La parola dell’anno dell’Oxford Dictionary, che sono due
"Brain rot" descrive gli effetti negativi di internet, e ha vinto contro "dynamic pricing" e "demure"
Da vent’anni Oxford University Press, la casa editrice del noto vocabolario di lingua inglese Oxford English Dictionary, sceglie una parola che riassume più di tutte le altre l’anno in corso «o almeno una parte di esso». Non è l’unica istituzione a farlo – scelgono per esempio una parola dell’anno anche i dizionari Merriam-Webster e, già dagli anni Settanta, l’Associazione per la lingua tedesca in Germania – ma è quella che attira solitamente più attenzione. Non è sempre un neologismo: può essere anche un termine o un concetto che ha assunto un significato nuovo o più profondo a causa di specifici eventi storici, come è successo con vax, abbreviazione di vaccine (vaccino) nel 2021.
Capita spesso però che la parola dell’anno provenga in un modo o nell’altro dal linguaggio utilizzato sui social network, e che sia quindi nota e usata anche in Italia. Quest’anno, per esempio, tra le parole candidate c’erano “dynamic pricing”, il discusso sistema di vendita online di biglietti per concerti ed eventi che adatta automaticamente il prezzo in base alla richiesta, e demure, parola desueta diventata virale lo scorso agosto. Alla fine, però, è stata scelta brain rot, un termine poco noto in Italia, che vuol dire letteralmente “putrefazione del cervello”.
Nella definizione data dai linguisti di Oxford brain rot è «il presunto deterioramento dello stato mentale o intellettuale di una persona, specificatamente come risultato di un consumo eccessivo di materiale (in particolare contenuti online) considerato superficiale o poco stimolante».
Nel proprio annuncio, la casa editrice ha scritto che nel 2024 «brain rot ha acquisito nuova importanza come termine utilizzato per esprimere le preoccupazioni sull’impatto del consumo di quantità eccessive di contenuti online di bassa qualità». Intervistato dalla BBC News sul tema, il professore di psicologia Andrew Przybylski ha comunque sottolineato che non c’è nessuna prova del fatto che la putrefazione cerebrale sia effettivamente un disturbo e che bisogna interpretarla piuttosto come un termine che «descrive la nostra insoddisfazione e le nostre ansie nei confronti del mondo digitale».
È una parola che si usa molto per descrivere il modo in cui le generazioni più giovani interiorizzano linguaggi provenienti da internet – e in particolare da video di TikTok e serie su YouTube come Skibidi Toilet – e li riutilizza nelle interazioni quotidiane. Ma si può applicare facilmente anche ai consumi mediatici degli utenti di tutte le età: come ha scritto sul New Yorker il giornalista Kyle Chayka, una persona che soffre di putrefazione cerebrale «è completamente avvelenata da internet», «parla soprattutto attraverso il gergo dei social media e riferimenti ai meme» e «vede il mondo come materiale buono per farci video per TikTok».
All’inizio dell’anno su TikTok molti utenti avevano cominciato a usare la parola brain rot per condividere i momenti in cui si erano accorti che il loro cervello era stato condizionato dal fatto di trascorrere una quantità di tempo eccessiva su internet: per esempio c’era chi diceva di aver provato a scorrere con il dito lungo la pagina di un libro dimenticandosi che non era uno smartphone.
Secondo l’analisi di Oxford University Press, il termine brain rot si trova per la prima volta in Walden, celebre libro del 1854 in cui il filosofo statunitense Henry David Thoreau parla della propria connessione con il mondo naturale. Tra le altre cose, Thoreau nel libro critica la tendenza a preferire le spiegazioni semplici dei fenomeni rispetto a quelle complesse, il che secondo lui indica un generale declino nello sforzo mentale e intellettuale della collettività: nel farlo, scrisse che «l’Inghilterra si sforza per curare la putrefazione della patate, ma nessuno si sforza di curare la putrefazione dei cervelli (brain rot, appunto, ndr), che prevale in modo più vasto e fatale».
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