Chi è il corpo
«Ho l’impressione che fin da molto piccola una forma di stupore e di timore indicibile mi abbiano scortato ogni qualvolta allargavo l’esperienza del mio esserci fisico e materiale. Sono sempre io ad abitare sotto le mie anche, lo spartiacque oltre cui ho perso il controllo – non posso più camminare da ventidue anni – oppure sono come un’abusiva che occupa stanze in un condominio? Un condominio popolato da fantasmi, con porte e pareti che appaiono e scompaiono, rumori e voci senza una spiegazione. Una casa in cui spesso ho paura o sono in allerta, questo è per tre quarti il luogo che abito».
Mi capita di toccare le ossa delle mie anche e di non riconoscerle, come se stessi toccando qualcosa di esterno a me. Sporgono e segnano l’attacco dei fianchi, sono la giuntura fra il sopra e il sotto di qualsiasi scheletro umano, ma per me sono anche un confine carico di angoscia perché io sopra le anche sento, mentre sotto non ho sensibilità a causa di una mielolesione da trauma. Quelle due alette aguzze mi ricordano che dalla decima vertebra dorsale in poi il mio corpo è lontano sebbene contiguo, isolato sebbene unito, il più delle volte difficile da decifrare perché privato della connessione nervosa e motoria che, in salute, lo collega al cervello.
Sono sempre io ad abitare il sopra e il sotto di quello spartiacque o da quando ne ho perso il controllo – non posso più camminare da ventidue anni – sono come un’abusiva che occupa stanze in un condominio? Un condominio popolato da fantasmi, con porte e pareti che appaiono e scompaiono, rumori e voci senza una spiegazione. Una casa in cui spesso ho paura o sono in allerta, questo è per tre quarti il luogo che abito. A pensarci bene, la paura c’era ben prima che la mia colonna vertebrale assomigliasse a quella colonna spezzata e tenuta insieme da viti e barre che Frida Kahlo ha raffigurato in un suo celebre autoritratto.
Non ricordo quando ho iniziato a riflettere sul corpo, ma ho l’impressione che fin da molto piccola una forma di stupore e di timore indicibile mi abbiano scortato ogni qualvolta allargavo l’esperienza del mio esserci fisico e materiale. Molto presto ho iniziato a domandarmi, per esempio, se il senso di benessere che mi veniva dal tepore del sole sulla pelle dopo un bagno in mare o in piscina, o dall’adrenalina di una corsa sarebbe svanito se non avessi più potuto correre o nuotare, se il mio corpo si fosse ammalato o fosse invecchiato. La fragilità del corpo mi si manifestava a ogni febbre, a ogni malattia.
Non ho mai fatto pace col fatto che sviluppiamo capacità conoscitive, accumuliamo memoria e sapere dentro un involucro fisico che è instabile, mutevole, effimero. Fin dei primi anni di vita, che sono quelli in cui si producono i cambiamenti più prodigiosi, tutto cresce e cambia forma, i tratti del volto si dispiegano, certe tendenze somatiche che poi diventeranno costanti si manifestano, i capelli e la pelle mutano di colore; già a vent’anni sarebbe lecito chiedersi se il bambino o la bambina che siamo stati – le foto ci ritraggono da bebè mediamente paffutelli, spesso pelati – siano la stessa persona di oggi.
È una domanda che continueremo a porci, a ogni cambiamento più o meno rilevante, perché il corpo non smetterà di trasformarsi e interrogarci su quella che chiamiamo identità. Se infatti il corpo muta di forma, di stato, di funzioni e di possibilità, come è possibile ancorarvi un’idea di sé unitaria e coerente? E al tempo stesso avrebbe senso un’identità disincarnata che non sia frutto dell’esperienza corporea? Io esisto solo come Alessandra Sarchi con la mia schiena rotta, le mie cicatrici sparse un po’ ovunque, la fatica e la sfida di continuare a vivere anche così. Un’Alessandra in sé, per dirla in termini platonici, non esiste, così come non esiste il cuore in sé, il polmone in sé o qualsiasi altra cosa; noi conosciamo solo esistenze singole e incarnate, come afferma la filosofa Adriana Cavarero.
Una scena del film del 1976 L’inquilino del terzo piano di Roman Polanski tratto dal romanzo del 1964 Le locataire chimérique di Roland Topor
Tuttavia, se continuo a riflettere sul corpo è perché sfugge a qualsiasi definizione di essenza, o di acquisizione data una volta per tutte, sguscia fra le mani persino quando proviamo ad associarlo troppo strettamente all’identità. Basti pensare alle cosiddette disforie di genere: persone che non riescono a coincidere con il corpo che è stato dato loro in dotazione alla nascita e ne sognano un altro, sottoponendosi a un percorso difficile di interventi e cure per transitare da una forma a un’altra, oppure persone che vivono grazie a protesi che ne hanno sostituito alcune parti. Come il filosofo Jean-Luc Nancy che nel suo libro L’intrus (L’intruso, in italiano) racconta la sua vita da sopravvissuto grazie a un trapianto di cuore avvenuto nel 1992. Io stessa non sarei qui a scrivere se non fosse stato possibile richiudere chirurgicamente il midollo spinale e rafforzare con viti e barre di titanio le vertebre collassate: metà della mia schiena è protesi.
E senza arrivare a tanto: non si può che constatare la crescita enorme della chirurgia estetica che poco o tanto modifica i connotati. Come si fa allora a dire che io ho questo corpo o io sono questo corpo?
La coincidenza dell’io con il perimetro corporeo è uno di quei fatti tanto incontrovertibili quanto limitanti e limitati nel loro valore euristico.
«Il primo corpo che ricordo non è il mio, è quello di mia madre. Le sue clavicole magre, alle quali mi appendevo come una piccola scimmia. Il secondo corpo che ricordo è il nostro corpo insieme: gli abbracci, il solletico, i suoi occhi tristi o allegri, mio primo specchio. Il terzo corpo che ricordo finalmente è il mio. Le carezze, le cadute, un incidente in motorino, la pelle rosa sbucciata, l’asfalto nero, il sangue. Il dentista che mi apre la bocca, l’otorino che mi guarda le orecchie, il dottore che mi buca il braccio e il rosso che entra nella siringa».
Così inizia il bel libro di Vittorio Lingiardi, Corpo, umano, appena pubblicato da Einaudi, un’esplorazione organo per organo restituita dal sapere medico non meno che da quello letterario e visivo di un autore che è medico e psicanalista, e sa far convergere nella narrazione il dato scientifico insieme a quello simbolico, perché il corpo è un inesauribile archivio di senso e di segni, come dimostra il ricorso frequente che Lingiardi fa a opere d’arte.
L’elemento che più mi colpisce di questo incipit è la natura relazionale attribuita al corpo che comincia a esistere solo nel rapporto con l’altro. Ciò è vero per quello che ricordiamo, il volto e l’abbraccio della madre di cui parla Lingiardi, ed è altrettanto vero per quello che non ricordiamo ma che ci ha fornito la prima esperienza in assoluto: l’interno del corpo di chi ci ha concepito e fatto crescere per nove mesi, un universo di scambi molecolari, di suoni, di luce filtrata, lo sdoppiarsi di una carne per farne un’altra. Così veniamo al mondo e così il corpo si definisce: in relazione con l’altro. Se il mio corpo, secondo Lingiardi, arriva dopo, nella sua percezione e definizione, di quello della madre ciò significa che io mi porto dentro un’alterità ineliminabile.
Mentre dico “il mio corpo” già mi separo, attuo una distinzione, visualizzo parti diverse tenute insieme da cosa? Dalla psiche, dalla mente o da che altro? La Venere allo specchio di Diego Velázquez potrebbe aiutare ad affacciarsi su questo paradosso: una donna che si guarda allo specchio, di cui noi spettatori intravediamo appena il volto riflesso, mentre vediamo ciò che lei non può vedere: la schiena, le natiche e le gambe. Siamo come lei, ci percepiamo dall’interno, al tempo stesso siamo esposti allo sguardo del mondo attraverso il corpo, eppure non ci vediamo mai per intero.
Jean-Luc Nancy arriva a parlare di un intruso, a proposito non solo dell’organo trapiantato ma del corpo in generale: «L’intruso è in me e io divento estraneo a me stesso» e ancora: «L’intruso non è nessun altro se non me stesso e l’uomo stesso. Non è nessun altro se non lo stesso che non smette di alterarsi […] intruso nel mondo come in sé stesso».
Il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty ci ha insegnato che noi siamo corpo e non abbiamo un corpo, poiché non possiamo prescindere dal nostro assetto fisico nel porci in relazione con il mondo e al tempo stesso, poiché non scegliamo il nostro corpo, come potremmo viceversa scegliere un cappotto, non ne disponiamo a nostro piacimento. Appartenenza ed estraneità sono compresenti e polarizzano un dualismo che molte discipline fisiche e la meditazione nello yoga tendono a ricomporre: quello fra materia e pensiero.
Siamo noi stessi il laboratorio di questa dualità: il movimento, lo sport, la medicina, la malattia e l’invecchiamento allargano e restringono lo spettro delle nostre possibilità e ci fanno vedere come i confini e gli interstizi si spostino di continuo. Non solo il mal di stomaco, pacificamente accettato da tutti, ma qualsiasi cosa accada nel perimetro delle nostre membra dovrebbe essere guardato come una manifestazione psicosomatica. Del corpo e della mente, insieme.
Ma non è sempre facile, anzi se così spesso sentiamo dire che bisogna accettare il proprio corpo, che bisogna amarlo, che bisogna ascoltarlo etc… è proprio perché facciamo, mediamente, il contrario. Ci manca una pratica consolidata in tale senso e non solo perché siamo figli di una distinzione, prima platonica poi cartesiana, fra corpo e mente, ma anche perché quando diciamo che dobbiamo accettare il nostro corpo, per esempio, stiamo ammettendo una dualità, un’alterità dentro noi stessi con la quale non siamo sufficientemente addestrati ad avere a che fare. Il corpo è interfaccia col mondo e quindi ne avverte tutte le pressioni sociali; vogliamo essere magri perché la magrezza è considerata un valore nella nostra cultura, ma prima ancora vogliamo che il nostro corpo si adegui alla nostra volontà, il contrario ci sembra pericoloso, incerto.
Scrive Lingiardi: «Il nostro corpo ci segue e ci accompagna, sa consolarci, può esserci nemico. È il nostro io, ma anche il primo tu. Spesso lo ignoriamo, spesso ci ignora».
Il primo tu. Se ammettiamo che l’io possa nascere già diviso, già con un tu dentro, allora forse ci apriamo a una visione relazionale che sembra convivere meglio con i tanti paradossi della corporeità.
Leggo in un altro saggio interessante dedicato al tema da Walter Siti, C’era una volta il corpo, Feltrinelli 2024:
«In quel coagulo duplice e anfibio che è l’unità psicofisica, il corpo sembra la parte più solida perché tangibile; in realtà è la più fragile, o almeno la più deperibile – la psiche può perdersi, ostacolarsi, annodarsi, fare mille capricci e ordire mille inganni ma alla fine si salva sempre: sopravvive o trasloca, anzi trasmigra».
A Siti interessa indagare cosa stia diventando e cosa diventerà il corpo in un presente dominato dalla dematerializzazione grazie al web e ai social che consentono di non essere fisicamente presenti in moltissime situazioni, mandando avanti un proprio avatar – dalle riunioni di lavoro alle prestazioni sessuali – e allora il corpo diventa immagine, modificabile all’infinito, e comunicazione, o sarà sostituito o integrato da ologrammi, tecnologia con cui conviverà in un futuro dove «il corpo è l’unica cosa sicura che abbiamo ma non è più ratificato da costruzioni collettive» con ricadute sociali inevitabili: «I ricchi paradossalmente saranno i soli che cercheranno in viaggi esotici i corpi nudi e crudi, mentre la classe piccola e media sarà la massa di manovra per l’invasione della virtualità».
C’è da aver paura ma anche da sperare in un futuro in cui il protesico sia integrato all’organico, come già aveva prefigurato Freud in Il disagio della civiltà: «L’uomo è per così dire divenuto una specie di Dio-protesi, veramente magnifico quando è equipaggiato di tutti i suoi organi accessori; questi, però, non formano un tutt’uno con lui e ogni tanto gli danno ancora del filo da torcere. Si consoli tuttavia: questa evoluzione non finirà… Le età future riservano nuovi e forse inimmaginabili passi avanti in questo campo che appartiene alla civiltà e accresceranno ancora la somiglianza dell’uomo con Dio».
Non schiferei una protesi che mi consenta di nuovo di camminare, così come non posso schifare i miliardi di batteri e microrganismi che vivono dentro di me senza che io ne abbia percezione. Abito in un posto che è abitato da miliardi di altri micro-viventi. Forse il corpo è solo una soglia dalla quale affacciarsi, una soglia in movimento che con fatica, timore e meraviglia ci offre ogni giorno un paesaggio diverso.
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