La sentenza della Corte costituzionale sull’autonomia è più dura di quel che si pensava
Rende di fatto inutilizzabile la legge, che avrebbe dovuto consentire alle regioni di ottenere maggiori poteri dallo Stato
La Corte costituzionale ha pubblicato la sentenza integrale relativa all’autonomia differenziata, con la quale dichiara illegittime ampie e sostanziali parti della riforma promossa dalla maggioranza e dal governo di Giorgia Meloni per trasferire alle regioni maggiori poteri e prerogative finora gestite dallo Stato centrale. Il contenuto generale della sentenza era noto, perché ne era stata pubblicata una sintesi in un comunicato diffuso dalla stessa Corte il 14 novembre scorso. Come sempre accade, però, ci sono voluti alcuni giorni perché venissero redatte le cosiddette motivazioni, cioè le spiegazioni dettagliate con le quali la Corte illustra le sue decisioni.
La sentenza integrale rende più esplicite le ragioni che hanno portato la Corte a ritenere illegittimi alcuni aspetti specifici della riforma. Di fatto impone modifiche alla legge, già approvata in via definitiva dal parlamento, e ne limita l’applicazione in modo significativo per alcune sue parti: significa che non sono ritenute in contrasto con la Costituzione solo a patto che vengano interpretate e applicate in una certa maniera.
Nel complesso la riforma dell’autonomia differenziata ne esce sostanzialmente bocciata, e così com’è ora è evidentemente inutilizzabile dalle regioni che intendevano già avviare i negoziati con il governo per ottenere l’attribuzione di maggiori poteri. La sentenza integrale è ancora più drastica di quanto era stato ipotizzato sulla base della lettura del comunicato dello scorso 14 novembre, soprattutto perché esclude – anche se non in maniera categorica – che possano esserci significativi trasferimenti di competenze dallo Stato alle regioni sulle materie più importanti, come istruzione, energia, commercio con l’estero, ambiente, professioni, telecomunicazioni, porti e aeroporti.
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La Corte costituzionale è l’organo composto da 15 giudici che vigila sulla conformità delle leggi rispetto alla Costituzione italiana. Sull’autonomia differenziata doveva prendere in considerazione i ricorsi avanzati da quattro consigli regionali guidati dal centrosinistra (Toscana, Puglia, Campania, Sardegna), le obiezioni sollevate da altre tre regioni di centrodestra (Piemonte, Veneto e Lombardia) e la posizione dell’avvocatura dello Stato, che rappresentava di fatto le ragioni del governo. La sentenza è stata redatta dal giudice Giovanni Pitruzzella, giurista palermitano di orientamento moderato con una lunghissima esperienza istituzionale, già presidente dell’Antitrust, cioè l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, e nominato giudice della Corte nel novembre del 2023 dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con cui ha una certa confidenza.
La sentenza è stata approvata in un clima di sostanziale unanimità (l’esito puntuale della votazione non è noto, ma si sa che due o tre giudici di orientamento più conservatore che avevano perplessità su alcuni aspetti della sentenza hanno comunque rinunciato a formalizzare il proprio dissenso).
L’autonomia non potrà riguardare intere materie
Nell’introduzione della sentenza i giudici spiegano che sì, il principio che sta alla base della riforma promossa dal governo è previsto dalla Costituzione, e in particolare dall’articolo 116 modificato con la riforma del Titolo V nel 2001: quello che dice che la legge può attribuire alle regioni «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» rispetto a quelle già previste. La Corte però dice anche che questo concetto non va considerato come una «monade isolata», cioè come un principio che vale di per sé a prescindere dal resto della Costituzione stessa.
L’effettiva possibilità di assegnare maggiori poteri alle regioni, e di promuovere dunque il pluralismo istituzionale, per la Corte va comunque considerata nell’ambito di un ordinamento costituzionale che contempla «la Repubblica come “una e indivisibile”». Insomma, va bene rafforzare l’autonomia delle regioni, ma a patto che non si metta in discussione l’unità della nazione.
La Corte ha poi ricordato l’assoluta necessità di rispettare il principio di sussidiarietà, cioè quello per cui la ripartizione delle competenze deve avvenire in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti costituzionali. Un eccessivo spezzettamento delle materie legislative potrebbe rendere meno efficiente il paese e mettere a rischio il diritto dei cittadini a ricevere servizi dignitosi in ogni regione. Qui la sentenza entra nel dettaglio della riforma. Il principio di sussidiarietà, spiega la Corte, «richiede che sia scelto, per ogni specifica funzione, il livello territoriale più adeguato»: cioè impone di stabilire se sia più logico e funzionale che a erogare certi servizi siano gli enti locali o quelli centrali.
Questa valutazione non va fatta seguendo «un modello astratto», ma studiando nel concreto le singole questioni: per questo secondo la Corte il trasferimento dei poteri dallo Stato alle regioni non può riguardare intere materie, come prevedeva la riforma, ma solo singole funzioni. Significa per esempio che le regioni non potranno ambire a gestire in proprio la materia della protezione civile nel suo complesso, per esempio, ma solo la gestione di alcuni protocolli d’intervento in caso di calamità naturali legate alle specificità del proprio territorio.
I trasferimenti di grosse competenze sulle questioni più importanti saranno molto più difficili, se non del tutto impossibili: viene così ritenuto illegittimo un primo aspetto molto importante della riforma.
Su molte materie è impensabile applicare l’autonomia
Sempre ispirandosi al principio della sussidiarietà, poi, la Corte arriva a restringere in maniera significativa il numero delle materie su cui le regioni potranno ottenere la gestione di alcune funzioni. L’articolo 117 della Costituzione dice infatti che quelle su cui le regioni possono chiedere maggiore autonomia sono 23. Ma la Corte ricorda, come del resto aveva già fatto Banca d’Italia mesi fa, che le valutazioni sull’opportunità di trasferire competenze dallo stato centrale alle amministrazioni locali devono avvenire in virtù di un principio di efficienza per l’intero paese.
Il fatto di dare maggiori poteri al Veneto e alla Lombardia, insomma, deve convenire all’Italia, per dirla in maniera un po’ grossolana. Da una parte la gestione sul territorio di importanti prerogative può ragionevolmente ispirare condotte più virtuose perché per le persone è più facile verificare la presenza di eventuali sprechi o inettitudini; dall’altra però spezzettare le competenze, togliendo i poteri dello stato, può facilmente produrre un aumento complessivo dei costi e creare divergenze tra una regione e l’altra che renderebbero meno efficiente il sistema istituzionale, burocratico ed economico del paese.
Un esempio di rischio concreto, per quanto un po’ semplicistico, è quello di un imprenditore che ha stabilimenti in tre regioni diverse e che per ottenere certe autorizzazioni si troverebbe a dover compilare tre moduli diversi anziché uno solo.
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Per queste ragioni la Corte ha stabilito che per ciascuna richiesta delle regioni vada fatta preliminarmente «un’istruttoria approfondita» e basata su metodologie scientificamente valide. Nella sentenza la Corte si riserva fin da ora di verificare che gli accordi tra regioni e governo per definire questi trasferimenti di competenze avvengano nel rispetto dei principi di efficienza e di sussidiarietà. I margini di trattativa politica tra il capo del governo e i presidenti di regione diventano quindi molto più rigidi.
La cosa forse più rilevante contenuta nella sentenza è che, sulla base di tutte queste considerazioni, la Corte ha escluso che le più rilevanti delle 23 materie teoricamente trasferibili alle regioni possano effettivamente essere oggetto dei negoziati per l’autonomia differenziata: proprio perché a queste materie «afferiscono funzioni il cui trasferimento è, in linea di massima, difficilmente giustificabile secondo il principio di sussidiarietà».
Queste materie sono il commercio con l’estero, la tutela dell’ambiente, la produzione e la distribuzione dell’energia, le grandi reti di trasporto e di navigazione, compresi i porti e gli aeroporti civili, l’ordinamento delle professioni e quello della comunicazione. Tutte materie su cui l’Italia deve rispettare norme dell’Unione Europea o altri vincoli internazionali, per cui è inverosimile che una loro efficiente gestione possa essere compatibile con una differenziazione e una frammentazione a livello regionale.
Un discorso simile vale per l’istruzione scolastica, che per la Corte ha una «valenza necessariamente generale ed unitaria», dove il fatto di avere un’offerta formativa «sostanzialmente uniforme sull’intero territorio nazionale» è finalizzato anche a definire «l’identità culturale del Paese»: il Veneto non può quindi avere dei programmi scolastici notevolmente diversi da quelli della Calabria, per esempio.
Poca chiarezza sui LEP e troppo potere al governo
Poi la Corte costituzionale prende in esame la questione, altrettanto fondamentale, dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP), cioè quella serie di servizi e funzioni che lo Stato deve offrire a tutti i suoi cittadini affinché vengano garantiti i diritti fondamentali in ogni area del paese, assicurando anche l’uniformità delle prestazioni erogate. Deve per esempio essere chiaro quanti posti letto ogni 100mila abitanti debbano essere disponibili negli ospedali delle città, o quanto numerose possano essere le classi nelle scuole delle varie province. Dei LEP si discute da oltre vent’anni senza che si siano ottenuti risultati definitivi e consistenti.
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La riforma dell’autonomia differenziata approvata dal parlamento prevede che la definizione dei LEP vada completata prima di poter avviare i negoziati tra governo e regioni. Per la Corte però il testo della riforma dà indicazioni per orientare la definizione dei LEP che sono «alquanto generiche e inidonee» a suggerire norme adeguate ed efficaci.
Il governo aveva nominato un comitato di esperti nel marzo del 2023 per ricevere indicazioni sulla definizione dei LEP, ma quest’ultimo ancora non è arrivato a risultati conclusivi. Per la Corte, in ogni caso, questo processo prefigura nel complesso una violazione dell’articolo 76 della Costituzione, perché di fatto attribuisce al governo un potere eccessivamente ampio e arbitrario nell’emanare i decreti con cui stabilire i LEP e nel controllare sul fatto che vengano rispettati. Allo stesso modo, la Corte ritiene illegittimo che il presidente del Consiglio possa intervenire con un proprio decreto (i cosiddetti dpcm) per aggiornare i LEP e per individuare le risorse finanziarie necessarie a soddisfarli.
Queste prescrizioni della Corte riguardano peraltro esplicitamente uno dei passaggi decisivi previsti dalla riforma dell’autonomia. La norma prevede infatti che il governo, una volta definita l’intesa con la regione che richiede maggiori competenze, possa approvare un disegno di legge in Consiglio dei ministri per approvare questa intesa. La Corte ritiene «costituzionalmente illegittimo» questo processo, perché dà eccessivo potere e arbitrarietà al governo nel promuovere la legge, limitando invece il ruolo del parlamento, che è il titolare dell’iniziativa legislativa, cioè avrebbe il diritto e il dovere di fare le leggi, salvo casi nei casi di emergenza.
E infatti la sentenza stabilisce che l’unico modo per evitare questa incostituzionalità, è coinvolgere in maniera sostanziale il parlamento, e non solo in maniera formale come sembra prevedere la riforma.
Le camere dunque non potranno essere solo chiamate a ratificare l’intesa raggiunta dal governo e dalla regione e trasformata in legge dal Consiglio dei ministri, ma avranno piena facoltà di discutere quell’accordo, modificarlo, integrarlo. È una precisazione solo apparentemente marginale: ridando piena centralità al parlamento, la Corte espone le intese alla normale dialettica politica, che risente anche del cambio delle maggioranze, e rende prevedibilmente molto più lungo e intricato il già complesso iter di approvazione dell’accordo tra il governo e la singola regione.
Sempre a proposito dei LEP, la Corte di fatto preclude alle regioni una strada che era stata finora percorsa da quei presidenti del nord leghisti ansiosi di avviare il processo di trasferimento delle competenze. Il comitato di esperti nominato dal governo aveva infatti stabilito che delle 23 materie trasferibili alle regioni sulla base dell’articolo 117 della Costituzione, ce ne fossero 9 per le quali non era necessario individuare in via preliminare i LEP.
Con la sentenza della Corte questa distinzione perde un po’ valore: su queste 9 materie infatti i giudici hanno stabilito che non si applica l’individuazione dei LEP solo se il trasferimento di competenze non riguarda prestazioni sui diritti civili e sociali. In pratica in questo modo restano trasferibili solo competenze marginali o quasi nulle: perdono così consistenza le richieste del presidente del Veneto Luca Zaia e di quello della Lombardia Attilio Fontana, che da mesi avevano iniziato a fare pressioni sul governo per intavolare i negoziati su queste 9 materie definite «no-LEP».