I grossi problemi economici dell’autonomia differenziata
Li ha spiegati la Corte costituzionale nella sua sentenza, secondo cui la riforma è poco sostenibile sul piano finanziario, oltre che su quello costituzionale
La sentenza con cui la Corte costituzionale ha bocciato ampie e significative parti della riforma sull’autonomia differenziata, pubblicata in maniera integrale martedì, dichiara illegittima la legge sotto vari aspetti. Tra i tanti di cui si è parlato e che hanno alimentato la polemica politica, è stato dato poco risalto alle obiezioni che la Corte ha fatto in merito ai suoi risvolti sul bilancio, che però sono notevoli e pongono seri dubbi sulla sostenibilità finanziaria, oltreché costituzionale, della norma.
La legge dell’autonomia differenziata, promossa in particolare dalla Lega di Matteo Salvini e dal suo ministro per gli Affari regionali Roberto Calderoli, poggia fin dall’inizio su un doppio assunto contraddittorio. Da un lato prevede che prima di avviare i negoziati tra governo e regioni per trasferire i poteri vengano individuati i LEP (Livelli essenziali delle prestazioni), cioè i servizi essenziali che lo Stato deve garantire a tutti i cittadini in ogni area del territorio nazionale; dall’altro, resta del tutto vaga sul modo in cui i LEP dovrebbero essere finanziati.
Il governo è stato sempre piuttosto ambiguo ed elusivo, sul tema delle coperture finanziarie. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, pure lui della Lega, nell’autunno del 2023 aveva deciso di agganciare la riforma dell’autonomia alla legge di bilancio per il 2024, facendone cioè quello che nel gergo parlamentare si chiama un collegato: si trattò di un espediente piuttosto manifesto per agevolare in una fase iniziale la discussione della riforma. Al tempo stesso, però, dovendo appunto includerla nelle previsioni di finanza pubblica legate alla legge di bilancio, fece inserire una norma che stabiliva come dalla riforma dell’autonomia non dovessero derivare maggiori spese per il bilancio dello Stato.
La cosa era però piuttosto bizzarra, visto che il finanziamento dei LEP è un obiettivo molto ambizioso, e che per unanime parere degli esperti che da vent’anni studiano la materia comporterebbe una maggiore spesa di vari miliardi all’anno. Per alcuni saranno pochi, per altri diverse decine: ma non c’è dubbio che garantire un livello dignitoso di servizi pubblici e di diritti essenziali omogeneo e diffuso su tutto il paese avrebbe un costo significativo. Calderoli per un po’ ha negato questa tesi, mentre Giorgetti si limitò a dire, interrogato sulle spese connesse all’autonomia, che se ne sarebbe riparlato dopo l’approvazione della legge in parlamento.
Col tempo, però, queste posizioni si sono rivelate insostenibili, anche perché nella versione finale della riforma viene previsto che «qualora dalla determinazione dei LEP […] derivino nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, si può procedere al trasferimento delle funzioni solo successivamente all’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi di stanziamento delle risorse finanziarie volte ad assicurare» i LEP. Dunque la legge prevede che possano esserci maggiori spese, al contrario di quanto Calderoli aveva inizialmente sostenuto. Quanto a Giorgetti, neppure dopo l’approvazione definitiva della riforma, nel giugno scorso, ha spiegato come intende trovare le risorse per finanziarla.
Di fronte a queste incognite, la Corte segnala che è «improcrastinabile l’attuazione del fondo perequativo». Si tratta di un meccanismo previsto da una vecchia legge sul federalismo fiscale del 2011 secondo cui, una volta definiti i LEP e definita una cosiddetta spesa standard che si ritiene necessaria per garantire certi servizi, lo Stato dovrebbe poi aiutare le regioni più arretrate che non riescono a sostenere questa spesa. Per fare un esempio molto grossolano: se si stabilisce che servono 50 corse di autobus al giorno ogni 10mila abitanti, e che quello dunque è il LEP, bisogna calcolare quanto sia giusto spendere per finanziare quelle 50 corse, e le regioni che non possono arrivare a quella cifra dovrebbero ottenere dallo Stato una compensazione, una perequazione, tramite le risorse che derivano anche dalle regioni più ricche. In questo modo, dunque, da un lato si concede alle regioni che lo vogliono di gestire in proprio certe funzioni, dall’altro si garantisce uno standard minimo dignitoso a tutto il paese.
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Ma questo fondo perequativo da un lato è difficile da strutturare, dall’altro è politicamente scivoloso proprio per i partiti autonomisti come la Lega, perché di fatto implica, sempre semplificando molto, che per ottenere l’autonomia la Lombardia dovrebbe comunque dare una parte maggiore dei propri soldi alla Calabria. Non è un caso che da oltre 13 anni quel fondo perequativo resta un obiettivo mai raggiunto: proprio come i LEP, di cui si discute dal 2001. Peraltro il fondo è anche uno degli obiettivi dell’Italia per rispettare gli impegni del PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza finanziato con fondi europei.
L’alternativa sarebbe aggirare del tutto il meccanismo di perequazione e procedere alla definizione dei costi dei LEP sulla base non della spesa standard, ma della cosiddetta spesa storica. Rimanendo all’esempio grossolano di prima: quanto ha speso finora la Lombardia per finanziare 50 corse di autobus? Ecco, quella sarebbe la cifra adeguata con cui la Lombardia può finanziare quel LEP trattenendo di fatto sul proprio territorio una parte equivalente delle tasse pagate dai cittadini lombardi (è tutto più articolato di così, ma questo è il funzionamento di base). Nei mesi scorsi la Banca d’Italia aveva già segnalato un rischio insito in questo meccanismo, che «determinerebbe la “cristallizzazione” degli attuali divari nell’offerta di prestazioni pubbliche sul territorio», consolidando dunque le distanze tra Nord e Sud. E la Commissione Europea aveva avanzato preoccupazioni simili. Ora la Corte aggiunge un’altra obiezione, spiegando cioè che questo sistema basato sulla spesa storica è anche incostituzionale.
L’articolo 97 della Costituzione stabilisce infatti che i pubblici uffici siano organizzati in modo da assicurare il buon andamento dell’amministrazione, cioè che siano gestiti in maniera efficiente. Ma il principio della spesa storica, applicato all’autonomia, confligge con questo principio, perché non è affatto detto che il modo con cui la Lombardia ha gestito le risorse per finanziare gli autobus (o altri servizi) sia effettivamente il modo più efficiente per farlo.
C’è poi un’altra contraddizione sul piano finanziario rilevata dalla Corte. La riforma prevede che ogni anno si valuti la necessità che lo Stato contribuisca alle spese della regione che ha richiesto l’autonomia, se nel frattempo il costo dei servizi che fanno riferimento alle funzioni trasferite è aumentato, o se ci sono altre esigenze che rendono non più sostenibile quella spesa da parte della regione. Di nuovo, semplificando: se la Liguria l’anno scorso aveva speso 100 per finanziare dei nuovi trasporti locali in virtù dell’autonomia ottenuta, ma quest’anno dovrà spendere 120 e non ha quei 20 in più, sarà lo Stato a coprire la differenza.
Ma per la Corte questa «sorta di “paracadute” finanziario annuale» non è compatibile con il principio stesso dell’autonomia. Appare infatti «congruo», si legge nella sentenza, che «se una regione chiede ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia rispetto alle regioni ordinarie, diventi responsabile, anche sotto il profilo finanziario, delle risorse» che le vengono messe inizialmente a disposizione sulla base della legge. E dunque questa forma di «allineamento» finanziario prevista va considerata incostituzionale.
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