I gruppi armati siriani hanno preso anche Hama
L’avanzata dei ribelli prosegue veloce: come se un gruppo assediato in Piemonte prendesse Milano e arrivasse a Bologna in otto giorni
di Daniele Raineri
Dopo avere conquistato la città di Aleppo, i gruppi armati siriani sono scesi da nord verso sud per più di cento chilometri e hanno conquistato anche la città di Hama dopo combattimenti intensi ma brevi contro le forze assadiste.
I gruppi di insorti hanno annunciato di avere preso il comando centrale della polizia e di avere aperto le porte del carcere di Hama per permettere ai detenuti di andarsene in libertà. Sono considerati tutti prigionieri politici finiti nelle celle perché oppositori del regime.
L’esercito siriano ha dichiarato di essersi ritirato da Hama «per evitare una battaglia urbana e salvare la vita dei civili». È un comunicato che suona come un pretesto perché l’esercito non ha mai fatto distinzioni tra combattenti e civili.
È passata una settimana da quando i gruppi armati hanno avviato la loro offensiva militare contro il regime del presidente Bashar al Assad e la guerra si è già spostata dalla Siria del nord alla Siria centrale: non era mai successo prima che così tanto territorio passasse da una parte all’altra parte in così poco tempo da quando la guerra è iniziata nel 2011.
Nella notte tra mercoledì e giovedì i gruppi armati si erano piazzati a nord, a est e a ovest di Hama, come se volessero circondarla, e non hanno tentato di chiudere il lato sud. Volevano lasciare una via di fuga alle truppe di Assad trincerate in città.
I miliziani hanno visto in questi giorni che i soldati dell’esercito siriano a volte abbandonano le loro posizioni senza sparare un colpo e hanno un ovvio interesse a favorire questo schema il più possibile. Lasciare aperto il lato sud di Hama è stato un invito tacito ai soldati di Assad a fuggire in direzione di Damasco ed è quello che è successo.
Sui social siriani in questi giorni erano comparsi nuovi annunci per l’arruolamento nelle milizie assadiste nella zona di Hama – che combattono a fianco dell’esercito – e promettono molto denaro, come se ci fosse urgenza di trovare combattenti che si oppongano ai gruppi armati.
La caduta di Hama, 350mila abitanti, manda al resto del paese almeno due messaggi. Il primo è questo: sta succedendo qualcosa che non ha precedenti nella Siria, che vive senza interruzioni sotto il controllo della dinastia Assad (prima il padre Hafez, poi il figlio Bashar) dal 1971. Nelle piazze di Hama c’erano state proteste all’inizio della rivoluzione e anche combattimenti, ma la città non era mai stata conquistata per intero dai ribelli. A nord il controllo del territorio passava spesso dal regime ai gruppi di rivoltosi e viceversa. Invece adesso il regime sta perdendo una regione che era sempre stata sotto il suo controllo.
Il secondo messaggio è questo: la sconfitta di Aleppo pochi giorni fa non è stata uno scivolone occasionale delle truppe di Assad, colte di sorpresa dall’avanzata rapida dei gruppi armati. La debolezza del regime è un problema strutturale. S’intende un problema per il regime, che da una settimana riceve cattive notizie dal fronte.
Quando l’esercito siriano dopo aver perso Aleppo ha annunciato che stava riorganizzando i soldati a nord di Hama e che da lì sarebbe partita la sua controffensiva era un modo per dire ok, abbiamo perso ma adesso ci concentriamo e fermiamo l’avanzata dei ribelli come abbiamo fatto sempre. A giudicare dalla situazione sul terreno c’è da chiedersi se siano davvero in grado di farlo.
Hama ha inoltre un significato speciale per la storia recente della Siria. Alla fine degli anni Settanta un movimento di rivoltosi islamisti cominciò in quella regione una campagna di attacchi contro l’esercito siriano, che era lo strumento di repressione del regime baathista guidato dal padre dell’attuale dittatore, Hafez. Il Baath è il partito unico, autoritario e militarista, che detiene il potere in Siria e non ammette l’esistenza di altri partiti (è una delle ragioni che spinse i siriani a ribellarsi nel 2011).
Nel 1982 dopo attacchi islamisti più gravi del solito l’esercito siriano circondò Hama, la bombardò con l’artiglieria e poi entrò con i carri armati. L’operazione durò ventisei giorni e uccise, a seconda delle fonti, tra le diecimila e le quarantamila persone. Il ricordo di quel massacro assadista è ancora vivo in Siria. Fu il momento nel quale il clan Assad consolidò il proprio potere sul paese.
Sulla mappa della Siria è possibile vedere quattro grandi città in linea da nord a sud: Aleppo, Hama, Homs e la capitale Damasco. Per fare un’analogia grossolana con l’Italia (grossolana, non corrispondente in termini di chilometri): Milano, Bologna, Firenze e Roma. Ecco, in quest’ultima settimana è come se gruppi ribelli che per sette anni erano rimasti confinati e sotto assedio nel Piemonte (Idlib) avessero preso Milano e poi anche Bologna. A Roma non sarebbero contenti.
Mercoledì i gruppi armati che avanzano verso Hama hanno preso la base della Venticinquesima Divisione Forze Speciali, un grande complesso militare che ospita i soldati di Suhail Hassan, uno dei comandanti più famosi al servizio di Assad. Sui social siriani che stanno con Assad il comandante Hassan è una star. Dopo la caduta di Aleppo (che ha 2 milioni di abitanti, il 10 per cento della popolazione siriana) è stato nominato comandante in capo del fronte nord, come misura per tirare su il morale dei soldati, ma adesso anche la sua base è stata occupata dai ribelli mentre lui è fuori a dirigere le operazioni.
Nello stesso giorno il capo di Hayat Tahrir al Sham (ma la L di al Sham non è pronunciata in arabo perché sarebbe un impiccio, si può dire ash-Sham), “l’organizzazione per la liberazione del Levante” che è il gruppo dominante di questa offensiva in Siria, è apparso nelle strade di Aleppo per fare una passeggiata simbolica cinque giorni dopo la fine del controllo di Assad sulla città.
Mercoledì Hayat Tahrir al Sham (Hts) ha pubblicato un comunicato nel quale chiede alla comunità alawita di staccarsi dal regime e dichiara che anche gli alawiti faranno parte della nuova Siria in un ipotetico dopo Assad. Gli alawiti sono una setta religiosa, abbastanza misteriosa perché non parlano della loro dottrina con i non iniziati, e sono i siriani più vicini al regime. Anche il presidente Assad è un alawita, come quasi tutti i suoi collaboratori più fedeli.
Il messaggio fa parte della campagna di comunicazione di Hts per tentare di convincere le minoranze religiose siriane che non hanno nulla da temere in caso di sconfitta di Assad. Otto anni fa il gruppo diceva ancora di fare parte di al Qaida e alcuni gruppi minori che si sono uniti all’offensiva non hanno mai rinnegato il loro estremismo.