• Mondo
  • Martedì 10 dicembre 2024

La lunga trasformazione di Abu Mohammed al Jolani

Fino a undici anni fa il capo del gruppo che ha provocato la fine del regime di Assad era un prestanome dello Stato Islamico: poi è diventato sempre più pragmatico

di Daniele Raineri

Abu Mohammed al Jolani, l'8 dicembre 2024 al suo ingresso nella nella Moschea degli Omayyadi di Damasco (AP Photo/Omar Albam)
Abu Mohammed al Jolani, l'8 dicembre 2024 al suo ingresso nella nella Moschea degli Omayyadi di Damasco (AP Photo/Omar Albam)
Caricamento player

L’insurrezione che ha provocato la fine del regime siriano di Bashar al Assad è stata guidata da Abu Mohammed al Jolani, capo del gruppo Hayat Tahrir al Sham. Di lui si sta parlando molto negli ultimi giorni per il suo passato jihadista, ma soprattutto per la successiva e apparente trasformazione nella figura di politico moderato e rassicurante che sta mostrando ai siriani e ai governi stranieri.

Nel 2011 Abu Mohammed al Jolani era un comandante dello Stato Islamico in Iraq. Il gruppo non era ancora così conosciuto come divenne nel 2014, quando conquistò un pezzo di Siria e Iraq proclamando la nascita del Califfato. Il modo di operare però era già quello: attentati, esecuzioni, intimidazioni e il progetto di dominare quanto più territorio possibile. In particolare al Jolani era il capo delle operazioni nella zona di Mosul, la seconda città dell’Iraq, che è sempre stata una regione infestata dallo Stato Islamico.

Al Jolani ha 42 anni. Suo padre aveva lasciato le alture del Golan, in Siria, quando erano state occupate dalle truppe israeliane nella Guerra dei Sei giorni, nel 1967. Golan in arabo si dice Jolan e il nome di battaglia vuol dire questo: al Jolani, l’uomo che arriva dal Golan.

La prima apparizione televisiva di Abu Mohammed al Jolani, nel 2016

La prima apparizione televisiva di Abu Mohammed al Jolani, nel 2016 (Balkis Press/ABACAPRESS.COM/ANSA)

Il padre portò la famiglia in Arabia Saudita e poi tornò in Siria, a Damasco. Quando gli Stati Uniti invasero l’Iraq nel 2003 e rovesciarono il regime di Saddam Hussein, il giovane al Jolani decise di andare a combattere contro i soldati americani. A quell’epoca il regime di Bashar al Assad incoraggiava i volontari che andavano ad arruolarsi nei gruppi terroristici in Iraq. Erano estremisti che terrorizzavano anche la popolazione irachena con decapitazioni, attentati suicidi, camion bomba nei mercati e l’imposizione di regole punitive, come il divieto totale e per tutti di fumare. 

L’ambasciatrice americana che all’epoca era a Damasco, Margaret Scobey, raccontava il suo sgomento nel vedere dalle finestre dell’ambasciata la fila di volontari siriani e stranieri alla stazione centrale degli autobus che partiva per andare a fare la guerra a Baghdad. 

Al Jolani fu catturato e fece almeno un anno di prigione a Camp Bucca, un campo di detenzione creato dagli americani nel profondo sud dell’Iraq, lontano dalle zone dei combattimenti. Ma mettere tutti i prigionieri sospettati di far parte di gruppi estremisti nello stesso campo per anni rafforzò le loro convinzioni e i loro legami. Anche il capo dello Stato Islamico, Abu Bakr al Baghdadi, fu prigioniero a Camp Bucca.

– Leggi anche: Gli undici giorni che hanno cambiato la Siria

Torniamo al 2011. Al Baghdadi, anche lui tornato in libertà, dette ad al Jolani l’incarico di espandere lo Stato Islamico in Siria. Al Jolani, siriano, sapeva come muoversi. Con una squadra di sei uomini attraversò il confine, si stabilì in Siria e creò un gruppo dello Stato Islamico che crebbe oltre ogni aspettativa.

Al Jolani fu aiutato dal fatto che in quel periodo la Siria era nel caos, perché la popolazione si stava ribellando al regime di Bashar al Assad. L’esercito siriano usò la violenza per reprimere le proteste, i ribelli si armarono e cacciarono i soldati che facevano la guardia al confine. Da quel momento in avanti chiunque poté arrivare in Siria, e lo fecero anche molti volontari jihadisti. Inoltre nel territorio ribelle non c’era più nessuno che gestiva l’ordine pubblico e giravano tante armi: era l’ambiente ideale per far crescere una succursale dello Stato Islamico.

Jolani usò un espediente. Non chiamò il suo gruppo Stato Islamico in Siria, ma inventò un nome più neutro: Jabhat al Nusra, che in arabo vuol dire «il fronte del supporto»: s’intende supporto alla rivoluzione. Il nome Stato Islamico avrebbe rischiato di creare allarme e di attirare l’attenzione internazionale.

Il fronte del supporto reclutò migliaia di uomini. In quel periodo al Jolani era una figura misteriosa, nessuno ne conosceva il volto e nemmeno la voce. Il capo dello Stato Islamico in Iraq, Al Baghdadi, mandò un suo aiutante esperto, Abu Ali al Anbari, a investigare con discrezione su come stavano andando le cose in Siria e quello gli mandò un messaggio preoccupato: «Al Jolani è una persona astuta, ipocrita, adora se stesso, non si preoccupa della religione dei suoi soldati, è disposto a sacrificare il loro sangue per farsi un nome sui media, si illumina quando sente il suo nome menzionato sui canali satellitari».

Abu Bakr al Baghdadi nel 2014

Abu Bakr al Baghdadi nel 2014 (Militant video via AP)

Al Baghdadi e al Anbari nel frattempo sono morti, uccisi rispettivamente nel 2019 e nel 2016. Oggi è difficile non pensare a quel giudizio tagliente, «si illumina quando sente il suo nome sui canali satellitari», dopo che al Jolani è arrivato a Damasco ed è entrato fra due ali di folla nella Moschea degli Omayyadi, e si è fatto fotografare in pose da condottiero militare.

Nell’aprile 2013 al Baghdadi decise di rivelare la finzione: Jabhat al Nusra non esiste, disse, è soltanto un nome di copertura e tutti i suoi combattenti e tutte le sue risorse appartengono allo Stato Islamico (nel 2012 anche l’intelligence degli Stati Uniti, che disponeva di fonti e di intercettazioni, aveva raggiunto la stessa conclusione e l’aveva comunicata ai giornali americani). Per l’occasione Baghdadi annunciò che il nuovo nome del gruppo era Stato islamico in Iraq e nel Levante, dove per Levante (in arabo al Sham) s’intende la Siria. La sigla sui media anglofoni divenne Islamic State in Iraq and Sham, ISIS, che è il nome usato ancora oggi sui giornali per indicare lo Stato Islamico. Il gruppo però nel 2014 fece cadere «in Iraq e nel Levante» e da allora in poi si è chiamato soltanto Stato Islamico.

Al Jolani rifiutò di cedere il controllo e dichiarò una scissione: Jabhat al Nusra, che fino ad allora era stata soltanto un nome, divenne reale. La separazione fu un fatto grosso: migliaia di combattenti scelsero di andare con Baghdadi, altri restarono fedeli ad al Jolani. Le altre fazioni di combattenti siriani anti Assad assistettero allibite davanti a queste storie tra gruppi radicali, che avevano preso il posto della lotta per rovesciare il dittatore Assad e avere più libertà. 

Al Jolani usava un argomento sofisticato per giustificare la sua scissione: diceva che lo Stato Islamico nel 2004 aveva dichiarato fedeltà ad al Qaida, quindi anche lui per proprietà transitiva aveva dichiarato fedeltà ad al Qaida e rispondeva soltanto ad al Qaida e non allo Stato Islamico, che secondo questa teoria era un gruppo sottomesso per colpa di questo vincolo di fedeltà. Suonano come sofismi astratti, ma ebbero effetti pratici. Da quel momento al Jolani dovette guardarsi le spalle perché i seguaci di Baghdadi avrebbero voluto ucciderlo. Ci provarono anche e mandarono infiltrati con cinture esplosive.

Dopo la scissione, per al Jolani cominciarono le interviste in tv. La prima, data di spalle ad Al Jazeera per non rivelare il volto, fu un evento molto seguito. Per ottenere denaro Jabhat al Nusra fece anche sequestri di persona. 

Nel 2016 al Jolani si separò anche da al Qaida. Se il suo gruppo fosse rimasto con al Qaida, disse, avrebbe dato una scusa agli americani per bombardare i siriani. In quegli anni erano intervenuti in Siria sia gli Stati Uniti (contro lo Stato Islamico) sia Russia, Iran e Hezbollah, che stavano aiutando Assad a riprendersi il paese. Il gruppo cambiò nome e divenne Jabhat Fatah al Sham, il fronte per la conquista della Siria, e l’anno dopo cambiò ancora e divenne Hayat Tahrir al Sham (ma la L di al non si pronuncia), il movimento per la liberazione della Siria.

Da «conquista» a «liberazione». Questi furono i primi segnali della decisione di al Jolani di avviare un percorso di trasformazione pragmatica, per trasformare Hts da gruppo jihadista a forza presentabile, che si concentra sulla Siria e non vuole più fare il jihad all’estero.

Al Jolani in un video propagandistico del gruppo Jabhat Fatah al Sham nel 2016

Al Jolani in un video propagandistico del gruppo Jabhat Fatah al Sham nel 2016 (Militant UGC via AP)

Dal 2017 in avanti quel nome, movimento per la liberazione della Siria, suonò come una presa in giro. Al Jolani e i suoi miliziani erano assediati in una piccola porzione di territorio nella regione di Idlib, stretti tra il fronte contro i soldati assadisti da una parte e la frontiera turca dall’altra. Lui creò un governo locale, che chiamò di Salvezza nazionale, e amministrò il suo pezzo di Siria fuori dal controllo di Assad. Ma nessuno pensava che avesse le forze per liberare il resto del paese.

Nel 2020 quasi perse anche Idlib per colpa di un’offensiva delle truppe di Assad appoggiate dai bombardieri russi. Ma un aereo russo colpì per errore una postazione dell’esercito turco sul confine e uccise 34 soldati, la Turchia intervenne e fece capire che l’offensiva non sarebbe stata tollerata un giorno di più. Al Jolani si tenne Idlib. 

Sotto il suo comando, il gruppo Hts cominciò una campagna di retate e uccisioni contro le cellule dello Stato Islamico e di al Qaida nascoste nella regione di Idlib. La mutazione pragmatica di al Jolani e di Hts fu vista con rabbia dai suoi ex alleati: lo Stato Islamico pubblicò una grande quantità di materiale di propaganda e di minacce contro il fuoriuscito al Jolani e lo mise nella lista dei suoi bersagli. Al Jolani e i suoi risposero con una campagna antiterrorismo permanente. Perennemente sotto il rischio di un assassinio, al Jolani fu costretto a trovare e fermare in tempo le squadre di estremisti che lo volevano uccidere. 

– Leggi anche: L’enorme sistema di prigionia e repressione degli Assad

Oggi in Occidente alcuni parlano di Jolani come di un jihadista e un terrorista, un prestanome dello Stato Islamico. Lo è stato, undici anni fa. Ma da anni ogni volta che al Jolani deve scegliere tra una svolta più estremista e una svolta meno estremista sceglie quella meno estremista. Queste parole, meno estremista, vanno misurate con l’ambiente nel quale al Jolani si trova. Il governatorato di Idlib non è un cantone svizzero e al Jolani non è un leader liberaldemocratico. Hts rimane un gruppo islamista che sostiene la sharia ed è ideologicamente molto rigido.

La campagna militare che in undici giorni ha fatto collassare il regime di Assad ha accelerato le svolte pragmatiche di al Jolani e ha aumentato la sua voglia di essere al centro dell’attenzione.

Il gruppo Hts ha pubblicato un editto per garantire alle minoranze religiose che le loro vite, proprietà e libertà di culto sarebbero state preservate. Un modo per rassicurare specificatamente la comunità alawita, quella a cui apparteneva il dittatore Assad e che l’ha sempre sostenuto, e per dire alla Russia che i ribelli siriani non sono nemici dei russi, vogliono soltanto che non interferiscano in Siria (l’opposto dello Stato Islamico, che a marzo ha ucciso centoquaranta persone a caso in una sala da concerti a Mosca).

Negli ultimi giorni era anche circolata la notizia, non confermata, che Hts avrebbe perfino proposto al vescovo di Aleppo, il francescano Hanna Jallouf, di diventare governatore della regione di Aleppo. Si sa per certo invece che al Jolani ha incontrato il vescovo Jallouf e ha accettato tutte le sue richieste di garanzie e di protezione per i cristiani. 

Quando il gruppo Hts è entrato a Damasco da conquistatore, questo atteggiamento pragmatico ha toccato il culmine. C’è stato un comunicato per vietare i saccheggi e gli spari in aria – quest’ultima cosa con poco successo – e un altro per garantire la sicurezza degli uomini e degli edifici delle Nazioni Unite. La fase di transizione è stata persino affidata per qualche giorno al primo ministro di Assad, Muhammad al Jalali, come se non ci fossero stati tredici anni di guerra civile e centinaia di migliaia di morti.  

Non si è ancora capito quale sia il modello di Siria che ha in testa al Jolani. Potrebbe essere l’Arabia Saudita nella quale è cresciuto da bambino, ma la Siria è un misto di etnie e religioni e sarebbe impossibile replicare quel modello. Oppure l’Afghanistan dei talebani, che erano tutti accusati di essere terroristi e oggi governano. O il modello politico dei curdi siriani, anch’essi sulla lista dei gruppi terroristici dal 1998, ma capaci di amministrare un territorio da indipendenti e autonomi. 

Infine l’ultimo tocco della sua campagna di “marketing politico”: Abu Mohammed al Jolani ha dismesso il nome da battaglia e ha cominciato a farsi chiamare Ahmad al Sharaa, che è il suo nome vero. Una spiegazione possibile è che l’anno prossimo voglia diventare il nuovo presidente della Siria.