I medici cubani resteranno in Calabria per altri due anni
Rimangono un palliativo per la malmessa sanità calabrese, ma comunque la notizia è stata accolta bene da chi ci lavora
La permanenza in Italia dei medici inviati dall’estero nelle aree in cui la sanità pubblica è più carente è stata prorogata di due anni: la misura include quindi anche i medici e mediche cubane attualmente presenti in Calabria. Al momento sono 333, e la loro presenza è stata descritta come fondamentale e necessaria da diversi primari e medici italiani dei vari ospedali in cui operano. «La proroga è un’ottima notizia, perché i medici cubani continuano a essere più che mai necessari», dice Enzo Amodeo, che fino al mese scorso ha diretto il reparto di cardiologia dell’ospedale di Polistena, un piccolo comune da quasi 10mila abitanti nella piana di Gioia Tauro, vicino a Reggio Calabria.
L’ultimo contingente di medici cubani in Calabria è arrivato quest’autunno, con 66 medici suddivisi nelle cinque aziende sanitarie provinciali (ASP) della regione: Catanzaro (18), Vibo Valentia (17), Crotone (12), Cosenza (10) e Reggio Calabria (9). I 66 medici si sono aggiunti ai 267 già presenti nelle varie ASP: il contingente precedente, di 98 medici, era arrivato a febbraio.
I medici cubani lavorano in Calabria ormai da due anni, grazie a un accordo tra la regione e una società partecipata dal governo cubano, firmato a luglio del 2022 per 497 medici cubani in tutto. Inizialmente era previsto che i medici restassero fino al 2025: la proroga decisa è contenuta in un emendamento al decreto-legge chiamato “Flussi”, che riguarda l’ingresso in Italia dei lavoratori stranieri ed è stato approvato dal Senato lo scorso 4 dicembre.
L’arrivo dei medici cubani è stato accompagnato fin da subito da polemiche perché considerati una soluzione temporanea e non risolutiva ai problemi della sanità calabrese, perché non abbastanza titolati o perché secondo alcuni le loro condizioni di lavoro potrebbero costituire “lavoro forzato”. Ma nel corso di questi due anni primari, medici, chirurghi e altri operatori degli ospedali calabresi hanno descritto in maniera molto positiva l’operato dei medici cubani, considerata anche la situazione molto problematica della sanità calabrese.
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Anche la notizia della proroga è stata accolta bene, soprattutto nelle strutture più piccole: è il caso dell’ospedale di Polistena, in provincia di Reggio Calabria, di cui Amodeo ha diretto per anni il reparto di cardiologia. Amodeo è andato in pensione un mese fa, e dice che nel reparto lavorano due medici cubani, entrambi sulla trentina e da lui descritti come «molto preparati», «una risorsa insostituibile».
I due medici in questione riescono a eseguire prestazioni che non tutti i cardiologi italiani sanno fare, racconta Amodeo, come la cardiostimolazione in sala operatoria e interventi ad alto rischio clinico per patologie o sindromi coronariche «tempo-dipendenti», cioè da risolvere in brevissimo tempo per assicurare la sopravvivenza del paziente. Peraltro sempre meno medici sono disposti a fare questo tipo di interventi per via della pressione a cui sono soggetti, e delle sempre più frequenti aggressioni che subiscono.
Non ci sono stati problemi nemmeno nell’utilizzo della lingua, da parte dei medici cubani: «Non parlano l’italiano come dei madrelingua, ma nel corso della permanenza sono molto migliorati e sono comunque in grado di compilare cartelle cliniche con precisione e in maniera comprensibile, e di parlare coi pazienti», dice.
Medici cubani a parte, al momento non sembrano essere imminenti soluzioni più strutturali al problema della mancanza di organico nella sanità calabrese. Oltre ai tagli alla sanità publica e alle loro conseguenze sulla medicina territoriale, e quindi a catena sui pronto soccorso e sugli ospedali, molti giovani medici che potrebbero lavorare in Calabria la abbandonano per andare nel Nord Italia o nel resto d’Europa.
«Anche quando si sblocca la situazione e vengono banditi dei concorsi, pochissimi partecipano e ancora meno si presentano agli esami», dice Amodeo. Fa l’esempio di un recente concorso per la posizione di primario al reparto di urologia dell’ospedale di Locri, nel sudest della Calabria, dove c’erano tre concorrenti in tutto e nessuno dei tre si è presentato.
Rubens Curia, medico calabrese e portavoce regionale di “Comunità competente”, una rete informale di associazioni e comitati di cittadini molto attiva sul tema della sanità e non solo, dice che la proroga nella permanenza dei medici cubani dà un po’ più di tempo alla Calabria per trovare una soluzione. Ascoltato dal Post qualche mese fa, Curia aveva paragonato l’arrivo dei medici cubani all’aspirina, che cura i sintomi ma non fa guarire dalla malattia.
Curia dice che nell’ultimo anno la regione ha adottato alcune misure per facilitare l’ingresso dei medici specializzandi negli ospedali pubblici, e dunque per trovare soluzioni più strutturali al problema della carenza di medici: ma sono soluzioni che richiedono comunque qualche anno, perché chi sta studiando medicina deve completare la propria formazione e iniziare la specializzazione.
Al di là degli ospedali, c’è poi il problema a monte della medicina territoriale: i medici di medicina generale e gli ambulatori, che sono sempre meno in Calabria come nel resto d’Italia. La loro carenza ha un impatto sul ricorso diretto ai pronto soccorso e agli ospedali, in cui quindi il personale medico è sempre più sovraccarico e insufficiente. «Il primo punto della filiera della sanità è quello territoriale: finché non si potenzia quello, non c’è soluzione reale al problema», dice Curia.
Un esempio positivo in questo senso è la nuova casa della comunità (un tipo di struttura ambulatoriale pubblica) di Palmi, nel sudovest della Calabria.
La casa di comunità di Palmi esiste da quattro mesi e Curia dice che è stata realizzata grazie a un complesso lavoro di coordinamento con varie istituzioni. Ha dentro 10 medici di famiglia e serve in totale circa 13mila persone, quasi la totalità degli abitanti della stessa Palmi: è aperta dalle 8 alle 20 dal lunedì al venerdì, ha un centro prelievi, un ambulatorio infermieristico, la possibilità di fare alcune visite specialistiche, e nel fine settimana la guardia medica: «Strutture di questo tipo sono il primo “frangiflutti” all’intasamento degli ospedali e quindi la soluzione al problema, e ce ne vogliono tante altre in tutta la regione», dice Curia.