Non alzate subito gli occhi se sentite parlare di ipnosi

Nonostante i pregiudizi è una pratica che ha applicazioni in medicina, senza orologi da tasca e parole magiche: come quella appena avvenuta a Torino

La scena in cui il mago ipnotizza sul palcoscenico i personaggi interpretati da Woody Allen e Helen Hunt
Una scena del film del 2001 La maledizione dello scorpione di giada (MPTV.net/mptvimages.com/Contrasto)
Caricamento player

In un articolo pubblicato a gennaio sulla rivista Nautilus il giornalista scientifico neozelandese Conor Feehly raccontò di una volta in cui da studente universitario si trovò nel pubblico di uno spettacolo di un ipnotizzatore organizzato nell’auditorium dell’università. L’ipnotizzatore chiese ai circa 200 studenti presenti di chiudere gli occhi e ascoltare la sua voce, e poi di stringere le mani e immaginare un filo invisibile che le avvolgeva. Poi chiese loro di separare le mani: chi non fosse riuscito a farlo, sarebbe dovuto salire sul palco.

Circa venti persone, tra cui un amico di Feehly, furono chiamate sul palco e guidate dall’ipnotizzatore verso uno stato di ipnosi più profonda. Su sua richiesta, si impegnarono in una serie di attività per finta: c’era chi passava i prodotti su un immaginario registratore di cassa del supermercato, chi cercava di avvistare persone in mare fingendosi un bagnino. Dopo un po’, l’ipnotizzatore sussurrò qualcosa all’amico di Feehly, che scese dal palco e tornò al suo posto, e riferì a Feehly cosa gli aveva detto l’ipnotizzatore: «Capisco che stai recitando, amico, scendi dal palco».

Il fatto raccontato da Feehly mostra come l’ipnosi sia un fenomeno più articolato e complesso di quanto sembri, che tende a mettere in discussione e ridefinire i confini tra volontà cosciente e simulazione, anche nei casi di applicazione nel campo dello spettacolo. I casi di ipnosi clinica, che ha una storia diversa e può essere eseguita soltanto da professionisti specializzati in psicoterapia ipnotica, sono per molti aspetti ancora più sorprendenti e significativi.

Di recente, e per la prima volta alle Molinette, il più grande ospedale di Torino, l’ipnosi è stata utilizzata in combinazione con l’anestesia locale per due operazioni di chirurgia tiroidea. Le due pazienti, una di 75 e l’altra di 79 anni, hanno detto di aver tratto beneficio dalla procedura, in questo caso alternativa all’anestesia generale, e di essersi sentite tranquille e rilassate durante l’operazione (l’asportazione di tumori benigni delle parotidi tramite piccole incisioni).

Sebbene descritta come un’innovazione, la tecnica dell’ipnosi in associazione con l’anestesia locale per alcuni tipi di interventi chirurgici è conosciuta e studiata da anni. Alcune ricerche ne hanno valutato gli effetti in particolari casi di chirurgia per cui l’anestesia totale presenta una serie di rischi e quella locale, prevista dalle procedure, non è sufficiente a mettere il o la paziente del tutto a proprio agio. I principali benefici associati alla tecnica in questi casi sono una riduzione sia dell’uso di farmaci sia dei tempi di risveglio e di degenza in ospedale.

Oltre che negli ospedali l’ipnosi clinica è uno strumento utilizzato in psicoterapia per favorire la concentrazione sui pensieri modificando lo stato di coscienza. Diverse revisioni di studi condotti negli ultimi due decenni hanno mostrato che può servire in alcuni casi ad alleviare il dolore e ridurre l’ansia in pazienti oncologici, e anche a smettere di fumare, a perdere peso e a ridurre l’insonnia.

Il principale problema di molte ricerche è che riguardano campioni limitati di persone e non includono abbastanza studi clinici randomizzati, cioè quelli svolti in modo da ridurre il rischio di distorsioni nei risultati e di pregiudizi nel valutarli. E non li includono perché è praticamente impossibile progettare studi sull’ipnosi in “doppio cieco”, in cui cioè né i pazienti né gli sperimentatori sono a conoscenza del trattamento ricevuto o somministrato, spiegò alla rivista Time nel 2022 lo psichiatra statunitense David Spiegel, professore alla Stanford University School of Medicine.

Anche per questo motivo l’implementazione dell’ipnosi come tecnica complementare negli ospedali rimane in generale piuttosto limitata.

– Leggi anche: Il problema nello studiare gli psichedelici

La riluttanza di molte persone a considerare l’ipnosi una seria procedura clinica deriva in parte dal fatto che la prima cosa che viene in mente quando se ne parla sono in genere gli spettacoli di magia, appunto, o i film in cui è descritta come un mezzo per compiere truffe e ordire inganni vari. Ma né l’ipnosi clinica né quella da spettacolo rendono le persone incoscienti, che è invece il presupposto di molti luoghi comuni secondo cui le persone non ricorderebbero assolutamente niente di quanto successo mentre erano ipnotizzate.

Resa popolare dal chirurgo scozzese James Braid, che coniò la parola nel 1843, l’ipnosi era già stata studiata alla fine del Settecento dal medico tedesco Franz Mesmer. Fu il fondatore del mesmerismo, una pratica oggi considerata pseudoscientifica, che secondo Mesmer e i suoi seguaci permetteva di alleviare i sintomi di varie malattie usando dei magneti. La tesi alternativa di Braid, poi a sua volta ripresa e discussa dai due neurologi francesi Jean Martin Charcot e Hippolyte Bernheim, era che la focalizzazione dell’attenzione su determinati stimoli – e non i magneti – potesse rendere le persone più suggestionabili e avere effetti terapeutici.

– Leggi anche: C’è anche l’effetto nocebo

C’è un motivo se nell’immaginario collettivo l’ipnosi è legata all’orologio da tasca che oscilla davanti agli occhi della persona ipnotizzata. Era effettivamente uno dei metodi utilizzati in origine con chi si sottoponeva alla seduta: concentrare la sua attenzione su stimoli ripetitivi. In psicoterapia, da molti decenni ormai, si preferiscono altri approcci più efficaci e funzionali: attraverso le parole lo o la psicoterapeuta porta la persona a concentrarsi su determinati pensieri e a ridurre l’attenzione verso l’ambiente circostante. È una condizione che può rendere le persone più ricettive e aperte ai suggerimenti, secondo una definizione dell’ipnosi controversa in ambito scientifico ma condivisa dall’American Psychological Association, la più grande associazione di psicologi negli Stati Uniti.

Per la maggior parte delle persone la condizione di profondo rilassamento tipica dell’ipnosi non è qualcosa di difficile da capire né da sperimentare, disse Spiegel a Time. È simile alla condizione che si verifica quando una persona è talmente immersa e concentrata su un’attività che la sua attenzione si restringe e il suo senso del tempo cambia. «Succede continuamente, ma nell’ipnosi succede di più», disse Spiegel.

Uno dei problemi nello studio dell’ipnosi è che non è facile dimostrarla, perché produce effetti o difficilmente misurabili, o facilmente simulabili da persone non ipnotizzate. Tutto o quasi dipende poi dalla predisposizione all’ipnosi, che è estremamente variabile. Solo il 10 per cento circa della popolazione è classificato come «altamente ipnotizzabile», secondo una stima di Spiegel. Alcune persone non sono ipnotizzabili affatto.

– Leggi anche: L’uomo che rese la neurologia pop

Per misurare la predisposizione all’ipnosi in psicologia e individuare soggetti utili per la ricerca sono utilizzate principalmente due scale (ma ne esistono anche altre): la Stanford Hypnotic Susceptibility Scale (SHSS) e la Harvard Group Scale (HGSHS). In entrambi i casi i ricercatori e le ricercatrici inducono l’ipnosi chiedendo alla persona di rilassarsi, concentrarsi e ascoltare una serie di istruzioni: la predisposizione è misurata sulla base delle reazioni.

Una delle istruzioni, per esempio, è dire alla persona che non ha il senso dell’olfatto, e poi agitarle sotto il naso una boccetta di olio di menta. Se non reagisce o non riesce a riconoscere l’odore, ottiene un punto. I soggetti che ottengono i punteggi più alti sono considerati «virtuosi dell’ipnosi», e tra questi è spesso citata una donna finlandese di mezza età, conosciuta con le iniziali TS-H. Non ha precedenti di malattie psichiatriche o neurologiche, ed è oggetto di diversi studi sull’ipnosi perché sulla scala Stanford che misura la predisposizione individuale ottiene stabilmente il punteggio massimo.

Tra le esperienze che riferì di aver sperimentato sotto ipnosi ci sono allucinazioni uditive e visive indotte dal ricercatore o dalla ricercatrice. In alcune osservazioni TS-H mostrò anche il cosiddetto «sguardo in trance», un tipo di sguardo poco studiato nella ricerca ma molto spesso associato all’ipnosi nella cultura popolare: il genere di sguardo che in un cartone animato della Disney sarebbe probabilmente rappresentato con due occhi a spirale. Uno studio pubblicato nel 2011 sulla rivista Plos One riscontrò nello sguardo di TS-H, mentre lei era sotto ipnosi, una serie di cambiamenti significativi nei movimenti oculari involontari: cambiamenti che i soggetti nel gruppo di controllo non riuscirono a imitare volontariamente.

Non è chiaro perché alcune persone siano più predisposte di altre a essere ipnotizzate. La volontà è in ogni caso una condizione fondamentale: nessuna persona può trarre beneficio dall’ipnosi se non vuole. Come sostenuto da diversi psicologi del Novecento che la studiarono a lungo, l’ipnosi funziona – nel senso che permette di attuare determinati comportamenti su suggerimento dell’ipnoterapeuta – solo nella misura in cui la persona partecipa al processo.

Il successo dell’ipnosi dipende in definitiva dallo psicoterapeuta non più di quanto dipenda dal paziente e dalle sue aspettative, scrisse Feehly su Nautilus citando una ricerca di due psicologi della Bournemouth University, Adam Eason e Benjamin Parris, pubblicata nel 2024 su una rivista che si occupa di trattamenti medici complementari. La volontà del paziente è anche la ragione per cui, secondo Eason e Parris, anche l’autoipnosi – se appresa dopo una formazione iniziale con uno specialista – può essere in alcuni casi clinicamente efficace.

– Leggi anche: Come Sigmund Freud creò la psicanalisi