Stellantis ha sbagliato tutto

Anni di scelte industriali poco lungimiranti hanno reso l’azienda più esposta alla grave crisi del settore auto, e in gran parte hanno anche contribuito a crearla

L'ex amministratore delegato di Stellantis Carlos Tavares (Eliot Blondet/ABACAPRESS.COM)
L'ex amministratore delegato di Stellantis Carlos Tavares (Eliot Blondet/ABACAPRESS.COM)
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Le dimissioni di Carlos Tavares da amministratore di Stellantis hanno aggiunto incertezza a una crisi industriale che dura da tempo e che non riguarda solo il grande gruppo automobilistico ma tutto il settore, in Italia e in Europa. La gestione di Tavares, seppur inizialmente elogiata per la sua oculatezza, è stata poi criticata per non aver intercettato i grandi e recenti cambiamenti nel mercato, e per avere investito poco e male nella transizione verso i veicoli elettrici.

La scarsa lungimiranza, unita a quella della politica, ha dunque portato a una crisi che è più che altro un circolo vizioso: da una parte Stellantis sta subendo la grave crisi dell’intero settore, in cui un cambiamento culturale dei consumi e l’evoluzione della tecnologia hanno portato a un generalizzato calo delle vendite di auto; dall’altra l’azienda l’ha in parte provocata, questa crisi, perché da leader di mercato in Italia e in Europa non è stata in grado di indirizzare nel modo giusto l’innovazione dei processi e dei prodotti. Stellantis, come molte altre aziende europee, ha puntato a rinnovare in maniera solo marginale vecchi modelli, perdendo quote di mercato e portando a un lento degrado dei suoi processi e dell’intero indotto. Il risultato è che oggi Stellantis e tutto il settore sono rimasti indietro rispetto agli altri concorrenti in Cina e negli Stati Uniti, dove l’innovazione è davvero avvenuta.

La situazione in cui si trova oggi l’azienda è sì il risultato degli ultimi anni di gestione, ma anche della sua complessa storia. Stellantis è il gruppo nato nel 2021 dalla fusione tra PSA, l’azienda francese prima conosciuta come Peugeot Citroën, e l’italoamericana FCA, cioè l’azienda che nel 2014 originò dalla fusione della statunitense Chrysler con la Fiat. All’epoca la Fiat la guidava Sergio Marchionne, lo stimato e allo stesso tempo criticato manager che all’inizio degli anni Duemila riuscì a salvare la storica azienda italiana.

Con l’acquisizione di Chrysler Marchionne riuscì a creare un grande gruppo internazionale più solido, e a garantire così un futuro a Fiat, una società che dagli anni Novanta faceva fatica a innovarsi e a reggere alla concorrenza. Ma dal punto di vista industriale, da quel momento, le cose cominciarono a cambiare in peggio: le attività di successo iniziarono a essere sbilanciate verso gli Stati Uniti, mentre nei paesi europei e in Italia il business continuò a restare carente e talvolta in perdita.

Sergio Marchionne, nel 2015 a Detroit (AP Photo/Paul Sancya)

Francesco Zirpoli, economista dell’Università Ca’ Foscari di Venezia ed esperto del settore automobilistico, racconta che con FCA c’era ancora una sostanziale divisione del lavoro tra gli stabilimenti italiani e quelli statunitensi, che si concentravano nello sviluppo e nella produzione dei veicoli destinati ai mercati locali: in quelli italiani rimasero sia lo sviluppo e la progettazione dei prodotti, cioè le attività più prestigiose e ad alto valore aggiunto, che la produzione di auto per l’Italia e l’Europa.

Già negli ultimi anni di FCA si iniziò però a intravedere quelle che poi sarebbero diventate tendenze consolidate: la delocalizzazione delle produzioni e dei processi più importanti fuori dal territorio italiano; un calo delle attività degli stabilimenti e dell’indotto; un crescente ricorso alla cassa integrazione; e la riduzione degli occupati. Secondo Zirpoli questa scelta era proprio volta ad arrivare alla fusione con PSA con un’azienda il più snella possibile.

La nascita di Stellantis è poi stato un punto di svolta: la base dello sviluppo si è di fatto spostata da Torino a Parigi, e da allora l’Italia è diventata un paese più periferico nel modello di business di Stellantis. Da tempo, ormai, buona parte della produzione si è spostata altrove.

Carlos Tavares è stato il primo amministratore delegato di Stellantis e ha applicato quello che è stato spesso chiamato il «metodo Tavares», cioè un’estrema razionalizzazione dei processi e un rigoroso risparmio sui costi. Stellantis nacque peraltro all’inizio del 2021, ancora nel pieno della crisi economica dovuta alla pandemia da coronavirus. Il «metodo Tavares» fu dunque elogiato perché permise all’azienda di adattarsi a un difficile contesto di mercato, grazie ad alcune «scelte impopolari», come le definì lo stesso Tavares: nella pratica queste si concretizzarono con lo spostamento delle produzioni nei paesi con un costo del lavoro inferiore (nell’Est Europa, perlopiù), chiusure di stabilimenti, migliaia di licenziamenti e uscite incentivate.

L’ex amministratore delegato di Stellantis Carlos Tavares (Alberto Gandolfo/LaPresse)

La perenne ricerca del risparmio ha però penalizzato l’innovazione, in un momento cruciale per la transizione verso i motori elettrici. Stellantis e altre aziende europee, per mantenere i loro margini di profitto, hanno fatto scelte di breve periodo, puntando per esempio sull’ammodernamento in chiave ibrida ed elettrica di vecchi modelli, con un’innovazione dunque solo marginale. Il simbolo di tutto questo sono per esempio la 500 e la Panda ibride, che hanno un motore cosiddetto mild hybrid: una combinazione del tradizionale motore a combustione e di una componente elettrica, che però è limitata. Sono ancora questi i prodotti su cui punta l’azienda per vendere al mercato di massa, a scapito dei suoi modelli già totalmente elettrici, che sono ancora costosi e poco funzionali per le necessità medie di chi usa la macchina.

Nel frattempo il resto del mondo faceva innovazioni ben più radicali. Tesla e i concorrenti cinesi hanno stravolto la classica struttura delle auto, trasformando non solo il motore da combustione a elettrico, ma anche tutta la parte elettronica, cioè la tecnologia e i software. Per farlo hanno innovato i processi e i modelli produttivi, diventando più efficienti e arrivando a produrre a un costo minore. In un colpo solo sono dunque riusciti a offrire prodotti più all’avanguardia, sostenendo le vendite, e a contenerne i costi. Stellantis invece no.

E mentre il resto del mondo innova, Stellantis punta a evitare la chiusura definitiva dello stabilimento di Mirafiori e il licenziamento di migliaia di operai spostandoci la produzione della 500 ibrida dall’autunno del 2025. Questo è emblematico della responsabilità industriale di Stellantis nella grave crisi europea di tutto il settore. Stellantis è il secondo produttore europeo di auto per veicoli venduti, e ha una posizione di leadership insieme a Volkswagen, altra azienda in grave crisi: le sue scelte poco lungimiranti sono proprio tra i motivi per cui il settore europeo è rimasto indietro rispetto a quanto avvenuto negli Stati Uniti e in Cina.

A questo ha contribuito anche la politica. Da una parte le ambiziose regole europee per arrivare al divieto di vendita di nuovi veicoli a diesel e a benzina entro il 2035 hanno introdotto una serie di stringenti obiettivi intermedi di riduzione delle emissioni che, con un certo cortocircuito normativo, hanno portato le aziende a innovazioni raffazzonate ma che consentissero di arrivare prima agli obiettivi.

Dall’altra la politica italiana ha continuato a sovvenzionare il settore in maniera improduttiva, per esempio tramite la cassa integrazione per mantenere i livelli occupazionali, e attraverso incentivi all’acquisto di auto nuove per tentare di sostenere le vendite. Del resto Stellantis ha in Italia una posizione talmente forte che i governi che si sono susseguiti non l’hanno potuta ignorare. In Italia poco più del 5 per cento del PIL dipende dal settore automobilistico, che dà lavoro a 1,2 milioni di persone considerando anche l’indotto: circa tre quarti delle imprese del settore hanno a che vedere con Stellantis, in maniera più o meno diretta e più o meno esclusiva. Da Stellantis dipende dunque la tenuta di una buona parte del sistema industriale italiano.

Una manifestazione a Torino per il rilancio di Mirafiori, il 12 aprile 2024 (Matteo Secci / LaPresse)

La crisi del gruppo è poi aggravata anche da una situazione di mercato complicata, che di fatto l’azienda subisce e che paga in modo più pesante rispetto alle sue concorrenti proprio a causa del suo immobilismo. Si è trovata cioè più sguarnita nell’affrontare i cambiamenti del settore: oltre alla già citata necessità di innovare i prodotti e i processi per sopravvivere e stare al passo con la concorrenza cinese e statunitense, c’è anche il cambiamento culturale della domanda, che in Europa sta portando a una riduzione strutturale delle vendite.

Le persone infatti comprano sempre meno auto e quando ne comprano una la tengono molti più anni rispetto al passato: nelle grandi città europee, dove si concentra una quota sempre più alta di popolazione, è sempre più difficile usare la macchina a causa dei pedaggi e dei divieti, mentre è incentivato l’uso del trasporto pubblico e di mezzi in sharing.

Per di più in Italia e in Europa la domanda di modelli elettrici è ancora bassa a causa di una certa diffidenza nei confronti dell’autonomia delle batterie e in generale di questa tecnologia. Finora Tavares aveva imputato la crisi dell’azienda perlopiù a questa tendenza e aveva chiesto più volte al governo di finanziare bonus e incentivi per sostenere la domanda. Ma sono misure che non hanno risolto i problemi strutturali dell’azienda: nei primi dieci mesi del 2024 le vendite di Stellantis sono calate del 7 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

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