L’imbarazzo del governo di Giorgia Meloni sulla Siria
È dovuto al fatto che l'Italia era stato l'unico paese occidentale a tentare di riabilitare Assad, ma c'entra anche un azzardato piano sui migranti
Il governo italiano sta mantenendo una posizione molto cauta sulla situazione in Siria. Come altri governi europei, è stato preso alla sprovvista dalla fine improvvisa del regime di Bashar al Assad e dall’arrivo a Damasco delle forze anti-assadiste guidate da Abu Mohammed al Jolani, leader di Hayat Tahrir al Sham. Lunedì, al termine di una riunione coi ministri direttamente interessati e i capi dei servizi segreti, Giorgia Meloni ha deciso di sospendere temporaneamente la valutazione delle richieste d’asilo dei cittadini siriani, assecondando una decisione presa poche ore prima dai governi di Austria, Germania, Svezia e Danimarca.
L’incertezza su quello che succederà ora in Siria è molto alta, e questo si riflette in un atteggiamento prudente delle diplomazie europee.
Per l’Italia la situazione è ancora più particolare. Nei mesi passati quello di Meloni era stato infatti l’unico governo tra i grandi paesi europei e del G7 a tentare una completa normalizzazione di Assad, nonostante il carattere dittatoriale ed estremamente oppressivo del suo regime fosse noto da tempo. Ora il governo si trova a giustificare alle forze anti-assadiste al potere la sua politica precedente, in una situazione di forte imbarazzo e difficoltà.
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Lo scorso luglio l’Italia era stata il primo grande paese occidentale a ristabilire un’ambasciata a Damasco, la capitale siriana, mettendoci a capo il diplomatico Stefano Ravagnan. Era stato il primo segnale del tentativo di normalizzare l’ormai ex presidente, e aveva due scopi: promuovere un piano per il ritorno in Siria dei profughi siriani rifugiati perlopiù in Libano, e che avrebbero verosimilmente potuto provare a chiedere asilo in Italia e in Europa; e contendere un po’ dell’influenza della Francia in una regione dove è tradizionalmente forte e presente.
La decisione di riaprire l’ambasciata era stata presa anche a seguito dei primi tiepidi segnali di distensione, seppur informali, che il governo statunitense aveva mostrato nei confronti del regime di Assad: gli Stati Uniti stavano infatti provando ad allontanare Assad dalla Russia (il regime russo era stato il principale alleato della Siria di Assad, soprattutto dalla guerra civile del 2011 in poi).
L’operazione italiana era però molto più esplicita, e per certi versi azzardata, rispetto a quella statunitense: e infatti Ravagnan si era insediato senza offrire le credenziali al dittatore siriano, cioè senza chiedere quella formale autorizzazione a esercitare come diplomatico che gli ambasciatori devono ottenere sempre dai capi di Stato o di governo dei paesi in cui vengono inviati. In realtà, l’insediamento di Ravagnan era stato comunque negoziato con esponenti del regime di Assad, tramite contatti sotterranei che avevano coinvolto anche i servizi segreti italiani.
Il piano del governo di Meloni si è però complicato negli ultimi giorni. Domenica, dopo la fine del regime di Assad, un gruppo armato ha fatto irruzione nella residenza di Ravagnan a Damasco. C’è stata una negoziazione concitata con gli agenti di sicurezza che proteggevano la sede diplomatica, e alla fine i miliziani si sono accontentati di portare via tre automobili usate dal contingente italiano.
Insomma, il governo italiano si trova oggi in una situazione complicata, e imbarazzante. Se la fine del regime di Assad potrebbe facilitare il ritorno dei siriani in patria, visto che molti hanno detto di voler rientrare, allo stesso tempo Meloni dovrà giustificare con le forze anti-assadiste le sue politiche degli ultimi mesi (sempre che voglia creare rapporti diplomatici con la nuova Siria). Per il governo gli ultimi sviluppi sono anche una sconfitta politica, visto che il piano precedente sui profughi siriani che aveva promosso è saltato, e Meloni ha perso il primato di un’iniziativa che avevano guardato con favore alcuni paesi europei, anche se nessuno tra i maggiori.
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L’imbarazzo del governo italiano traspare, per ora, dal confronto tra le prime dichiarazioni di circostanza degli esponenti di governo italiani e quelle di altri leader europei.
Se il presidente francese Emmanuel Macron e l’Alta rappresentante per la politica estera europea Kaja Kallas si sono esplicitamente rallegrati per la fine della dittatura di Assad, i ministri degli Esteri e della Difesa italiani, gli unici a intervenire direttamente, hanno mantenuto un approccio più cauto. Sia Guido Crosetto sia Antonio Tajani hanno detto che la sconfitta disastrosa di Assad dimostra l’affanno della Russia, principale protettrice del regime fin dal 2015, ma hanno espresso dubbi sugli sviluppi della transizione di potere tra Assad e le forze anti-assadiste di al Jolani. Meloni non si è esposta in nessun modo.
In altre situazioni per certi versi comparabili a questa, seppur molto diverse per dimensione e importanza, il governo italiano si era comportato in maniera diversa. Nell’agosto del 2023 era stato il primo tra quelli occidentali a offrire credito e credibilità internazionale alle milizie che avevano compiuto il colpo di stato in Niger e che avevano deposto il presidente democraticamente eletto Mohamed Bazoum, vicino alla Francia. Anche in quel caso le incertezze erano tante, e l’affidabilità di chi aveva organizzato il golpe discutibile: ma Tajani e Crosetto si erano sbilanciati per proporsi come interlocutori del nuovo regime.
Come detto, la decisione di riaprire l’ambasciata a Damasco era stata presa anche per fare uno smacco diplomatico alla Francia.
Secondo i consiglieri di Meloni e Tajani, infatti, Macron avrebbe voluto dettare i tempi di una eventuale riapertura del dialogo con Assad. L’Italia aveva invece deciso di farlo in autonomia, anche in sede europea, tentando di favorire un approccio meno ostile della diplomazia dell’Unione nei confronti del regime di Assad, senza però riuscirci. In un discorso al Senato del 15 ottobre scorso, e poi durante il Consiglio Europeo nei giorni seguenti, Meloni aveva fatto capire che questo atteggiamento italiano era funzionale al piano per fare tornare in patria i profughi siriani.
Del piano, Meloni aveva parlato anche con altri leader internazionali, come il primo ministro britannico Keir Starmer e il primo ministro libanese Najib Mikati. Tuttavia se ne conoscono solo pochi dettagli, ufficialmente. L’idea era di agevolare il ritorno in Siria di oltre un milione e mezzo di rifugiati. Ci sono più di un milione di profughi siriani tra Egitto, Iraq e Giordania, e quasi 800mila in Libano. Ma in Libano erano oltre un milione fino a poche settimane fa: quasi 400mila di questi hanno già fatto ritorno in Siria spontaneamente negli ultimi tre mesi, dopo l’inizio degli attacchi dell’esercito israeliano in Libano (poi ci sono circa tre milioni di rifugiati siriani in Turchia, ma questi non sarebbero rientrati nel progetto di reinserimento vagheggiato dall’Italia).
In questo contesto complicato, Meloni aveva più volte detto di voler sostenere il lavoro che in Siria svolge l’UNHCR, cioè l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite, in particolare con il cosiddetto early recovery, cioè una ricostruzione di base che garantisse le condizioni minime per un’assistenza dignitosa. Nelle intenzioni del governo, questo lavoro avrebbe dovuto porre le basi per fare in modo che i siriani tornassero nel loro paese in maniera volontaria e “sicura” anche sotto il regime di Assad.
L’UNHCR è stata effettivamente coinvolta in colloqui col governo italiano, ma in maniera del tutto preliminare. Meloni aveva, e ha ancora, interesse a favorire il ritorno in Siria dei rifugiati per evitare che centinaia di migliaia di questi profughi decidano invece di provare ad arrivare in Italia e in Europa. L’UNHCR, d’altro canto, ha sempre ribadito che la condizione imprescindibile per una collaborazione è che il ritorno in Siria dei profughi siriani avvenga senza alcuna costrizione, e in condizioni di sicurezza e dignità.
L’idea del governo era di agire soprattutto tramite la rete di associazioni umanitarie, anche legate al Vaticano, per costruire alcune aree sicure con strutture adeguate alla prima accoglienza e un minimo di servizi essenziali, e poi da lì procedere per rendere più stabili e sicuri gli insediamenti.