Chi comanda davvero in Volkswagen

In teoria i dirigenti e l'amministratore delegato, in pratica hanno molto potere anche il consiglio di fabbrica e i lavoratori, per una peculiarità dell'industria tedesca

Lo stabilimento della sede centrale di Volkswagen, a Wolfsburg, illuminato di rosso alla mezzanotte del 30 novembre, prima dell'inizio dello sciopero (Michael Matthey/dpa via AP)
Lo stabilimento della sede centrale di Volkswagen, a Wolfsburg, illuminato di rosso alla mezzanotte del 30 novembre, prima dell'inizio dello sciopero (Michael Matthey/dpa via AP)
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La grave crisi di Volkswagen e la conseguente fase di scioperi che si è aperta mostrano bene la grande influenza del suo sindacato interno, che in Germania si chiama consiglio di fabbrica: è il più potente del paese e si sta rivelando in grado di bloccare il duro piano di risanamento prospettato negli ultimi mesi dalla dirigenza, grazie all’assetto societario pressoché unico dell’azienda che dà alle rappresentanze dei lavoratori la capacità di decidere sui progetti più importanti.

Questo avviene per legge in molte grandi società tedesche, ma per una serie di ragioni ha contribuito a rendere Volkswagen un caso pressoché unico nel suo genere: è allo stesso tempo una multinazionale, una partecipata statale e un’azienda guidata dai suoi dipendenti. Ecco perché quando si parla di Volkswagen la risposta alla domanda su chi comanda la società non è banale: in teoria l’amministratore delegato, in pratica anche i suoi 300mila lavoratori in Germania e chi è a capo del consiglio di fabbrica.

I consigli di fabbrica – Betriebsrat in tedesco – sono una peculiarità del sistema industriale tedesco. Nascono come organi di rappresentanza dei lavoratori, quindi sono una sorta di sindacato interno all’azienda, e sono composti interamente da dipendenti eletti a rappresentanti. Supervisionano tutto ciò che ha a che vedere con le condizioni di lavoro, collaborando anche con i sindacati locali e nazionali.

Fin qui potrebbero sembrare simili alle rappresentanze aziendali in Italia, le cosiddette RSU, ma i consigli di fabbrica tedeschi hanno qualcosa in più perché partecipano alla Mitbestimmung, che in italiano significa “codeterminazione” o “cogestione”: è un modello societario obbligatorio per le aziende tedesche di grandi dimensioni, e impone che la gestione aziendale risponda alla pari sia agli azionisti che ai lavoratori.

I dipendenti di Volkswagen in sciopero fuori dalla sede centrale dell’azienda, a Wolfsburg, in Germania (Julian Stratenschulte/Getty Images)

La Mitbestimmung assegna un ruolo di rilievo al consiglio di fabbrica nella struttura societaria, e prevede la partecipazione diretta dei rappresentanti dei dipendenti al Consiglio di sorveglianza, l’organo che vigila sull’operato dell’amministratore delegato e dei più alti dirigenti.

Il Consiglio di sorveglianza è composto per metà dai rappresentanti dei lavoratori e per metà da quelli degli azionisti. Tra gli azionisti di Volkswagen – oltre al socio di maggioranza rappresentato dalla famiglia Porsche – c’è anche il governo della Bassa Sassonia, la regione tedesca dove si trova la sede centrale dell’azienda. Con quasi il 12 per cento delle azioni i suoi rappresentanti talvolta si coalizzano con quelli dei dipendenti. L’equilibrio dipende molto dallo schieramento politico dell’amministrazione locale, ma in generale si può dire che il Consiglio di sorveglianza ha una maggioranza di fatto a favore dei lavoratori.

La Mitbestimmung delle aziende tedesche – e in particolare quello di Volkswagen – è generalmente riconosciuta come la base dei grandi successi industriali della Germania, che sono riusciti a garantire sia una maggiore ricchezza che uno sviluppo sociale e occupazionale. I lavoratori tedeschi non solo sono tra i più tutelati dell’Unione Europea, ma godono anche di un generoso sistema di welfare e benefit aziendali, tra cui anche la partecipazione di dividendi. Lo stesso vale per quelli di Volkswagen, i più tutelati e pagati di tutto il settore automobilistico: sono in media pagati quasi il doppio rispetto agli operai italiani.

Una lavoratrice dello stabilimento di Wolfsburg, nel 2018 (AP Photo/Michael Sohn)

Anche fuori dalla Germania il Mitbestimmung è spesso portata a esempio di come la gestione aziendale possa conciliare crescita e obiettivi sociali, ma è un modello che può avere qualche controindicazione, perché per esempio scoraggia l’ingresso di nuovi investitori e soci, intimoriti dal potere dei lavoratori. Le aziende tedesche sono per questo molto dipendenti dalle banche, talvolta l’unica opzione per riuscire a finanziare sviluppo e nuovi progetti.

Ma il problema principale è che il sostanziale potere di veto dei lavoratori rischia, a volte e in determinati contesti, di rallentare il processo decisionale dei manager, che difficilmente riesce a intervenire anche nelle situazioni più disfunzionali.

In Volkswagen da mesi il consiglio di fabbrica sta negoziando per bloccare il piano di licenziamenti: ha proposto un taglio dei costi di 1,5 miliardi di euro l’anno, che comprende la riduzione dei dividendi e dei bonus per i dipendenti. L’azienda ha rifiutato, perché punta a un risparmio almeno doppio, tra i 3 e i 4 miliardi di euro l’anno, ritenuto necessario per adeguare la sua struttura a un mercato in grave crisi: le vendite si sono strutturalmente ridotte, soprattutto in Cina, mercato di riferimento dell’azienda.

Secondo un piano trapelato negli ultimi mesi, l’azienda avrebbe indicato la chiusura di due o tre stabilimenti in Germania, il licenziamento di circa 30mila persone e una riduzione degli stipendi in media del 10 per cento. Mercoledì, partecipando a una riunione del consiglio di fabbrica, l’amministratore delegato dell’azienda Oliver Blume ha detto ai lavoratori: «Non possiamo vivere in un mondo di fantasia. Le nostre decisioni devono tener conto di un contesto che evolve rapidamente».

A questo ha risposto la capa del consiglio di fabbrica, Daniela Cavallo, dicendo che «i sacrifici devono essere condivisi, anche dal top management e dagli azionisti». Cavallo ha insomma chiesto un approccio più equo, e ha avvertito che le trattative si bloccheranno se non ci saranno compromessi più favorevoli ai lavoratori. Le negoziazioni riprenderanno la prossima settimana.

Nel frattempo è iniziato lunedì un cosiddetto sciopero di avvertimento, che consiste in brevi interruzioni dei turni di lavoro con scarso preavviso. Secondo la IG Metall, il sindacato dei metalmeccanici, solo lunedì hanno partecipato quasi 100mila lavoratori sui 300mila dipendenti di Volkswagen in Germania (nel mondo sono circa 660mila). Non è ancora chiaro quando finirà.

Dipendenti di Volkswagen fuori dallo stabilimento di Zwickau, in Germania, il 30 novembre (Hendrik Schmidt/dpa via AP)

Negli ultimi mesi Cavallo, che è nata nel 1975 a Wolfsburg ma ha genitori calabresi, è diventata conosciuta anche all’estero come simbolo della lotta dei lavoratori contro la crisi epocale del primo produttore di auto in Europa e di tutto il settore, in un momento in cui sono a rischio milioni di posti di lavoro in tutta l’Unione Europea. È a capo del consiglio di fabbrica dal 2021 e con l’attuale amministratore delegato ha finora avuto un rapporto di sostanziale collaborazione. Negli ultimi mesi le cose sono però cambiate e nelle sue ultime apparizioni in pubblico si è dimostrata molto più dura rispetto al passato, quando era stata spesso conciliante e pragmatica.

Daniela Cavallo durante lo sciopero dei dipendenti di Volkswagen iniziato il 2 novembre, a Wolfsburg, in Germania (Julian Stratenschulte/Pool Photo via AP)

Cavallo raramente concede interviste ai giornalisti, e le sue dichiarazioni pubbliche sono perlopiù estrapolate da contesti pubblici, come incontri, manifestazioni, scioperi. Durante una recente conferenza stampa ha detto, rivolgendosi alla dirigenza: «State dando fuoco a tutto». E poi: «Con noi non dovete scherzare».

Tanto per avere un’idea del potere del consiglio di fabbrica in Volkswagen, appena insediata Cavallo si trovò in disaccordo più o meno costante con la gestione dell’amministratore delegato, Herbert Diess, che aveva iniziato a prospettare licenziamenti per via di una situazione di mercato che iniziava a essere preoccupante già allora. Diess fu sfiduciato dal Consiglio di sorveglianza, e a giugno del 2022 dovette lasciare l’incarico dopo sette anni.

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