Cosa c’entra l’economia con la crisi di governo in Francia
È iniziato tutto da una pessima condizione dei conti pubblici e da una legge di bilancio per risanarli
La grave crisi politica in corso in Francia è in buona parte conseguenza di una situazione molto complicata per i conti pubblici del paese: il debito pubblico è il terzo più alto dell’Eurozona, dopo Grecia e Italia, ed è previsto in aumento anche nei prossimi anni, in violazione delle regole europee. Lo spread dei titoli di stato francesi, cioè quell’indicatore finanziario che mostra quanto gli investitori reputino rischioso un paese, è oggi quasi il doppio rispetto a prima delle elezioni europee di giugno, il momento che ha aperto una seria fase di instabilità politica per il paese e che ha reso di fatto più difficoltoso gestire i problemi sui conti.
L’austera e impopolare legge di bilancio per il prossimo anno doveva servire proprio a questo, cioè a impostare un percorso di risanamento, nelle intenzioni dell’ormai dimissionario primo ministro Michel Barnier. È successo tutto il contrario: la forte opposizione dell’estrema destra e dell’estrema sinistra a tagli alla spesa pubblica e aumenti delle tasse ha infine fatto cadere il governo, e ha reso ancora più difficile l’approvazione di un bilancio per il prossimo anno. Si è dunque creato un circolo vizioso che contribuisce a generare una certa inquietudine tra gli investitori finanziari sulla situazione economica del paese.
Il guaio economico e politico sta diventando dunque anche finanziario, seppur senza il panico che molti osservatori si aspettavano. Da mesi i titoli di Stato francesi – cioè quegli strumenti finanziari con cui i paesi si fanno prestare i soldi dagli investitori – hanno mostrato tassi di interesse che non si vedevano da anni: il tasso di interesse è una buona misura di quanto gli investitori giudichino rischioso un debitore, e per quelli che considerano più a rischio viene chiesto un tasso più alto. Ed è quello che serve proprio a calcolare lo spread, cioè la differenza tra i tassi dei titoli di stato francesi e quelli dei titoli tedeschi (considerati a rischio nullo, e per questo usati come paragone): da un livello medio di 45 punti in primavera, a partire da giugno non è mai sceso sotto i 60 punti, e da settembre mai sotto i 70.
Nelle ultime settimane è aumentato ancora a livelli allarmanti. Per capirci, lo spread è tornato ai livelli della grave crisi dell’euro del 2012, uno dei momenti in cui si è concretamente pensato che uno stato europeo potesse fallire: non è questo il caso e la Francia non si trova nelle condizioni in cui si trovavano allora paesi come la Grecia, la Spagna e l’Italia. Eppure da ottobre lo spread francese ha superato quello della Spagna e negli ultimi giorni anche quello della Grecia. Resta ancora più basso di quello italiano.
Dall’inizio della scorsa settimana lo spread è anche risultato in calo, sorprendendo buona parte degli osservatori, dato che la Francia si ritrova ora senza un governo in un momento molto critico. Deve innanzitutto approvare la legge di bilancio entro il 31 dicembre: come in Italia, se questo non avviene, il prossimo anno lo Stato non potrà gestire le sue spese, e potrebbero esserci grossi problemi per cose anche molto concrete come il pagamento degli stipendi dei dipendenti pubblici, l’erogazione dei servizi e delle pensioni.
In più chiunque sarà nominato dopo Barnier dovrà comunque avviare un serio risanamento dei conti. La Francia è tra i paesi europei che negli scorsi mesi la Commissione europea ha messo sotto procedura per deficit eccessivo. Il deficit, detto anche disavanzo, è la differenza tra le entrate e le uscite dello Stato, cioè tra quanto incassa con le tasse e quanto spende: se un paese spende più di quanto incassa con le tasse, deve necessariamente indebitarsi e dunque contribuisce ad aumentare la massa di debito pubblico.
Per quest’anno è previsto che il deficit supererà il 6 per cento del PIL e che il prossimo anno scenderà al 5,3. Le regole europee sui conti pubblici, tornate in vigore quest’anno, prevedono che non possa essere superiore al 3. Per ridurre il deficit ci sono del resto solo due possibilità: ridurre la spesa pubblica o aumentare le tasse. Barnier aveva proposto una combinazione per una correzione da 60 miliardi e aveva concordato con la Commissione Europea che sarebbe rientrato nel limite entro il 2029. Non è chiaro ora cosa succederà.
Che la Francia abbia un problema con deficit e debito non è comunque una novità. Fino al 2008 aveva un debito pubblico in linea con la media dei paesi europei, ma con la grave crisi finanziaria ci fu un aumento repentino, dal 69 per cento del 2008 all’84 per cento del 2009. Da allora è stato in costante aumento e le cose sono peggiorate con la pandemia e la crisi energetica. Il debito è servito perlopiù a finanziare le misure di stimolo all’economia e i grandi programmi di spesa: la Francia oggi è il paese europeo con la spesa pubblica più elevata in relazione al PIL (il secondo è l’Italia).
La Francia ha comunque sempre goduto di un certo trattamento di favore da parte della Commissione Europea quando si trattava di conti pubblici, al contrario di paesi come l’Italia per cui c’è sempre stata più rigidità. Come ricorda Politico, negli ultimi 22 anni solo tre volte la Francia ha rispettato il limite del 3 per cento di rapporto deficit/PIL. Peraltro sia nel 2003 che nel 2014 la Francia ha violato regole e non è stata sanzionata: nel 2016, quando gliene fu chiesto conto, il presidente della Commissione Europea di allora Jean-Claude Juncker rispose «parce que c’est la France», cioè «perché si tratta della Francia».
Nonostante le condizioni critiche in cui si trova ora e si è trovata in passato, nessuno crede o ha mai davvero creduto che il paese possa fallire e non far fronte ai proprio impegni: è anche il motivo per cui, nonostante la situazione molto seria della politica di queste settimane, gli investitori non si sono ancora fatti prendere dal panico sui mercati finanziari.
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