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  • Martedì 3 dicembre 2024

Ha senso coltivare il bambù in Italia?

Negli ultimi dieci anni sono state avviate delle piantagioni, ma finora i guadagni sono stati limitati e ci sono rischi di impatto ambientale

di Simone Fant

Piante di bambù
Piante di bambù a Bagnolo Mella, in provincia di Brescia (Simone Fant/il Post)
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«Lo chiamano il maiale verde perché di questa pianta non si butta via niente», dice Ida Nassa, imprenditrice agricola di Bagnolo Mella, piccolo paese in provincia di Brescia, parlando della versatilità del bambù, una pianta legnosa appartenente alla famiglia delle graminacee. Dal bambù infatti si possono ricavare germogli commestibili, canne da usare come materiale da costruzione, fibre per tessuti e stoviglie usa e getta. È una delle ragioni dell’aumento della sua coltivazione in Italia.

Un’altra riguarda l’anidride carbonica (CO2), il principale gas serra causa del cambiamento climatico: il bambù è spesso definito “green”, un’espressione colloquiale per intendere sostenibile dal punto di vista ambientale, perché assorbe e immagazzina quantità di CO2 più elevate di altri vegetali a parità di tempo e può essere utilizzato al posto di altri materiali la cui produzione causa emissioni di gas serra. In Italia però non è una pianta autoctona e per questo la sua diffusione potrebbe causare dei problemi legati alla biodiversità. Inoltre, a dieci anni dall’avviamento delle prime piantagioni, fare soldi col bambù si è dimostrato più complicato del previsto.

In Italia si iniziò a parlare di foreste di bambù a scopo ornamentale ed economico già dal 1917, ma tuttora la coltivazione di questa pianta è in una fase perlopiù sperimentale o a scala ridotta. Gran parte dei prodotti in bambù che si trovano in giro sono importati dall’Asia: i più grandi paesi esportatori sono la Cina e il Vietnam, secondo i più recenti dati della Banca Mondiale.

Il primo progetto di coltivazione su scala industriale risale solo al 2014. Nei dieci anni che sono passati da allora il Consorzio Bambù Italia ha piantato un po’ ovunque in Italia circa 2mila ettari di bambù Moso, un tipo di bambù adatto al clima europeo che viene definito “gigante”: in 7 anni una pianta può arrivare a 20 metri di altezza.

Nassa si era interessata al bambù durante una vacanza alle Maldive, osservando le costruzioni di hotel e ristoranti. Nel 2019, dopo un periodo economico difficile dovuto a colture poco produttive e costi di gestione crescenti, decise di diversificare le attività dell’azienda agricola di famiglia e per 150mila euro comprò da OnlyMoso, un vivaio di Faenza (Ravenna) che fa parte del Consorzio Bambù Italia, piante per cinque ettari di terreno.

Una donna tra piante di bambù

Ida Nassa e le sue piante di bambù (Simone Fant/il Post)

Dopo cinque anni di coltivazione Nassa non ha ricavato molto. «Nonostante tutte le costose operazioni di concimazione e manutenzione dei campi, le canne sono ancora troppo piccole per essere vendute e dei germogli non c’è traccia», spiega: «Mi avevano promesso che sarebbe stata una pianta facile da gestire».

Secondo il prospetto economico presentato dal consorzio, Nassa avrebbe dovuto guadagnare le prime decine di migliaia di euro già dal terzo anno. Ma le prospettive di mercato non sembrano poter ripagare l’investimento iniziale neanche nel prossimo futuro.

Al momento trovano un mercato, di nicchia, solo le canne utilizzate come tutori per sostenere la crescita di altre piante e i germogli alimentari, tipici della cucina orientale. Il problema principale è che le piantagioni non sono omogenee: ci sono bambuseti più maturi e altri che per diverse ragioni faticano a crescere. Questa incertezza impedisce al consorzio di stipulare contratti commerciali con le aziende potenzialmente interessate, che prevedono grosse penali se le forniture non vengono rispettate. «Non abbiamo ancora la capacità di produrre le grandi quantità richieste. Si tratta di un’attività imprenditoriale nuova che offre grandi prospettive nel lungo termine», dice Fabrizio Pecci, presidente del Consorzio Bambù Italia.

A sette chilometri da Bagnolo Mella, Ferruccio Zambelli possiede un ettaro e mezzo di bambù per il quale ha investito 20mila euro. Dice che le piccole piante “madre” acquistate sono morte più volte, il lavoro manuale da fare è molto e non è contento di come vanno gli affari. Un altro agricoltore dopo sette anni di coltivazione ha deciso di distruggere la sua piantagione perché i costi di raccolta dei germogli erano superiori ai ricavi della vendita. Lo ha definito un «cattivo investimento da dimenticare».

Se dalla vendita di canne e germogli si guadagna ancora poco o niente, i coltivatori associati al consorzio da qualche anno possono generare crediti di carbonio, dei certificati che attestano l’assorbimento e lo stoccaggio di una certa quantità di gas serra. I crediti di carbonio possono essere acquistati dalle aziende per rimediare in una certa misura al proprio contributo al cambiamento climatico, adempiendo così a un impegno della cosiddetta “responsabilità sociale d’impresa”, e poter comunicare ai propri clienti di avere interesse a farlo. Per creare i crediti di carbonio le tonnellate di CO2 rimosse dall’atmosfera devono essere stimate e certificate da un ente indipendente, che nel caso del bambù italiano è l’azienda Rina, che tra le altre cose si occupa di certificazioni nel settore della transizione energetica.

– Leggi anche: Ci riproviamo coi mercati di crediti di carbonio

In modo analogo agli alberi, le canne di bambù, una volta recise, rilasciano in atmosfera l’anidride carbonica assorbita durante la crescita solo se vengono bruciate. Se usate come materiale, ad esempio per arredare una casa, la CO2 rimane invece immagazzinata al loro interno per anni.

Ciascun credito di carbonio rappresenta una tonnellata di anidride carbonica assorbita, che viene calcolata in base alla superficie del bambuseto e alla sua maturità seguendo una prassi di riferimento nazionale, una norma UNI.

Negli ultimi anni a livello internazionale il mercato dei crediti di carbonio che coinvolge le aziende (solitamente viene indicato con l’espressione “mercato volontario”, per distinguerlo da quello che riguarda i paesi) è stato denunciato come ingannevole da una serie di indagini scientifiche e giornalistiche. Per questo in un anno il suo valore complessivo è diminuito del 61 per cento, da quasi 2 miliardi di dollari a 723 milioni. Tuttavia anche secondo i ricercatori e le organizzazioni ambientaliste che ne hanno segnalato i problemi, è un settore che potrebbe contribuire in modo significativo, per quanto limitato, alla mitigazione del cambiamento climatico.

In quattro anni Ida Nassa ha guadagnato dalla vendita di crediti di carbonio 7.500 euro: non le sono bastati neanche per coprire i costi di manutenzione. Secondo Pecci però la vendita dei crediti di carbonio è un buon sistema per sostenere economicamente gli agricoltori e consentire alle aziende di ridurre il loro impatto sul clima con progetti locali. Anche la società italiana Forever Bambù possiede 16 ettari di bambù dedicati alla vendita di crediti di carbonio: un’azienda produttrice di viti e bulloni ha acquistato una parte di questi crediti, che, sommati a quelli generati dalle sue foreste, le permetteranno di compensare oltre 4.000 tonnellate di CO2 ogni anno fino al 2043, secondo quanto dichiarato da Forever Bambù.

Un fossato divide una piantagione di bambù da una strada

Il confine della piantagione di bambù di Ida Nassa (Simone Fant/il Post)

Attualmente nel mercato dei crediti di carbonio volontario ciascuna azienda ha la libertà di adottare standard di rendicontazione e certificazione a proprio piacimento. Ma nei paesi dell’Unione Europea dovrebbe entrare presto in vigore un quadro di riferimento unico, dopo che il febbraio scorso il Parlamento e il Consiglio europeo hanno approvato il regolamento sulla rimozione permanente di anidride carbonica, che contiene una serie di criteri che vanno aldilà del mero assorbimento dall’aria.

Per essere certificate con le nuove regole, le pratiche di assorbimento di CO2 dovranno dimostrare di proteggere o ripristinare la biodiversità, cioè le forme di diversità biologica che rendono la vita in un ambiente naturale più resiliente. Per questo potrebbero esserci nuovi problemi con la coltivazione del bambù. In Italia le specie di bambù non sono solo alloctone, ma anche potenzialmente invasive. Le piante si propagano attraverso i rizomi, parti ingrossate e sotterranee del fusto, simili a bulbi, da cui si allungano le radici: è una modalità di crescita comune nelle piante erbacee che permette una rapida diffusione in orizzontale, con nuove piante vicine all’originale.

Secondo uno studio condotto da due ricercatori dell’Università della Tuscia e una ricercatrice del Centro euromediterraneo sui cambiamenti climatici (CMCC), il bambù «minaccia» la biodiversità vegetale autoctona perché propagandosi al di fuori delle coltivazioni potrebbe entrare in competizione con le piante locali per risorse vitali per la crescita come acqua, luce e nutrienti.

Tra gli impatti ambientali del bambù c’è anche il fatto che per favorire una crescita rapida è necessario un grande consumo di acqua e fertilizzanti. D’altra parte però i rizomi hanno la capacità di ridurre il rischio di frane superficiali e stabilizzare le sponde dei fiumi.

«Le preoccupazioni ecologiche legate all’introduzione di questa specie in un ambiente fragile come l’area mediterranea e le strategie europee sulla biodiversità suggeriscono che il bambù, nonostante un promettente tasso di assorbimento di CO2, non dovrebbe essere coltivato al di fuori della sua area di origine», si legge nella conclusione dello studio.

Pecci nega che il bambù abbia effetti negativi sulla biodiversità e sostiene che per limitarne l’invasività sia sufficiente tagliare le canne e distruggere i rizomi meccanicamente. Oppure scavare un fossato intorno al perimetro della piantagione con una profondità che va dai 70 ai 90 centimetri, per isolare i rizomi e impedirgli di espandersi.

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