Come si finanziano i partiti

E com'è che destra e sinistra si sono messe d'accordo per proporre una riforma del “2xmille” che poi il presidente della Repubblica ha bloccato

L'aula della Camera dei deputati (Mauro Scrobogna/LaPresse)
L'aula della Camera dei deputati (Mauro Scrobogna/LaPresse)
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Martedì sera i collaboratori di Sergio Mattarella hanno dissuaso il governo dal fare approvare una norma che modificava la legge sul finanziamento ai partiti. Era una proposta del ministero dell’Economia e della presidenza del Consiglio elaborata a partire da due emendamenti presentati da partiti di opposizione, Partito Democratico e Alleanza Verdi e Sinistra, inserita in un emendamento al decreto-legge sul fisco in discussione al Senato.

La versione iniziale proposta da PD e AVS prevedeva di innalzare il tetto dei fondi pubblici a cui i partiti possono attingere ogni anno con il cosiddetto “2xmille”, la quota dell’imposta sui redditi delle persone fisiche (IRPEF) che dal 2014 i cittadini possono destinare ai partiti: si sarebbe alzata da 25,1 a 28 milioni di euro. La riscrittura del governo aveva un po’ stravolto questa proposta e prevedeva – secondo una stima un po’ complessa – di portare la somma da redistribuire tra i vari partiti a oltre 40 milioni di euro all’anno. Alla fine, dopo l’intervento dei collaboratori di Mattarella, il Senato ha approvato una misura che aumenta la dotazione del fondo da 25,1 a 29,7 milioni, modificando il funzionamento della norma sul 2xmille.

Per capire come e perché si sia arrivati a questo punto, con un accordo trasversale tra il governo di destra e le opposizioni di sinistra e centrosinistra, bisogna ripartire dalla riforma promossa nel dicembre del 2013 dal governo di Enrico Letta, che introdusse come strumento per finanziare l’attività dei movimenti politici proprio il 2xmille.

Enrico Letta, presidente del Consiglio nel febbraio 2014, a Palazzo Chigi (Roberto Monaldo/LaPresse)

Quella riforma fu ritenuta un tentativo da parte dei partiti tradizionali di arginare la tumultuosa crescita dei consensi del Movimento 5 Stelle e di certe richieste della cosiddetta “antipolitica”. In questo senso, si confermò una tendenza tipica della politica italiana su questo argomento: quella di legiferare sul finanziamento ai partiti sempre in concomitanza con grandi scandali di corruzione politica, per far fronte al malcontento popolare, agendo in fretta. Questo ha spesso fatto sì che le norme fossero poco organiche ed esaustive.

Il finanziamento pubblico ai partiti fu introdotto nel 1974 con la “legge Piccoli”, dal nome del deputato democristiano che la propose, Flaminio Piccoli. La legge fu promossa come risposta al cosiddetto “scandalo dei petroli”, un caso giudiziario che fece emergere come i partiti di governo di allora beneficiassero di finanziamenti erogati da varie società elettriche e petrolifere per indirizzare la politica energetica della maggioranza. Il finanziamento pubblico venne così visto come uno strumento per evitare questi pesanti condizionamenti della politica da parte delle grandi aziende.

La legge Piccoli di fatto introduceva un doppio canale di finanziamento per i partiti: da un lato c’erano trasferimenti diretti dal bilancio dello Stato per le attività ordinarie, dall’altro una sorta di rimborso in occasione delle principali elezioni (politiche, europee e regionali).

Quasi vent’anni più tardi, però, le inchieste sulla corruzione politica di “Tangentopoli” resero evidente che il finanziamento pubblico non era servito granché a evitare pratiche illecite nel rapporto tra i partiti e le grandi imprese. E così nel 1993 con un referendum gli italiani abolirono con larga maggioranza la norma sui trasferimenti diretti ai partiti. Rimase in vigore solo la parte relativa ai rimborsi elettorali. Fino al 2012 quello rimase lo strumento con cui i partiti, spesso anche attraverso interpretazioni un po’ fantasiose della norma, si garantirono un accesso ai finanziamenti pubblici, con un fondo a cui attingere che negli anni crebbe fino a un massimo di 182 milioni di euro, nel 2012 appunto.

Si arrivò così, nel 2013, alla decisione di Enrico Letta che, da presidente del Consiglio, promosse l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Era un po’ un modo per dimostrare che in un periodo di ristrettezze economiche anche la classe politica condivideva i sacrifici che chiedeva alle persone, sempre più disilluse rispetto alla politica: quella norma è tuttora in vigore.

La legge stabilisce che l’entrata principale per i partiti sia quella del 2xmille: ogni contribuente decide se dare ai partiti una minima parte delle tasse che deve comunque versare allo Stato (il 2 per mille, appunto, ovvero lo 0,2 per cento), e decide anche a quale partito. Si discusse molto già nel 2013, durante la definizione di quella norma, se introdurre anche per il 2xmille lo stesso meccanismo del cosiddetto “inoptato” che vale per l’8xmille, cioè la quota che si può decidere di destinare a una confessione religiosa specifica o allo Stato.

È un dettaglio importante perché spiega in parte la polemica di questi giorni. In sostanza l’8xmille funziona così: chi non esprime alcuna preferenza sul proprio 8xmille contribuisce comunque a finanziare i possibili beneficiari di quel fondo. Le varie quote di 8xmille per cui non è stata indicato il destinatario, dette appunto quote di “inoptato” (cioè “non scelto”), vengono ripartite in proporzione a quelle che sono state le opzioni indicate. Ciò fa sì che chi ottiene maggiori preferenze dirette per l’8xmille (come la Chiesa cattolica) benefici poi in maniera indiretta anche della ripartizione dell’“inoptato”. Questa ipotesi, a lungo valutata dai consiglieri di Letta anche per i partiti, alla fine fu accantonata.

Oltre al 2xmille la legge del 2013 introdusse poi delle agevolazioni particolarmente significative per i privati che decidono di fare delle donazioni ai partiti. Per tutte le “erogazioni liberali” tra i 30 e i 30mila euro, le chiama così la norma, viene infatti riconosciuta una detrazione del 26 per cento, cioè in sostanza uno sconto di cui si può godere quando si pagano le tasse pari a poco più di un quarto dell’importo donato ai partiti.

Con questo sistema si è arrivati fino a oggi. Nel corso degli anni però è emerso in modo sempre più evidente che i soldi a disposizione erano meno, e questo ha messo in grave difficoltà finanziaria un po’ tutte le forze politiche, costrette a ridurre il personale, a chiudere strutture e a limitare le proprie iniziative territoriali, proprio in una fase in cui ci si lamenta spesso della distanza dei partiti dalla vita delle persone. Si è provato allora a fare affidamento su un’altra fonte di introiti, che passa per il parlamento.

Sia la Camera sia il Senato infatti destinano risorse consistenti per i gruppi parlamentari. Questi ricevono un contributo da parte del bilancio delle due camere per ciascun eletto: circa 90mila euro al Senato e circa 77mila euro all’anno alla Camera. Inoltre il bilancio del Senato (non quello della Camera) mette a disposizione dei gruppi il cosiddetto “fondone”: un fondo da 2 milioni di euro per ciascuna legislatura, ripartito tra i vari gruppi in proporzione alla loro consistenza numerica.

I regolamenti delle due camere sono piuttosto rigorosi: con questi fondi i gruppi devono finanziare esclusivamente le attività parlamentari e quelle istituzionali dei gruppi stessi. Non possono quindi trasferirli, sia pure surrettiziamente, ai partiti. Infatti per circa l’80 per cento questi fondi servono a pagare il personale: funzionari, esperti giuridici, ricercatori, consulenti per la comunicazione e portavoce. Tra questi dipendenti vengono talvolta inclusi anche funzionari di partito, che dunque vengono stipendiati dal gruppo (e non sempre è facilissimo distinguere tra una mansione per il gruppo parlamentare e una mansione per il partito).

Resta poi una quota marginale con cui i gruppi organizzano convegni e iniziative: almeno per quella parte, sia pur indirettamente, i partiti spesso ne beneficiano. A volte, per esempio, un dibattito a cui prende parte il segretario di un partito viene organizzato dal “gruppo dei senatori” di quel partito, anche se poi il ruolo dei senatori è limitato: in quel modo l’allestimento dell’evento ricade nel bilancio del gruppo e non del partito. Nel complesso comunque sono cifre piuttosto esigue.

Un altro fondamentale introito per i partiti lo garantiscono i parlamentari (e, in misura minore, gli europarlamentari e i consiglieri regionali). Un po’ tutti i partiti chiedono infatti ai propri eletti una quota mensile, che questi decurtano dal proprio stipendio versandola al partito sotto forma di erogazione liberale: ognuno ha le sue norme interne, ma si va dai mille a i tremila euro al mese a seconda dei partiti. Inoltre, è prassi che chi intende candidarsi alle elezioni (sia politiche sia europee) versi una cifra considerevole al partito, formalmente per contribuire alla campagna elettorale. Anche qui le somme variano sia a seconda dei partiti sia a seconda del tipo di candidatura (una candidatura in un seggio ritenuto sicuro, con grandi garanzie di essere eletti, costa di più): si va più o meno dai 20 ai 50mila euro. Fratelli d’Italia e il PD al momento sono i partiti che richiedono di più ai propri candidati.

– Leggi anche: Quanto costa candidarsi alle elezioni

Tutte queste sono forme alternative di finanziamento, visto che quella principale prevista dalla legge è sempre meno adatta a soddisfare le esigenze finanziarie dei partiti. Ormai a donare soldi ai partiti sono appunto quasi solo i parlamentari, come dimostrano per esempio i bilanci di Fratelli d’Italia: e questo un po’ perché i privati, gli imprenditori e le aziende hanno sempre più timore di finire coinvolti in inchieste o comunque di essere considerati troppo esposti sul fronte politico, e un po’ perché le agevolazioni fiscali riconosciute a chi fa questo tipo di donazione sono diventate negli anni sempre meno convenienti.

Dal 2025, poi, di fatto verranno azzerate le agevolazioni per molti potenziali contribuenti. Per esigenze di bilancio, infatti, il governo ha previsto un tetto ai bonus fiscali di cui si può godere: per i redditi sopra i 75mila euro si potrà detrarre fino a un massimo di 14mila euro; sopra i 100mila euro, fino a un massimo di 8mila. Ciò significa che i contribuenti più facoltosi, che sono quelli che verosimilmente donano cifre consistenti ai partiti, saranno disincentivati a fare ancora erogazioni per i movimenti politici.

Un altro problema riguarda il limite di 25 milioni di euro fissato nella legge del governo di Letta, che si sta rivelando troppo basso in rapporto alle somme effettivamente donate ai partiti dai contribuenti tramite il 2xmille. I dati del ministero dell’Economia certificano questa tendenza: nel 2021 gli italiani indirizzarono ai partiti complessivamente 18 milioni di euro; nel 2022, 20 milioni; nel 2023, 24 milioni. Quest’anno, stando a dati informalmente diffusi dallo stesso ministero, si arriverà a circa 30 milioni. Se la legge non venisse cambiata, di fatto lo Stato dovrebbe trattenere nelle proprie casse circa 5 milioni destinati in realtà ai partiti.

È così che si è arrivati al dibattito di queste settimane. Vari partiti, e su tutti il PD, nei mesi scorsi avevano segnalato al governo di avere problemi finanziari. Giorgia Meloni, che è sempre stata piuttosto attenta alle questioni che riguardano la salute dei partiti, ha accolto queste osservazioni e ha chiesto ai suoi collaboratori e ai funzionari del ministero dell’Economia di trovare una soluzione che fosse condivisa da tutti. Sono state studiate diverse opzioni. Una, che era la più ovvia, era passare dal 2xmille al 3 o al 4xmille: ma è stata scartata per timori che venisse percepita troppo esplicitamente come una misura fatta dai partiti in favore di sé stessi.

Si è dunque trovato un altro modo, quello per cui il governo ha riformulato in maniera estensiva una proposta fatte dalle opposizioni. In questo modo, dunque, tutti sarebbero stati coinvolti e nessuno avrebbe potuto protestare più di tanto (gli unici a farlo, ma piuttosto flebilmente, sono infatti stati i parlamentari del Movimento 5 Stelle: ma anche la loro polemica, misurata, era stata di fatto concordata con le altre forze di maggioranza e di opposizione).

La riformulazione del governo, cioè la vera riforma su cui c’era stato accordo, era un po’ contorta. In sostanza, anziché basarsi ancora sul 2xmille così com’è oggi, si sarebbe passati a un altro fondo: cioè si sarebbe destinato ai partiti lo 0,2 per mille dell’Irpef versata dai contribuenti. Ogni diecimila euro di tasse incassate lo Stato avrebbe versato ai partiti 2 euro. Come per l’8xmille, si sarebbe introdotta la formula dell’“inoptato”, redistribuendo cioè la quota senza alcuna indicazione ai vari partiti in proporzione alle preferenze ricevute nelle altre dichiarazioni dei redditi.

Nel complesso, allo Stato questo sarebbe costato poco più di 42 milioni di euro all’anno: apparentemente una “spesa” di 17 milioni di euro all’anno in più rispetto al tetto di 25 milioni di euro previsto dalla legge del 2013. Però non era proprio così. Perché la proposta di riforma fatta dal governo prevedeva anche l’eliminazione delle detrazioni fiscali per le erogazioni liberali ai partiti: niente più bonus, insomma. Così lo Stato risparmierebbe circa 12 milioni di euro all’anno. La riforma in discussione causerebbe quindi maggiori uscite per il bilancio dello Stato di 5 milioni di euro all’anno: una cifra molto modesta.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella con il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, il 28 novembre 2024 (Paolo Giandotti/LaPresse)

L’accordo era dunque stato trovato, prima che i consiglieri giuridici del Quirinale imponessero di eliminare la riformulazione sul finanziamento ai partiti. Le ragioni erano due: innanzitutto era sembrato poco opportuno introdurre in un decreto già molto composito e da approvare in maniera urgente una norma che aveva poco a che fare con la natura stessa del decreto, in un modo che avrebbe dato l’impressione di non voler dare alle persone la possibilità di capire davvero di cosa si trattasse. Inoltre il decreto fiscale per sua definizione può utilizzare solo risorse già stanziate, cioè in sostanza può avere ricadute solo sul bilancio dello Stato dell’anno in corso, cioè del 2024: questa norma invece sarebbe intervenuta sulla finanza pubblica del 2025.

Alla fine si è tornati alla versione iniziale dell’emendamento proposto dal PD, ma alzando la somma massima: tenendo conto dei dati in possesso del ministero dell’Economia sull’anno in corso, sarà di 29,7 milioni di euro. L’aumento sarà quindi di 4,6 milioni: più o meno lo stesso impatto finanziario che avrebbe avuto la riforma pensata dal governo.

Non è detto comunque che la riforma venga del tutto archiviata. Sia tra i ministeri sia tra i gruppi parlamentari c’è consenso sull’idea di ripresentare la stessa norma come emendamento alla legge di bilancio in discussione alla Camera.