I ribelli siriani sono alla periferia di Homs
È l'ultimo ostacolo prima di provare a raggiungere Damasco: i soldati del regime devono decidere se abbandonare la città o continuare a combattere per Assad
In Siria l’attenzione è tutta concentrata su quello che sta accadendo a Homs, città da quasi ottocentomila abitanti nella zona centrale del paese. Per i ribelli che avanzano da nord verso sud è l’ultimo grande ostacolo da superare prima di puntare verso la capitale Damasco.
Venerdì fonti locali avevano detto all’Osservatorio siriano per i diritti umani, un’organizzazione che segue giorno per giorno gli eventi in Siria, che i soldati del regime di Bashar al Assad avevano abbandonato Homs com’era già successo ad Aleppo e Hama nei giorni precedenti, ma non era vero. Le truppe assadiste sono ancora in città e i miliziani del gruppo Hayat Tahrir al Sham, che in arabo vuol dire “organizzazione per la liberazione del Levante”, si sono fermati alla periferia nord.
Homs è una città strategica nella guerra in Siria. I due posti dove il regime di Assad è più forte sono la capitale Damasco e la città di Latakia, con un porto militare, sulla costa del Mediterraneo e sono separati da circa 330 chilometri di strada. Homs sta nel mezzo e se i ribelli la prendessero spezzerebbero in due il territorio controllato dal regime.
Due enclave assadiste isolate, sebbene grandi e fortificate, sarebbero più facili da sconfiggere per i gruppi di insorti che vogliono rovesciare il regime di Assad.
Inoltre Homs è all’incrocio delle due autostrade che oggi il regime considera più preziose, la M5 e la M1. La prima è la principale autostrada del paese e collega il sud al nord e la seconda serve la costa dove si concentrano i siriani fedeli al presidente Assad. In queste ore i gruppi armati si sono piazzati vicino alla tangenziale nord di Homs e la tengono sotto tiro. Se riuscissero ad arrivare alla tangenziale sud, ed è questione di pochi chilometri, non controllerebbero ancora tutti i collegamenti tra Damasco e Latakia ma taglierebbero il più veloce.
La caduta oppure no di Homs ha un valore che va oltre le questioni logistiche della guerra, che pure sono importanti. Homs è cruciale per la tenuta psicologica dell’esercito di Assad. In queste ore i reparti del regime si controllano a vicenda per vedere che cosa scelgono di fare gli altri. È raro che i soldati decidano di morire per una causa che considerano persa. Se le truppe decidessero di abbandonare Homs sarebbe un segnale potente di sfiducia nelle chance di sopravvivenza del regime. Se invece quelle truppe decidessero di resistere sarebbe il segnale che pensano sia ancora possibile fermare l’avanzata dei gruppi ribelli verso Damasco.
– Leggi anche: L’entrata dei gruppi armati siriani a Hama, in foto
Nel 2011 a Homs ci furono grandi proteste di piazza contro il regime, che però furono disperse con violenza dai soldati. Alcuni quartieri provarono a resistere con le armi, furono assediati per mesi e resistettero soltanto grazie ad alcuni vecchi tunnel che dalla campagna portavano alla città passando sotto i posti di blocco. Ma alla fine gli abitanti dei quartieri ribelli dovettero arrendersi. Durante l’assedio un bombardamento delle forze di Assad uccise la reporter americana Marie Colvin e il fotografo francese Remi Ochlik. Homs è considerata sotto il pieno controllo di Assad dal 2012.
Il New York Times scrive che l’Iran, uno degli alleati di Assad, ha ordinato ai suoi militari e ai diplomatici di lasciare la Siria e tornare in patria. In un’intervista telefonica Mehdi Rahmati, un analista iraniano ascoltato dal governo di Teheran, dice al New York Times che «l’Iran ha cominciato a ritirare le sue forze e il personale militare perché non possiamo combattere come forza di appoggio se lo stesso esercito della Siria non vuole combattere».
Bashar al Assad non sta facendo dichiarazioni, mentre giovedì il capo del gruppo ribelle Hts, Abu Mohammed al Jolani, ha fatto due interviste con la tv americana CNN e con il New York Times. Venerdì sera funzionari egiziani e giordani, secondo il Wall Street Journal, hanno chiesto al presidente Assad di lasciare la Siria e di formare un governo in esilio, che è un modo diplomatico per invitarlo ad accettare la sconfitta e mettersi in salvo finché è in tempo.
Nel sud del paese, a Daraa, i gruppi ribelli che negli ultimi anni erano passati attraverso un processo di cosiddetta «riconciliazione» con il regime e avevano accettato di deporre le armi per sempre in cambio della libertà hanno rotto l’accordo. Vuol dire che sono convinti che non ne pagheranno le conseguenze perché il regime non tornerà più in quelle zone. Da Daraa gli insorti si sono mossi verso nord e sono arrivati a Izraa, un centro abitato a ottanta chilometri dalla capitale Damasco.
La popolazione si è ribellata al regime nella città di al Suwayda, sempre a sud, che è abitata dai drusi: è significativo perché i drusi sono una minoranza religiosa non musulmana e il regime di Assad ha sempre sostenuto di essere il protettore delle minoranze religiose. Anche in questo caso si è rotto un patto.
Secondo un sito locale di notizie, l’Euphrates Post, il regime ha lasciato tutte le posizioni nella regione di Deir Ezzor, a est, alle milizie curde, che giovedì hanno occupato tutti i centri abitati, inclusi i più importanti: Deir Ezzor, al Mayadeen e al Bukamal, che è un valico di confine tra Siria e Iraq. Il regime non poteva fare altrimenti, perché sta richiamando tutti i soldati verso Damasco per organizzare la difesa. Al Bukamal è il punto usato dalle milizie filo iraniane per entrare in Siria da est e adesso la cessione forzata ai curdi vuol dire che quelle milizie non potranno più entrare per aiutare Assad.