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  • Mercoledì 4 dicembre 2024

Le cinque donne che hanno fatto causa al Belgio

E l'hanno vinta: da bambine furono sottratte alle loro famiglie nel Congo coloniale, e subirono gravi abusi in strutture religiose

Monique Bitu Bingi mostra una foto dell'epoca (AP Photo/Francisco Seco)
Monique Bitu Bingi mostra una foto dell'epoca (AP Photo/Francisco Seco)
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Lunedì al Palais de Justice di Bruxelles, il tribunale della capitale belga, il Belgio è stato dichiarato colpevole di crimini contro l’umanità per aver sottratto alle loro famiglie, durante l’epoca coloniale, cinque bambine nate in Congo da madre congolese e padre europeo.

Il caso riguarda soltanto le cinque donne ma fa parte di un fenomeno molto più ampio: migliaia di bambini che tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta del Novecento furono rapiti e portati in strutture legate alla Chiesa cattolica. Altre stime parlano persino di decine di migliaia di persone coinvolte: il numero preciso è impossibile da sapere, perché non esisteva un registro unico e i documenti che potrebbero provare gli abusi sono sparsi e difficilmente accessibili. Spesso erano bambine e bambini nati da stupri, commessi dai colonizzatori europei sulle donne congolesi. Quando, nella maggior parte dei casi, non venivano riconosciuti dal padre restavano alle sole cure della madre, a cui venivano poi portati via.

Nell’idea delle autorità coloniali, lo scopo di togliere questi bambini alle loro famiglie e rinchiuderli in istituti religiosi era di risolvere quello che all’epoca veniva chiamato «il problema dei mulatti»: l’idea cioè che l’esistenza di bambini nati da coppie miste potesse mettere a rischio la supremazia dei bianchi nell’ex colonia belga.

Le cinque donne che hanno fatto causa al Belgio si chiamano Monique Bitu Bingi, Léa Tavres Mujinga, Noëlle Verbeken, Simone Ngalula e Marie-José Loshi. Vennero allontanate dalle loro famiglie quando avevano tra i tre e i quattro anni e portate a Katende, una piccola comunità rurale nel sud del Congo, tra il 1948 e il 1953. Qui si trovava un orfanotrofio gestito dalle suore dove vissero fino all’inizio degli anni Sessanta (esistevano posti simili per i bambini maschi, gestiti dagli ordini cattolici maschili).

A Katende le bambine hanno raccontato che si mangiava poco o nulla: verdure, foglie di patate dolci e una specie di polenta fatta con la cassava, un tubero molto diffuso nelle zone tropicali. Subivano punizioni molto dure e le più grandi (di 5 o 6 anni) si dovevano prendere cura di quelle più piccole, anche neonate.

Spesso i métis (cioè meticci) venivano sottratti con la minaccia dell’arresto. Oppure veniva detto alla famiglia che l’uomo di casa (che magari poteva essere uno zio, dal momento che il padre nella maggior parte dei casi non c’era) sarebbe stato mandato a fare il servizio militare da qualche altra parte. In questo modo si toglieva al nucleo l’unica fonte di sostentamento, costringendolo a scegliere tra la fame o cedere il bambino.

Il Belgio prese il controllo del Congo per la prima volta negli anni 80 dell’Ottocento, quando le potenze coloniali si spartirono i territori della regione durante la Conferenza di Berlino. A Leopoldo II, re del Belgio, venne concesso di stabilire una sorta di regno privato, con l’idea di creare uno stato cuscinetto tra le aree di influenza francese e britannica.

Una statua di Leopoldo II ad Arlon, in Belgio. La scritta dice: “Mi sono preso carico del Congo nell’interesse della civilizzazione e per il bene del Belgio (Jean-Christophe Guillaume/Getty Images)

Quello di Leopoldo fu uno dei governi coloniali più crudeli della storia, in cui morirono svariati milioni di persone (anche qui, una stima precisa è impossibile). Poi, nel 1908, il Congo passò sotto il controllo dello stato belga e diventò una colonia vera e propria, in cui venne instaurato un duro regime di apartheid.

La pratica del rapimento dei bambini era possibile grazie a due decreti dell’epoca di Leopoldo II e a una legge approvata dal parlamento belga nel 1952. In questa si diceva che i figli di coppie miste che non erano stati riconosciuti dal genitore europeo potevano essere sottratti alle loro famiglie «per qualsiasi motivo». Michèle Hirsch, l’avvocata delle cinque donne, ha definito questa «una pratica sistematica per identificare, tracciare e perseguire i bambini di etnia mista, sottrarli alla madre e forzarli sotto il controllo dello stato».

Un aspetto importante è che questa pratica fu applicata e portata avanti anche molti anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando fu introdotto il concetto di crimine contro l’umanità: questo ha consentito al caso delle cinque donne di essere considerato dalla giustizia belga.

Nel 1960 il Congo belga ottenne l’indipendenza, e il leader del Movimento nazionale congolese Patrice Émery Lumumba divenne primo ministro. Pochi giorni dopo l’insediamento, però, nel paese iniziò una guerra civile tra il neonato esercito congolese e milizie indipendentiste. Soltanto un anno dopo, Lumumba fu assassinato: nel 2001 un’inchiesta del parlamento belga riconobbe che le autorità coloniali sapevano dei piani di ucciderlo, ma non fecero nulla per impedirlo.

Durante gli anni della guerra civile le cinque donne che hanno fatto causa al governo belga si trovavano ancora nell’orfanotrofio di Katende. Quando iniziò la guerra, le autorità si attrezzarono per far rientrare in Europa i propri connazionali, membri del clero compresi. In quei giorni, hanno raccontato le donne, tra loro c’era molta euforia: pensavano di essere imbarcate e di finire tra le braccia di papa l’Ètat (papà lo Stato, il modo in cui era stato insegnato loro di chiamare il Belgio). I métis, invece, vennero abbandonati lì.

A Katende c’erano 9 bambine e 20 neonati, molti dei quali morirono per mancanza di cibo. Per qualche mese vissero così, mangiando quello che trovavano e ricevendo le visite regolari da parte dei soldati, da cui subivano abusi fisici, psicologici e sessuali. A un certo punto un amministratore locale scoprì di quello che accadeva a Katende e le bambine sopravvissute vennero affidate a varie famiglie della zona.

Da in alto a sinistra, in ordine orario: Simone Ngalula, Monique Bitu Bingi, Lea Tavares Mujinga, Noelle Verbeeken e Marie-Jose Loshi, 29 giugno 2020 (AP/Francisco Seco, File)

Bitu Bingi, Tavres Mujinga, Verbeken, Ngalula e Loshi oggi hanno tra i 70 e gli 80 anni: alcune di loro vivono in Belgio dove hanno ottenuto (con fatica) la cittadinanza. Altre invece hanno dovuto rinunciare e si sono trasferite altrove. Hanno fatto causa al governo belga nel 2020. Nel 2021 il tribunale di primo grado aveva dato ragione allo stato stabilendo che non ci fossero i presupposti legali per parlare di crimini contro l’umanità. Lunedì la Corte d’Appello ha ribaltato la sentenza, aprendo di fatto alla possibilità che altre persone seguano l’esempio delle cinque donne. Ha anche stabilito che lo stato dovrà dare loro 50mila euro ciascuna.

La loro vittoria è stata resa possibile anche grazie al lavoro di Assumani Budagwa, un ricercatore indipendente originario del Congo che per 30 anni ha raccolto informazioni sulla storia dei bambini rapiti.

Come molti altri paesi europei, il Belgio non ha fatto davvero i conti con il suo passato coloniale, né con la pratica del rapimento dei bambini di famiglie miste. Ci sono stati dei timidi passi avanti (nel 2019 l’allora primo ministro Charles Michel fece delle timide scuse, e l’anno dopo arrivarono anche dal re del Belgio), ma per esempio non è stato istituito un registro formale che possa facilitare la raccolta di documenti sul caso dei métis. Nel 2020, in seguito alle proteste globali del Black Lives Matter, è stata istituita nel paese una commissione che ha realizzato un rapporto di 800 pagine con decine di raccomandazioni su come affrontare il passato coloniale: nessuna di queste è stata messa in pratica. Esistono poi ancora moltissime statue che celebrano i personaggi dell’epoca coloniale, incluso Leopoldo II.