Cosa c’è dietro tutti questi panettoni artigianali

Sono diventati uno status symbol sia per chi li compra sia per chi li produce, che spesso è qualcuno di diverso dal nome scritto sulla scatola

(Matteo de Mayda/The New York Times)
(Matteo de Mayda/The New York Times)

«Fare il panettone è una sfida personale: ho iniziato buttandone via un sacco, con sveglie presto e notti insonni. Per imparare a gestirlo ci ho messo 13 stagioni» racconta Giovanni Giberti, pasticcere e co-fondatore di Pavè, una pasticceria di Milano aperta nel 2012 nota per avere uno dei migliori panettoni della città. Farlo «è una cosa seria, bisogna seguirlo come fosse un figlio e non pensare ad altro», conferma Giovanni Ricciardella, chef 33enne del ristorante Cascina Vittoria di Rognano (Pavia), considerato tra i più bravi specialisti nel panettone della sua generazione.

Il panettone è un dolce complicato da preparare: richiede tre giorni di lavorazione, due impasti (che alcuni portano a tre), la capacità di gestire gli imprevisti del lievito madre (molto influenzato dalle circostanze esterne), tanto spazio e anche una certa forza fisica. Tutte cose che anziché scoraggiarne la produzione l’hanno incentivata, col risultato che la bravura di un pasticcere e di uno chef oggi passa spesso anche dalla sua capacità di fare un ottimo panettone.

Negli ultimi anni sono spuntate fiere, concorsi, classifiche, assaggi, in cui i pasticceri di tutta Italia si sono sfidati, facendosi pubblicità e promuovendo l’idea che il panettone sia un prodotto pregiato e desiderabile, trasformandolo perlomeno in certi contesti, quelli più benestanti e urbani, in un nuovo status symbol del Natale: «costa tantissimo ma nessuno vuol farsi mancare il panettone da 42 euro e comprare il Motta sembra una bestemmia», riassume Giberti.

– Leggi anche: È un gran momento per i panettoni

Fino a dieci o quindici anni fa il panettone era un dolce industriale consumato a livello nazionale e solo a Milano e dintorni lo si comprava nella pasticceria sotto casa, che lo preparava per tradizione. Le cose sono cambiate quando è diventato un dolce rinomato e nazionale. Anna Prandoni, direttrice di Linkiesta Gastronomika, spiega che «lo spartiacque» fu quando l’Accademia maestri pasticceri italiani uscì con una sorta di disciplinare con le regole per differenziarsi dall’industria, stabilendo che «i panettoni “veri” erano quelli fatti senza mono e digliceridi, cioè senza conservanti»: se la scadenza è di 40-50 giorni, significa che il panettone è senza conservanti.

È stato importante anche il lavoro di Alfonso Pepe e Sal De Riso, due pasticceri del Sud «che hanno trasformato il panettone: da dolce austero e milanese è diventato più morbido e godurioso», dice Daniele Miccione, giornalista della Gazzetta dello Sport che dal 2013 organizza un concorso sul miglior panettone artigianale d’Italia.

Il panettone della tradizione milanese, infatti, era basso e con poche uova mentre il panettone che piace oggi è alto, soffice, burroso, giallo per la quantità di uova e pieno di vaniglia; molte versioni non prevedono più uvetta e canditi ma farciture golose, ingredienti che valorizzano il territorio o che cambiano a ogni Natale per incuriosire i clienti. Secondo Prandoni ha aiutato anche Instagram «con tanti video dove addentando il panettone fuoriesce il cioccolato o il pistacchio: ha fatto la fine della pizza e così piace un po’ a tutti».

Ora non è inusuale che si compri il panettone industriale e meno caro per la colazione o il consumo quotidiano e che si apra quello di pasticceria al cenone e al pranzo di Natale. La grande richiesta ha spinto fornai, pizzaioli, gelatai, pasticceri e chef in tutta Italia a produrre il proprio panettone «con risultati non sempre brillanti e anche fatti con mix preparati prima», ricorda Miccione. Anche la grande distribuzione vende panettoni di alta qualità, per esempio il panettone di Elisenda, la pasticceria fresca di Esselunga, è fatto in collaborazione con il ristorante Da Vittorio, che ha tre stelle Michelin.

Una cosa da ricordare: nella definizione "panettone artigianale" la parola "artigianale" non indica una qualità del prodotto ma il tipo dell'azienda in cui è stato fatto e in particolare il numero di dipendenti e il suo essere a conduzione familiare. (Foto di Tania/Contrasto)

Una cosa da ricordare: nella definizione “panettone artigianale” la parola “artigianale” non indica una qualità del prodotto ma il tipo dell’azienda in cui è stato fatto e in particolare il numero di dipendenti e il suo essere a conduzione familiare. (Foto di Tania/Contrasto)

La moda del panettone è stata alimentata anche dagli chef famosi, quelli che vanno in tv come Carlo Cracco e Antonino Cannavacciuolo, che li servono al ristorante e li vendono in confezioni regalo. Per chi li compra è una garanzia e per gli chef è un modo per monetizzare sulle feste e avvicinare clienti che magari non potrebbero permettersi una cena da loro. Lo stesso motivo ha spinto molte aziende di moda e design a vendere un panettone realizzato in collaborazione con una pasticceria famosa: Moschino se li fa fare dalla pasticceria Martesana di Milano, Dolce&Gabbana dal siciliano Fiasconaro, Armani dal torinese Guido Gobino, Roberto Cavalli dalla pasticceria vicentina Olivieri 1882  e Fornasetti da Davide Longoni, il più noto panificatore a Milano.

Molti chef famosi esternalizzano la produzione dopo aver concordato una ricetta. Per esempio il famoso chef Gualtiero Marchesi se li è fatti fare per anni dal noto pasticcere Iginio Massari e dal 2014 dal pasticcere lucano Vincenzo Tiri; l’anno scorso Cracco raccontò di essersi appoggiato a Casa del Dolce Bertolini, un piccolo laboratorio di Cologna Veneta nato 40 anni fa come produttore di mandorlato. «Lavoriamo anche per altre realtà perché a volte non hanno i mezzi per far fronte alla produzione, non tanto per incapacità», spiegano i Bertolini, ricordando che «se ti fai fare i panettoni ci deve essere molta fiducia». Il fondatore Fausto si interessò ai panettoni, fece dei corsi e degli esperimenti e nel 2013 vinse il premio come miglior panettone classico al concorso Panettone Day. Da allora ne ha vinti altri tre e ha ampliato la produzione servendo non solo le due pasticcerie ma anche una rete di vendita nazionale e, più contenuta, internazionale.

Cracco non è l’unico ad affidarsi a terzi, anzi: «lo fanno tutti quelli con tanti numeri; in alcuni casi producono i panettoni che vendono nel negozio principale e si affidano ad altri per quelli in vendita sull’e-commerce e nelle succursali», spiega Prandoni. Alcuni laboratori hanno cercato di convertire macchinari e personale offrendo altri lievitati nel resto dell’anno – da qui i tanti bauletti e pancake – ma è una soluzione che funziona raramente; la maggior parte dei laboratori fa contratti stagionali e limita il lavoro alla stagione delle feste.

Non si affida invece ad altri Ricciardella: «i panettoni non si fanno se non ci sono io: ho dei ragazzi che mi aiutano ma poi sono io che impasto e tutti i panettoni sono chiusi uno a uno dalle mie mani», spiega. Anche per questo nella stagione delle feste ne produce circa 10mila, contro i 50-80 mila in media degli chef più famosi. Tra ottobre e dicembre si concentra il 70 per cento della sua produzione, che va avanti tutto l’anno, compresa l’estate (per quella del 2023 aveva proposto una variante con albicocche, ananas e limone della Costiera Amalfitana). Ricciardella racconta di aver avuto una passione per il lievito madre da quando era piccolo e aiutava la nonna a rinfrescare il lievito; il panettone cominciò a farlo dopo un corso con il «maestro Mauro Morandin che mi ha donato un pezzo del suo lievito con oltre 200 anni, che sono riuscito a rendere mio».

Chi fa i panettoni racconta spesso storie simili: c’è sempre un “maestro” che tramanda un insegnamento quasi segreto e che consegna un pezzo di lievito conservato da generazioni, e poi aneddoti di impasti buttati, ansie, esperimenti, errori dopo anni di esperienza, notti passate in laboratorio per seguire i ritmi della lievitazione.

Giberti spiega che «il problema non è tanto farne uno buono ma farne tanti tutti uguali, gestendo le variabili dovute al lievito madre». Serve anche molto spazio, e infatti da Pavè hanno aumentato la produzione grazie a un laboratorio separato: l’anno scorso sono arrivati a 8mila panettoni per le feste, ma quest’anno puntano a qualcosa in più.

In questo periodo fanno il panettone ogni giorno: tre infornate per un totale di 250 chili. «Iniziamo a cuocere quelli del giorno prima alle 5:30, verso le 7:30 c’è il secondo impasto di quelli impastati la sera prima, alle 7 c’è il primo impasto dei nuovi: la giornata inizia alle 5 del mattino e finisce alle 8 di sera. Ovviamente facciamo dei turni e le ragazze che lavorano con me hanno due giorni di riposo: il grosso cerco di sobbarcarmelo io». La produzione si regola sulle richieste e «il 15 dicembre devi decidere se fare l’ultima infornata: se ti fermi o se vai avanti sono mille chili di differenza, se sbagli e te ne avanzano molti è un problema» dice Giberti.

Da settembre a Pasqua Pavè assume del personale in più per coprire l’aumento di produzione, che non riguarda solo i panettoni. Producono panettoni anche per altri, circa un centinaio di pezzi in più tra botteghe, rivenditori e ristoranti, con cui si studia una ricetta che spesso è più estrosa di quella della pasticceria, che «ha clienti più tradizionalisti».

Pavè produce i panettoni tutto l’anno, anche se con ritmi più lenti, «perché pensiamo che sia il dolce di Milano, non il dolce del Natale, e che sia giusto che si trovi tutto l’anno come a Parigi trovi i macaron. Da noi c’è sempre la fetta da degustazione e il panettone da un chilo, anche perché tra i nostri clienti abbiamo dei turisti».

Sono turisti anche i primi ad aver comprato il nuovo panettone della gastronomia Yamamoto, un noto ristorante giapponese aperto a Milano nel 2017: «lo hanno assaggiato e gli è piaciuto», ha spiegato la fondatrice Aya Yamamoto. Propone un suo panettone dal 2020: «è un modo per dire che ci siamo integrati bene e ci piace stare a Milano. All’inizio ha venduto pochissimo, poi l’anno scorso siamo arrivati a 700 panettoni», anche grazie alla collaborazione con il fumettista Zerocalcare, che disegnò l’illustrazione per il furoshiki, il tessuto in cui era avvolto.

Yamamoto non prepara direttamente i panettoni ma se li fa fare: prima da Longoni e ora dal pizzaiolo Corrado Scaglione: «deve avere un impasto tradizionale con in più un elemento giapponese che non sia un cliché, come il tè verde, ma che faccia conoscere qualcosa di nuovo»; quest’anno per esempio ha arancio yuzu candito, con mandarini, limone candito e cioccolato bianco allo yuzu. «Abbiamo iniziato a parlarne a giugno e le prime prove le abbiamo fatte ad agosto», spiega Yamamoto. Si può anche assaggiare a fette nel ristorante come dolce e «molti clienti ci chiedevano se anche quest’anno lo avremmo fatto: mi fa piacere perché vuol dire che è diventato il panettone della loro tradizione familiare».