Il Museo Lombroso vuole spiegare quanto Lombroso avesse torto

Nonostante le periodiche proteste, l'esposizione è pensata per contestualizzare le sue confutate teorie sull'aspetto fisico dei criminali

Teschi e maschere di cera al Museo di Antropologia Criminale "Cesare Lombroso" di Torino, fotografate nel 2013 (REUTERS/ Stefano Rellandini)
Teschi e maschere di cera al Museo di Antropologia Criminale "Cesare Lombroso" di Torino, fotografate nel 2013 (REUTERS/ Stefano Rellandini)
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Una persona che ha visitato il Museo di Antropologia Criminale “Cesare Lombroso” di Torino ha scritto sul libro dei commenti: «Non fatelo chiudere! Troppo interessante», evidenziando la parola “troppo” con un rettangolo. In realtà non c’è alcun piano per chiudere il museo ma da quando è stato inaugurato, quindici anni fa, c’è puntualmente chi lo mette in discussione. La ragione è che documenta una parte di storia della scienza superata da tempo e con implicazioni vissute con dolore ancora oggi, ma che a detta di vari esperti va comunque tutelata e divulgata con le giuste accortezze, nonostante l’innegabile problematicità.

Marco Ezechia Lombroso, noto come Cesare, è infatti conosciuto soprattutto per aver sostenuto che certi tratti somatici o anomalie fisiche dimostrassero la predisposizione di certe persone a comportamenti criminali. Lavorò in pieno positivismo, una corrente filosofica di metà Ottocento che cercava di spiegare e risolvere i problemi della società attraverso la scienza, contesto in cui le sue idee apparivano perfettamente sensate. Oggi però sappiamo che aveva platealmente torto, e che le sue teorie non sono assolutamente scientifiche: anche se è stato dimostrato che i geni e l’ambiente in cui cresce una persona influiscono sul suo comportamento, non lo condizionano in maniera irrimediabile.

Quello su Lombroso è un museo storico-scientifico gestito dall’Università di Torino che è stato inaugurato il 27 novembre del 2009, cent’anni dopo la sua morte. Per la curatrice Cristina Cilli «tocca temi ancora molto attuali», tra cui le differenze di genere, la malattia psichica, la vita in carcere e ciò che di fatto ancora oggi comporta l’esclusione delle persone dalla società. Cilli dice che il museo stesso è attento a denunciare gli errori scientifici di Lombroso, punta a spiegare come la scienza abbia totalmente rifiutato le sue teorie ed è inoltre impegnato in progetti che coinvolgono sia persone con patologie psichiatriche che detenute. Ciononostante, spiega, «è stato preso di mira» soprattutto da persone che «hanno strumentalizzato la sua figura».

Esposti ordinatamente dentro a mobili protetti da vetrine ci si trovano tra le altre cose 684 crani, 183 encefali umani e 27 resti di scheletri, oltre a più di mille fotografie e circa 500 tra coltelli, pugnali e oggetti vari. Ci sono poi decine di maschere mortuarie in cera e gesso, accompagnate da targhe che indicano ciascuna delle persone in questione come «stupratore», «uxoricida», «falsario». Sulle pareti della sala principale sono appesi vari ritratti di persone identificate come «brigante italiana» oppure «maschio pederasta tedesco»; in una più piccola ci sono invece manufatti di persone detenute assieme agli orci da cui bevevano, con incisi disegni, pezzi delle loro storie, rivendicazioni di innocenza.

Lombroso fece ricerca alla clinica di psichiatria e di antropologia di Pavia, fu direttore del manicomio di Pesaro e ordinario di medicina legale nel carcere di Torino, tutte esperienze che lo portarono a cercare di dare una spiegazione scientifica alla malattia psichiatrica, così come alla delinquenza. Cominciò a raccogliere resti umani nel 1859, come ufficiale medico dell’esercito, e nel 1876 pubblicò lo studio che gli diede notorietà in ambito accademico, L’uomo delinquente.

Analizzando le caratteristiche del cranio di decine di briganti uccisi nel Sud Italia arrivò alla conclusione, oggi ovviamente confutata, che avessero tratti in comune con l’uomo primitivo (atavismo). In poche parole, secondo le sue teorie, i criminali mostravano tratti di tipo anti-sociale fin dalla nascita, e visto che questi tratti erano legati alle loro peculiarità fisiche, queste persone non si potevano riabilitare: andavano quindi separate dalla società. È anche per questo che secondo i critici il museo perpetuerebbe stereotipi razzisti.

Alcuni visitatori al museo Lombroso

(REUTERS/ Stefano Rellandini)

La vicenda più significativa a questo proposito è stata la richiesta di restituzione del cranio di Giuseppe Villella, il brigante calabrese su cui Lombroso basò la sua teoria dell’atavismo, che si trasformò in una più ampia discussione sulla legittimità del museo stesso. Nel 2012 il museo fu accusato di detenere in maniera illegale il cranio di Villella dal Comune di Motta Santa Lucia, il paese in provincia di Catanzaro da cui proveniva, e dal Comitato No Lombroso: un’organizzazione che definisce il museo «osceno, inumano, razzista» nonché «un crimine contro il Sud» perché, a suo dire, «i resti di valorosi soldati meridionali, tacciati di brigantaggio, sono ancora oggi esposti come trofei».

In primo grado il tribunale di Lamezia Terme aveva dato ragione all’accusa, stabilendo che il cranio dovesse essere riportato in Calabria, ma cinque anni dopo il giudizio fu ribaltato in appello. La vicenda processuale si concluse nel 2019, quando la Corte di Cassazione negò la restituzione dei resti ritenendo che prevalesse la loro natura di beni culturali, come stabilito dalla Corte d’appello di Catanzaro. Sul caso si era espresso anche il comitato etico dell’International Council of Museums (ICOM), la principale organizzazione internazionale non governativa che tutela i musei e i professionisti museali, sottolineando l’importanza della sua esposizione «per la storia della ricerca scientifica».

Alberto Garlandini, presidente della ICOM Foundation, la fondazione che sostiene le attività dell’organizzazione, ricorda che l’esposizione di resti umani è un tema molto complesso sia dal punto di vista culturale che etico, perché si tratta al tempo stesso di reperti scientifici e di quelle che una volta erano persone. In base al codice etico dell’ICOM sono «materiali culturalmente ‘sensibili’, che vanno trattati con la massima attenzione, cura e rispetto», e devono essere mostrati in pubblico «solo se c’è una valida motivazione».

In questo caso secondo l’ICOM il cranio di Villella non era esposto al museo semplicemente per impressionare il pubblico o per fare apologia dell’atavismo, spiega, bensì per testimoniare le attività di ricerca di Lombroso, «mettendo in evidenza le parti della sua ricerca scientifica che si sono dimostrate erronee».

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Lo stesso Lombroso si era reso conto di aver compiuto gravi errori nell’impostazione dei suoi studi, e prima che le sue teorie fossero ritenute definitivamente prive di fondamento scientifico ebbe comunque il merito di stimolare altri ricercatori a occuparsi dello studio della criminologia in ottica moderna, tanto da essere considerato il fondatore dell’antropologia criminale. Sia la sua figura che la funzione del museo sono state oggetto di riflessioni e discussioni anche nella comunità scientifica, che concorda ampiamente sul loro contributo allo studio della scienza.

Dopo la sentenza della Corte di Cassazione del 2019 le proteste contro il museo si sono attenuate, spiega Cilli, e di fatto anche il Comitato No Lombroso, che non ha risposto alla richiesta di commento da parte del Post, è molto poco attivo. Il suo scopo sarebbe quello di far rimuovere le teorie di Lombroso dai libri di testo e di far togliere il suo nome da musei e strade. Sia sul sito che sulla sua pagina Facebook i contenuti condivisi oggi sono molto pochi; la sua petizione avviata nel maggio del 2010 per invitare le persone a «dissociarsi da questo crimine razzista» ha raccolto da allora oltre 10mila firme.

Sul museo c’erano già state polemiche nel 2011, in occasione dei 150 anni dall’Unità d’Italia, con le rivendicazioni del movimento neoborbonico, nostalgico del Regno delle Due Sicilie. Nel suo libro del 2021 Tu non sai quanto è ingiusto questo paese, il giornalista Pino Aprile ha scritto che, «per la ‘scienza infelice’ di Cesare Lombroso, i terroni sono delinquenti per difetto genetico». In realtà Lombroso non era razzista specificamente nei confronti delle persone del Sud, fa notare Cilli, ma di chiunque avesse tratti ritenuti non conformi.

Qualche anno fa il senatore materano Saverio De Bonis chiese quali iniziative intendesse intraprendere il ministero della Cultura per smentire le teorie «insensate e balorde» raccontate nel museo di Torino. L’allora ministro Dario Franceschini rispose che l’esposizione serviva per «spiegare al pubblico una parte controversa del pensiero scientifico» e preservarne la memoria «in modo critico»: è una posizione condivisa anche da Garlandini, secondo cui «i musei esistono perché la memoria della storia e del passato non vengano dimenticate, anche se questo tocca la sensibilità di qualche persona». «La storia non va cancellata», dice, «ma conosciuta e studiata per poi trarne le dovute conseguenze».

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