• Mondo
  • Mercoledì 11 dicembre 2024

Cosa faranno ora sei milioni di siriani all’estero, scappati dalla guerra e da Assad?

Molti stanno già tornando dalla Turchia e dal Libano, mentre diversi governi europei hanno fretta di favorirne il rientro

Una famiglia siriana al confine fra la Turchia e la Siria (AP Photo/Metin Yoksu)
Una famiglia siriana al confine fra la Turchia e la Siria (AP Photo/Metin Yoksu)

In Siria, negli ultimi tredici anni di guerra civile, tredici milioni di persone hanno dovuto lasciare le proprie case: più della metà della popolazione totale. Di queste, oltre sei milioni hanno cercato rifugio all’estero, scappando sia dalla guerra sia dalla repressione del regime di Bashar al Assad, che dal 2011 era diventata ancora più feroce. Ora la situazione è cambiata di nuovo, perché il regime di Assad non c’è più. Molti siriani che per scelta o per costrizione si erano rifugiati nei paesi vicini, come Libano e Turchia, stanno già tornando, mentre diversi governi europei, fra cui quello italiano, hanno sospeso l’esame delle richieste di asilo, sostenendo che si debbano iniziare subito le politiche di rimpatrio.

Secondo i dati del 2024 dell’ONU almeno 7,4 milioni di sfollati siriani sono rimasti in Siria, spostandosi internamente verso zone più sicure (anche più volte). Altri 4,8 milioni sono stati accolti dai paesi vicini: Turchia, Libano, Giordania, Egitto e Iraq.

Un milione e 300 mila siriani hanno fatto un viaggio più lungo, che per lo più li ha portati in Europa: 700mila in Germania (secondo altre stime sarebbero quasi un milione), quasi 100mila in Austria, 87mila in Svezia, 65mila nei Paesi Bassi. La maggior parte di loro arrivò fra il 2015 e il 2016 usando per lo più la cosiddetta “rotta balcanica”, che risaliva lungo tutti i Balcani dalla Turchia, in quella che fu definita una “crisi migratoria” in parte attenuata dalla decisione della Germania guidata da Angela Merkel di accogliere la gran parte dei richiedenti asilo siriani.

Un campo profughi all’interno della Siria, nella zona di Idlib (AP Photo/Ghaith Alsayed, File)

Già prima della fine del regime di Assad vari sondaggi dell’Associazione Siriana per la dignità dei cittadini (SACD) avevano evidenziato come la maggior parte dei siriani all’estero volesse rientrare in patria, quando le condizioni di sicurezza fossero state accettabili: la stragrande maggioranza indicava un cambio di regime come condizione necessaria. Qualcuno aveva già cominciato a rientrare negli anni scorsi, ma poi nell’85 per cento dei casi sconsigliava di seguire il suo esempio.

Oggi la fiducia è molto cresciuta, almeno a giudicare dalle code che sono state registrate sin da domenica ai varchi di confine con il Libano e con la Turchia.

Anche il primo ministro Muhammad al Bashir, nominato martedì, in un’intervista con i media internazionali, fra cui il Corriere della Sera, ha indicato il ritorno dei siriani che ora sono all’estero come uno dei primi obiettivi del nuovo governo siriano: «Il loro capitale umano, la loro esperienza permetterà di far fiorire il Paese. Dobbiamo ricostruire, rinascere e abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti».

Se la situazione politica è cambiata radicalmente, quella economica e delle infrastrutture in Siria resta disastrosa: fra il 2011 e il 2021 il PIL (prodotto interno lordo) del paese era calato dell’87 per cento, la maggioranza della popolazione viveva sotto la soglia di povertà, il sistema idrico e la rete della sanità pubblica erano quasi totalmente da ricostruire. Da allora la situazione non è certo migliorata. La Siria settentrionale era stata poi colpita da un grave terremoto nel 2023. In molti casi i rifugiati all’estero non hanno più una casa a cui tornare, distrutta dalla guerra o dal terremoto.

Code al varco di Masnaa fra Libano e Turchia (AP Photo/Hassan Ammar)

I rientri dal Libano sono però già consistenti e continueranno con ogni probabilità nelle prossime settimane e nei prossimi mesi: in Libano la situazione economica è solo parzialmente migliore rispetto alla Siria, i percorsi di integrazione sono stati molto limitati e in molti casi ad anni di distanza i rifugiati vivono ancora in campi profughi o in strutture temporanee. La situazione è ulteriormente peggiorata con i bombardamenti israeliani degli scorsi mesi. In Libano c’erano ufficialmente 774mila siriani nel 2024, ma secondo alcune stime il numero reale potrebbe essere il doppio.

In Turchia i profughi siriani erano oltre 3 milioni: avevano uno status di “protezione temporanea” che non permetteva loro di muoversi all’interno del paese (ma solo di restare nella provincia di accoglienza) né di avviare un processo per richiedere la cittadinanza turca.

La crisi economica turca degli ultimi anni (con il notevole aumento dell’inflazione) e il terremoto del 2013 nelle province meridionali, dove risiedeva la maggioranza dei profughi, hanno peggiorato notevolmente le condizioni dei siriani. In molti casi i siriani sono tornati a vivere nei campi profughi e a dipendere dagli aiuti delle ong, mentre l’opinione pubblica turca iniziava a mostrare una sempre maggiore insofferenza verso la loro presenza.

– Leggi anche: I profughi siriani in Turchia devono ricominciare da capo

Negli ultimi giorni c’è stato molto traffico in uscita ai varchi di Öncüpinar, in provincia di Kilis, e di Cilvegözü, in quella di Hatay, mentre il governo turco di Recep Tayyip Erdoğan ha annunciato l’apertura di un varco chiuso in precedenza, quello di Yayladag (Hatay), per favorire i rientri.

I siriani che scelgono di lasciare la Turchia lo fanno definitivamente, rinunciando al loro permesso temporaneo che non sarà possibile recuperare.

Persone in coda al varco di Cilvegözü, il 9 dicembre (AP Photo/Metin Yoksu)

Lo status di rifugiati per i siriani è già in discussione anche in Europa, nonostante portavoce dell’Unione Europea definiscano ogni valutazione sulla sicurezza della Siria «prematura» e ritengano che non ci siano le condizioni per «rimpatri sicuri e dignitosi». Per il diritto internazionale, infatti, non è possibile rimpatriare persone richiedenti asilo in un paese che non è considerato “sicuro”. Fra gli stati che hanno annunciato la sospensione degli esami delle domande di asilo fatte dai siriani ci sono Italia, Germania, Austria, Grecia, Belgio, Paesi Bassi, Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia, Svizzera e Regno Unito, mentre altri stanno valutando di prendere decisioni simili, fra questi la Francia.

La questione è rilevante e dibattuta soprattutto in Germania, anche in vista delle elezioni del prossimo febbraio. La decisione di sospendere l’esame delle domande riguarda oltre 47mila siriani. Al momento non coinvolge chi ha già ottenuto lo status di rifugiato, ma Alice Weidel, candidata alla cancelleria per il partito di estrema destra AFD, ha già detto che «dovrebbero rientrare tutti immediatamente». Anche da partiti più moderati, come i cristiano-democratici (CDU), sono arrivate indicazioni simili: il deputato Jens Spahn ha proposto di offrire «un volo charter e 1000 euro» a tutti quelli che vorranno tornare.

In Austria il cancelliere Karl Nehammer del Partito Popolare (ÖVP), di centrodestra, ha annunciato che tutti i «permessi di asilo garantiti saranno rivisti», e il ministro dell’Interno Gerhard Karner ha detto di aver dato istruzioni per preparare un piano di «rimpatri ed espulsioni».

Anche l’Italia ha deciso di sospendere l’esame delle domande di asilo dalla Siria, che sono comunque un numero limitato. Secondo l’Agenzia dei rifugiati dell’Onu, in Italia nel 2023 vivevano 6.500 persone nate in Siria, su 5,3 milioni di residenti complessivi di cittadinanza straniera (di cui 3,7 di paesi non appartenenti all’Unione Europea); nel 2024 i siriani che complessivamente avevano ottenuto lo status di rifugiati erano 3.464.

Nonostante i numeri tutto sommato esigui, negli ultimi mesi il governo di Giorgia Meloni aveva impostato un piano di progressivo riavvicinamento con il regime siriano di Assad, nell’ottica a lungo termine di favorire il rientro dei siriani in patria. A luglio l’Italia era stato il primo tra i paesi dell’Unione Europea e del G7 a riattivare la propria ambasciata a Damasco. A settembre era uscita dal Syria Core Group, uno strumento diplomatico che riunisce vari paesi sotto il coordinamento dell’ONU per fare pressioni sul regime di Assad in tema di diritti umani.