Portogallo e Turchia, mentre esternalizza la produzione dei capi più ordinari e più facili da vendere in Asia e in Nord Africa, dove il costo della manodopera è più basso. Spesso, dice BoF, le fabbriche sono vicine al mercato a cui i capi sono rivolti, per ridurre al massimo il tempo tra la produzione e la vendita.
Molte aziende producono in massa e con grande anticipo rischiando di non intercettare i desideri del mercato; Zara invece produce continuamente ma in quantità relativamente piccole, che arrivano subito online e nei negozi fisici, ben due volte a settimana. Così non ha bisogno di grandi magazzini dove accumulare merce, e si ritrova con un invenduto ridotto. Inditex non diffonde dati divisi per i suoi marchi ma nel 2022 l’invenduto di tutto il gruppo è stato pochissimo, lo 0,79 per cento del totale; una buona parte, dice, è stata donata ad associazioni come UNHCR, Caritas e Croce Rossa. Grazie alla capacità di produrre quasi su richiesta, Zara mette in sconto solo una piccola parte del suo inventario.
Per garantire il funzionamento di questo sistema, Inditex ha detto che tra il 2024 e il 2025 investirà 900 milioni all’anno nella logistica.
A volte un capo alla moda resta in negozio anche solo un mese ma non è detto che venga riordinato, perché i pezzi prodotti sono volutamente pochi: così i clienti comprano subito una cosa che gli piace per la paura di non ritrovarla. Questo sistema ha modificato i tempi di approvvigionamento degli altri marchi, che fino a qualche anno fa cambiavano l’inventario due volte all’anno mentre ora lo fanno almeno quattro volte.
Offrire velocemente ai clienti quello che vogliono è il metodo che Zara segue da quando fu fondata, nel 1975, da Amancio Ortega e Rosalía Mera a La Coruña, in Galizia. Era un negozio di abbigliamento di nome Zorba, ma lì vicino c’era un bar con lo stesso nome e così, per salvare qualche lettera dell’insegna, si cambiò in Zara. In otto anni il negozio divenne una catena con 9 punti vendita in Spagna e poi si allargò nel resto d’Europa e del mondo, fino agli attuali 2.200 negozi in 93 Paesi.
C’è una storia che racconta bene l’efficienza del “metodo Zara”. Nel 2015 una donna di nome Miko entrò in un negozio della catena a Tokyo e chiese se avessero una sciarpa rosa; non c’era e uscì a mani vuote. Negli stessi giorni una sciarpa rosa fu chiesta da Zara a Toronto, San Francisco e Francoforte. Sette giorni dopo, i negozi di Zara in tutto il mondo misero in vendita 500mila sciarpe rosa: furono vendute tutte in tre giorni.
Zara non si affida più solo ai suoi dipendenti per capire cosa vogliano i clienti e da anni ha un sistema accurato di raccolta e analisi di dati. Dal 2015 nelle etichette c’è un chip con identificazione a radiofrequenza che permette di tracciare i movimenti del prodotto dal magazzino al momento in cui viene venduto. Così si può scoprire se un prodotto è molto richiesto in un Paese o in un negozio e inviare rifornimenti, o al contrario smettere la produzione di qualcosa che non piace; si può anche notare che una tipologia o un colore interessa perché viene provato spesso nei camerini.
Le analisi riguardano anche i commenti sui social, per capire se un prodotto sta diventando virale, se ci sono lamentele o richieste di piccole modifiche – per esempio ridurre il numero di tasche su una giacca o cambiare la chiusura di una borsa – da inviare al team creativo.
Zara punta sulla soddisfazione dei clienti anche per farsi pubblicità, anziché investire direttamente in spot e testimonial. Forbes scrive che «coltiva i clienti come influencer del marchio», ci dialoga per migliorare l’offerta e conta che siano loro a parlare bene dell’azienda. In Italia lo si vede spesso con influencer anche molto famose e vestite da marchi di lusso, che sui propri profili social dicono di indossare capi basici di Zara, contribuendo a darne un’immagine più elevata di quella che hanno altre catene di fast fashion.
Inoltre ha sempre contato sulle posizioni strategiche dei suoi negozi, che si trovano in zone centrali delle città o dove si concentra la sua clientela abituale. Zara utilizza i negozi per offrire un’esperienza e battere la concorrenza di Temu e Shein, che esistono solo online con siti spesso poco curati e confusionari: anche per questo progetta di aprirne altri e ingradirne alcuni con un nuovo restyling.
Negli ultimi anni, infatti, ha fatto un salto di qualità per differenziarsi da altre catene più dozzinali e si è consolidato come un marchio di “fast fashion di lusso”. Ha collaborato con aziende di livello come Nanushka, affida allo stilista Karl Templer due collezioni all’anno, le Studio Collections, vende cappotti in pelle da 700 euro e giacche da 400, maglioni in cashmere e abiti da sera. Ha fatto fotografare le sue collezioni dal noto fotografo di moda Steven Meisel per dare un’immagine sofisticata e vicina al mondo del lusso; ha avuto come modelle Kate Moss e Gisele Bündchen; a settembre ha fatto uscire una collezione con Stefano Pilati, stilista raffinato con un grande seguito nella moda; e il prossimo anno ne farà una con l’apprezzato stilista Samuel Ross.
Riesce a dare, insomma, un’idea di marchio sofisticato, cool e dai prezzi abbordabili e attutisce l’idea che si stia comprando qualcosa di poco valore che si rovinerà e di cui ci si stancherà presto, come invece può capitare da H&M, Primark o sul sito di Temu e Shein. H&M, che è in difficoltà, sta seguendo il suo esempio e ha annunciato una collaborazione con Glenn Martens, direttore creativo di Diesel tra i più amati dai giovani di oggi.
Come riassume Forbes, Zara «ha costruito il perfetto mix tra pareri dei clienti, dati e una catena di approvvigionamento a livello mondiale» e, conclude BoF, «ci vorrà un cambiamento davvero sismico […] per sloggiarla dalla sua posizione».