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  • Martedì 3 dicembre 2024

Il centro per richiedenti asilo di Bari è pieno di problemi da un pezzo

«Se non stai morendo, non si prendono cura di te», dice un uomo del Burkina Faso che vive lì da un anno

Il centro accoglienza per migranti di Bari (Donato Fasano/Ansa)
Il centro accoglienza per migranti di Bari (Donato Fasano/Ansa)
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Il 4 novembre un uomo di 33 anni originario della Guinea, Bangaly Soumaoro, è morto all’ospedale San Paolo di Bari. Era arrivato dal centro di prima accoglienza (CPA, ex CARA) per richiedenti asilo di Bari, dove aveva vissuto per diversi mesi. Alcuni giorni prima di morire avrebbe detto agli amici di avere forti dolori allo stomaco: secondo loro, al CPA gli sarebbe stata somministrata inizialmente una tachipirina. Poi il dolore si era aggravato e Soumaoro era stato portato al San Paolo, dove è morto a causa di un’ulcera che non sarebbe stata trattata in modo adeguato, stando all’autopsia.

L’interno del CPA di Bari fotografato da una persona che ci vive (il Post)

In un primo momento si era detto che Soumaoro stava male perché aveva ingerito volontariamente delle pile. Nei giorni scorsi la procura di Bari ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo per la morte di Soumaoro. Gli indagati sono nove medici e infermieri dell’ospedale e del presidio medico del CPA.

Del CPA di Bari si è scritto molto sui giornali locali in queste settimane anche perché è lì che il 19 ottobre erano stati portati 12 richiedenti asilo dopo che il tribunale di Roma non aveva convalidato il loro trattenimento nei discussi centri per migranti in Albania.

Quello di Bari è uno dei nove centri di prima accoglienza in Italia, dove vengono trasferite le persone che intendono presentare domanda di asilo dopo essere state assistite e identificate negli hotspot. I migranti dovrebbero rimanere nei CPA finché la loro domanda di asilo non viene approvata o rigettata, e possono quindi essere spostati o nel sistema di seconda accoglienza (la cosiddetta rete SAI) oppure nei Centri per il rimpatrio (CPR). Le strutture sono però quasi sempre piene e ospitano molte più persone di quelle che dovrebbero. Inoltre, le persone tendono a fermarsi nei CPA per diversi mesi perché i tempi di attesa per sapere se la richiesta di asilo è stata accettata oppure no sono spesso più lunghi del previsto. E infine, nel caso di Bari, l’assistenza sanitaria è garantita solo per alcune ore della giornata.

La permanenza prolungata di tante persone in un centro per la prima accoglienza ha degli effetti negativi molto concreti: gli spazi sono ridotti e i servizi non sono concepiti per così tante persone, che di conseguenza si trovano a vivere in condizioni inadeguate. Sono problemi noti da tempo e che non riguardano solo il CPA di Bari, ma anche gli altri in Italia, come quello di Caltanissetta, in Sicilia, o di Sant’Anna Capo Rizzuto, in Calabria.

Ma la morte di Soumaoro, nel caso di Bari, è stata «la classica goccia di troppo che ha fatto traboccare il vaso», dice Gianni De Giglio dell’associazione Solidaria, che gestisce uno sportello di assistenza (Fuorimercato) per i richiedenti asilo.

Il CPA di Bari fu aperto nel 2008 all’interno del quartier generale del comando scuole dell’Aeronautica militare. Si trova in una zona periferica rispetto al centro città, che dista una decina di chilometri. Il centro ha una capienza ufficiale di 744 posti, ma ha ospitato in passato fino a 1.300 persone: al 26 novembre ce n’erano 869, di cui 50 donne e 17 minori, secondo numeri forniti dalla prefettura all’Osservatorio accoglienza detenzione migranti dell’università di Bari. Tutta l’area è circondata da un’alta recinzione in ferro e dal filo spinato, ed è controllata da telecamere. Dal momento che è una zona militare, le persone non sono libere di muoversi al suo interno: per entrare o uscire devono essere accompagnate al varco da una navetta attiva dalle 4:30 alle 21, e devono mostrare ogni volta una tessera identificativa.

Il centro di accoglienza è formato da una serie di moduli abitativi prefabbricati disposti ai lati di una grande area centrale. In mezzo ci sono una grossa tenda con la sala dove vengono distribuiti i pasti (e dove però ci sono pochissimi tavoli e sedie) e altri moduli per le attività amministrative e i servizi alla persona, che sono gestiti dalle società vincitrici degli appalti banditi dalla prefettura. I bandi, scritti sulla base dei requisiti indicati dal ministero dell’Interno, vengono assegnati secondo il criterio dell’“offerta economicamente più vantaggiosa”, quindi se li aggiudicano le aziende che dicono di poter offrire il servizio migliore al prezzo più basso. La prefettura fissa le richieste qualitative e il costo massimo giornaliero per ogni persona ospitata nel centro. Al CPA di Bari lavorano La Mano di Francesco onlus, responsabile dei servizi di assistenza alla persona, la società Ladisa, che si occupa dei pasti, e la Lucente per le pulizie.

I migranti del CPA di Bari protestano sotto alla sede della prefettura, 5 novembre 2024 (Donato Fasano/Ansa)

Da alcune settimane le persone migranti stanno denunciando le pessime condizioni di vita all’interno del centro di accoglienza, descrivendolo come sporco e con pochi servizi socio-sanitari. La sera del 4 novembre, il giorno in cui è morto Bangaly Soumaoro, alcuni di loro avevano iniziato una protesta, che la mattina successiva era sfociata in un corteo di oltre 11 chilometri fino alla sede della prefettura, in piazza Libertà. Dopo un presidio cui hanno partecipato circa 200 persone, una delegazione aveva incontrato il prefetto di Bari Francesco Russo per chiedere di risolvere una serie di problemi.

In particolare, oltre alla scarsa qualità del cibo, i migranti hanno parlato delle cattive condizioni igieniche del centro, dei lunghi tempi di attesa per ottenere i documenti e il “pocket money”, cioè una piccola somma di denaro (2,50 euro al giorno) che viene data a ogni ospite per le proprie spese quotidiane. Per quanto riguarda l’igiene, nei mesi scorsi era già stata denunciata la presenza di topi nei moduli abitativi, mentre in un video diffuso una decina di giorni fa da Solidaria si vedono bagni sporchi e allagati. Solidaria dice che la sporcizia è più che altro dovuta al numero troppo alto delle persone presenti, che infatti hanno dormito anche in otto in un modulo costruito per due o quattro persone.

Un bagno del CPA di Bari (il Post)

L’affollamento nel centro è dovuto essenzialmente ai tempi d’attesa dopo la domanda di protezione internazionale alla commissione territoriale, cioè l’organo che valuta le richieste d’asilo delle persone che presentano la domanda in Italia. «In teoria dovrebbe essere una procedura di pochi mesi, ma abbiamo parlato con persone che sono lì anche da oltre un anno, come Soumaoro», dice De Giglio. Questo problema era già stato denunciato in un rapporto curato da un laboratorio dell’università di Bari, uscito nel 2022.

T. è un ragazzo del Burkina Faso che chiede di restare anonimo e che vive nel CPA da un anno. Non è ancora riuscito a fare nemmeno il primo colloquio con la commissione territoriale per presentare la domanda d’asilo.

Giuseppe Campesi, docente a Scienze politiche all’università di Bari e coordinatore del team che ha lavorato al rapporto del 2022, fa notare che i servizi di assistenza sono stati ridotti dall’ultimo capitolato d’appalto, cioè il documento del ministero dell’Interno che contiene le informazioni tecniche e amministrative delle gare per le forniture di beni e servizi nei centri di accoglienza. Per esempio, si legge nel rapporto dell’università di Bari, la convenzione precedente prevedeva 204 ore di mediazione culturale alla settimana, mentre nell’ultimo capitolato sono previste dalle 104 alle 116 ore per i centri che ospitano dalle 751 alle 900 persone. O ancora, in passato erano garantite 168 ore settimanali dei medici, adesso le ore settimanali per un centro delle dimensioni di quello di Bari oscillano tra le 46 e le 50. La direttrice del centro Antonella Sabino ha detto a Repubblica che il centro non ha più un presidio medico garantito 24 ore su 24: i medici sono presenti per 8 ore al giorno e gli infermieri per 16 ore al giorno.

Per T. il problema però non sono tanto le ore di attività del presidio medico quanto la qualità del servizio garantito. «Se non stai morendo, non si prendono cura di te», dice.

C’è poi il tema del pocket money, che secondo quanto indicato dal ministero dell’Interno dovrebbe essere corrisposto con 2,50 euro al giorno a persona ma spesso viene erogato sotto forma di una ricarica telefonica dal valore di 5 euro ogni due giorni. Per avere contanti molti migranti rivendono le ricariche al ribasso a centri di telefonia che trovano in città.

– Leggi anche: Cosa c’è dentro al CPR di Palazzo San Gervasio

Un altro grosso problema è il lavoro. La segretaria provinciale della CGIL di Bari, Mariangela Monforte, spiega che sono molte le persone migranti che dormono al CPA ad avere un lavoro all’esterno. Molti lavorano nei campi con aziende agricole, altri invece nel turismo. Per nessuno gli orari di ingresso e uscita dal CPA sono adeguati: almeno fino a pochissimi giorni fa, la navetta partiva troppo tardi rispetto all’inizio del lavoro nei campi, che comincia all’alba, e si fermava troppo presto la sera per chi lavora nei bar o nei ristoranti. Di conseguenza, molte persone scavalcano la recinzione dell’area militare dalla parte, però, adiacente ai binari ferroviari: negli anni ci sono stati diversi incidenti e per questa ragione RFI, la società che gestisce la rete ferroviaria italiana, ha fatto partire dei lavori per alzare la recinzione del CPA su quel lato.

Monforte, che tra le altre cose è referente di uno sportello della CGIL aperto al CPA di Bari ogni martedì, dice che stanno cercando di contare le persone che lavorano per capire come migliorare il servizio navetta (che ora parte alle 4:30, mentre fino a pochi giorni fa alle 6:30). Secondo Monforte, molte persone migranti che hanno presentato la domanda d’asilo da più di 60 giorni lavorano in modo regolare, cioè hanno un contratto, come previsto per legge.

Il rischio di lavoro sommerso e sfruttamento comunque esiste. Gianni De Giglio di Solidaria spiega che alcune persone migranti finiscono a lavorare in nero nei campi della zona soprattutto perché non sanno come vanno le cose: «Informarli dei loro diritti sarebbe compito di chi gestisce i servizi di assistenza alle persone dentro al centro, ma molte persone ci hanno raccontato che non viene fatto». A T., per esempio, non è stato detto nulla eppure da mesi lavora in un campo dove si raccolgono le olive. Dice che gli è stato fatto un contratto e viene pagato in contanti ogni settimana. Fino a pochi giorni fa scavalcava come gli altri la recinzione per riuscire a prendere un treno alle 5 del mattino.