L’hotel da cui tutti aspettano solo di andarsene
Al “Rafaelo”, in Albania, ci sono solo due tipi di ospiti: agenti italiani mandati a sorvegliare i centri per migranti, e persone evacuate dall'Afghanistan
di Laura Loguercio
A fine novembre all’hotel Rafaelo di Shengjin, nel nord dell’Albania, ci sono due categorie di persone: agenti delle forze dell’ordine italiane mandati qui per sorvegliare i centri per migranti voluti dal governo italiano; e persone evacuate dall’Afghanistan che aspettano di avere i permessi per spostarsi altrove. Sono due gruppi diversissimi, le cui vite all’interno dell’hotel scorrono parallele.
L’hotel Rafaelo si trova nella parte sud del lungomare di Shengjin, città che negli ultimi anni è diventata una meta popolare per le vacanze estive. L’hotel ha cinque stelle, comprende diversi edifici e si sviluppa intorno a un cortile centrale con tre piscine e vari viottoli interni. Oltre alle centinaia di stanze, sul cortile si affacciano un supermercato e un ufficio per il cambio valuta, una piscina coperta, un centro benessere, due ristoranti e una piccola palestra.
Gli agenti italiani di Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza alloggiano nell’area “Executive & Spa”, nella parte sinistra del cortile. Le stanze delle persone afghane sono sparse per i vari edifici, ma tra loro si ritrovano quasi sempre nella parte destra, vicino a una piscina che in inverno rimane vuota. Solo i bambini in alcuni casi non rispettano questa divisione informale degli spazi: si rincorrono per le vie, giocano a calcio davanti all’ingresso, attraversano tutto l’hotel in monopattino.
Nonostante le nette divisioni nella vita quotidiana, gli agenti italiani e le persone evacuate dall’Afghanistan hanno almeno una cosa in comune: sono arrivati all’hotel Rafaelo un po’ per caso, e aspettano solo di andarsene.
Non si sa il numero esatto delle persone afghane attualmente presenti all’hotel Rafaelo, ma sono almeno qualche centinaio. Sono persone che in passato, prima della presa del potere dei talebani nel 2021, avevano collaborato con gli Stati Uniti lavorando nelle ambasciate o nei consolati, oppure che avevano partecipato a vari progetti come interpreti, mediatori e via dicendo.
Di solito arrivano in Albania grazie all’aiuto del governo statunitense e di alcune ong, ci restano per qualche mese mentre le loro richieste di visto vengono elaborate, e appena hanno l’autorizzazione si spostano altrove, spesso negli Stati Uniti. Molti partono insieme alle loro famiglie, per questo l’hotel è pieno di bambini e ragazzi di tutte le età. Per loro l’UNICEF organizza dei corsi e delle attività quotidiane in una stanza al piano terra dell’hotel, che è stata riconvertita in una specie di asilo. In un’altra stanza è stato allestito uno spazio per sole donne.
Non si possono fare foto e gli addetti alla sicurezza dell’hotel controllano meticolosamente che non succeda. Anche le persone afghane presenti al Rafaelo preferiscono non parlare con i giornalisti, per evitare problemi e per paura di compromettere le loro possibilità di ottenere un visto.
I primi evacuati afghani arrivarono in Albania dopo il caotico ritiro degli Stati Uniti dal paese, nell’agosto del 2021: in quel periodo migliaia di persone furono evacuate, per evitare che subissero ritorsioni da parte dei talebani. Il governo del primo ministro albanese Edi Rama (in carica ancora oggi) si rese disponibile a ospitarne circa 4mila.
Già nel 2021 una parte sostanziosa dei collaboratori afghani e delle loro famiglie fu portata proprio all’hotel Rafaelo: viaggio, vitto e alloggio erano coperti dalle ong che li sponsorizzavano, e di fatto loro dovevano solo aspettare di ricevere il visto per la destinazione finale.
Per molti l’hotel Rafaelo è stato come un limbo, un luogo di attesa per il passaggio tra due vite diverse: quella passata, in Afghanistan, e quella futura, nel mondo occidentale. «Il nostro cuore era in Afghanistan, ma in Albania stavamo bene. Eravamo in una situazione conflittuale, con la mente sospesa», dice Wahab Siddiqi, un uomo afghano che tra il 2021 e il 2022 passò sette mesi e mezzo al Rafaelo, prima di trasferirsi negli Stati Uniti.
In Afghanistan insegnava alla scuola di Giornalismo e Comunicazione di massa dell’università di Herat ed era caporedattore della Afghanistan Women News Agency. Il 22 agosto del 2021, una settimana dopo il ritorno al potere dei talebani a Kabul, Siddiqi salì insieme alla sua famiglia e ad alcuni colleghi su un aereo per Abu Dhabi, e poi su un altro per Tirana. «Quando mi hanno detto dove stavamo andando non sapevo nemmeno dove fosse Tirana, ho dovuto cercarla su internet», dice in modo scherzoso.
Rimase all’hotel Rafaelo da settembre del 2021 a marzo del 2022. Anche se tutte le spese di viaggio, vitto e alloggio erano coperte da una ong statunitense, per passare il tempo mentre era in Albania lavorò per un po’ come interprete e giornalista. A un certo puntò trasformò anche una stanza vuota nel suo ufficio.
«A differenza di molti altri paesi che non accolgono gli stranieri, le persone albanesi, almeno nella mia esperienza, erano molto gentili. Dicevano che anche loro sono stati immigrati: sapevano come ci sentivamo», dice. Oggi Siddiqi insegna giornalismo e fotografia in Maryland, negli Stati Uniti, e collabora ancora con l’Afghanistan Women News Agency.
Non sempre le cose sono andate come previsto: a causa di lungaggini burocratiche alcune persone hanno passato al Rafaelo alcuni anni, e qualcuno è ancora in Albania dal 2021. È il caso di Shakibaa, una ragazza afghana che non è riuscita a ottenere il visto per gli Stati Uniti. Lo scorso giugno l’associazione che la sosteneva economicamente ha smesso di farlo. Lei ha dovuto lasciare l’hotel e ha trovato un lavoro malpagato nella zona.
Le evacuazioni di persone afghane che in passato avevano collaborato con gli Stati Uniti continuano tuttora, e spesso il punto intermedio di questo processo di evacuazione dall’Afghanistan è ancora l’Albania. Per questo al Rafaelo si vedono tanti bambini e bambine afghane che giocano, mentre i genitori parlano tra loro poco lontano. Sempre nella parte destra del cortile.
Intanto, dalla parte opposta dell’hotel gli agenti italiani passano il tempo tra un turno di lavoro e l’altro. Tra loro non ci sono bambini né donne: sono tutti rigorosamente uomini.
Vicino all’ingresso dell’area “Executive” dell’hotel sono sempre parcheggiate tre o quattro camionette che a tutte le ore del giorno e della notte fanno la spola verso i due centri per migranti costruiti dal governo italiano in Albania, che gli agenti devono sorvegliare. Il primo è l’hotspot di Shengjin, che si trova nel porto della città e dista circa 20 minuti a piedi dal Rafaelo; il secondo è il centro di Gjader, a mezz’ora di macchina verso l’entroterra, dove ci sono un centro di trattenimento, un centro di permanenza per i rimpatri (CPR) e un piccolo carcere.
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Gli agenti che alloggiano al Rafaelo sono circa un centinaio: molti meno di quelli che avrebbero dovuto essere se le cose fossero andate secondo i piani del governo, e quindi se i centri per migranti stessero effettivamente ospitando qualcuno. Da quando sono stati inaugurati, verso la fine dell’estate, sia l’hotspot che la struttura di Gjader sono rimasti quasi sempre vuoti (lo sono tuttora) a causa di problemi legali e della mancata convalida del trattenimento dei migranti da parte dei tribunali competenti. Sul caso deciderà con tutta probabilità la Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Intanto però le strutture non possono rimanere incustodite: serve che qualcuno controlli che non entrino persone non autorizzate, magari per accamparsi o per imbrattare qualche muro. Per questo gli agenti le sorvegliano 24 ore al giorno, alternandosi su turni di 6 ore. Le camionette partono regolarmente dal cortile dell’hotel, spesso scortate da altre due auto. «Ci vediamo a mezzanotte e venti, che poi partiamo», si dicono due agenti di venerdì sera, chiacchierando in cortile dopo cena.
Secondo un poliziotto che alloggia al Rafaelo, l’attuale contingente di agenti presenti in Albania è il minimo indispensabile per garantire la corretta funzionalità del programma: ridurli ulteriormente sarebbe impossibile, dice. Aggiunge che il personale deve esserci anche perché, almeno in teoria, i migranti potrebbero arrivare in ogni momento. In realtà, almeno finché non saranno risolte le questioni legali e burocratiche (verosimilmente in primavera) è improbabile che il governo decida di mandare migranti in Albania.
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Il poliziotto (che non ha detto come si chiama perché alle forze dell’ordine è stato vietato di parlare con i giornalisti) spiega che molti degli agenti presenti insieme a lui in Albania hanno già avuto esperienza in contesti migratori, lavorando per esempio in altri hotspot o CPR in Italia: «Per me sono la normalità», dice.
Come altri colleghi non è contento di essere qui e dice di non vedere l’ora di tornare in Italia. Gli agenti italiani comunque non stanno continuativamente in Albania: ogni due settimane c’è un ricambio con gruppi che poi restano un mese (significa che alcuni arrivano per esempio il primo del mese e ripartono il 31, e altri arrivano il 14 e ripartono a metà del mese successivo). In questo modo non ci sono mai cambi troppo netti, e le persone lì da più tempo possono insegnare il lavoro ai nuovi arrivati. Le partenze sono volontarie: chi vuole andare a sorvegliare i centri in Albania può dare disponibilità alla propria sezione di appartenenza in Italia, che poi organizza i turni.
Lo stato italiano copre tutti i costi di vitto e alloggio degli agenti al Rafaelo. Il ministero dell’Interno ha stanziato 9 milioni di euro all’anno, ma la cifra dovrebbe coprire le spese di un contingente di 295 agenti presenti contemporaneamente, il triplo del numero attuale. Oltre al loro stipendio gli agenti ricevono anche una diaria, ossia una somma giornaliera aggiuntiva, come previsto per la partecipazione a missioni internazionali.
Il poliziotto incontrato nell’hotel dice che comunque «il gioco non vale la candela». Anche se il Rafaelo è stato descritto sui media come un hotel in un certo modo lussuoso, o comunque dove gli agenti sono ospitati in condizioni privilegiate, secondo il poliziotto in Italia una struttura del genere non varrebbe affatto cinque stelle: «al massimo un due o tre stelle, per i servizi che offre». Essere qui vuol dire stare lontani dalla famiglia per un mese, e anche i soldi aggiuntivi non sono poi tanti, se si guarda al netto. In Albania però gli agenti non hanno tante spese e non vanno più di tanto in giro per Shengjin: «Lavori, ti rilassi in hotel, questo è».