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  • Domenica 1 dicembre 2024

Assad ha scoperto di essere più debole di quanto pensasse

Senza l'aiuto di Hezbollah e Iran, e con la Russia disinteressata, l'esercito del presidente siriano è stato sbaragliato dai gruppi islamisti di Idlib

Un manifesto di Bashar al Assad strappato da un miliziano ad Aleppo. (EPA/Mohammed Al-Rifai)
Un manifesto di Bashar al Assad strappato da un miliziano ad Aleppo. (EPA/Mohammed Al-Rifai)
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Mercoledì sera i gruppi armati della regione di Idlib, nel nord della Siria, hanno avviato un’offensiva per costringere i soldati del regime del presidente Bashar al Assad ad arretrare in direzione di Aleppo. L’operazione ha superato ogni loro aspettativa. Nelle prime ventiquattr’ore gli assadisti hanno opposto resistenza, ma poi hanno abbandonato in massa le loro posizioni e sono scappati verso sud. E con loro anche le piccole squadre di militari russi e iraniani che sono in Siria per aiutare Assad.

I gruppi di Idlib guidati dalla milizia islamista Hayat Tahrir al Sham, “l’organizzazione per la liberazione del Levante”, hanno approfittato della situazione. Hanno preso in poche ore il controllo di Aleppo, la seconda città del paese, che avevano perduto nel 2016 dopo una battaglia urbana che era durata quattro anni. Hanno oltrepassato Aleppo e hanno occupato le basi militari e le piccole città tutto intorno, come la zona industriale di Sheik Najjar e la grande centrale termoelettrica a nord, Safira e Khanaser a sudest.

Si tratta di luoghi che qualche anno fa passavano di mano ogni pochi mesi, dalle milizie all’esercito di Assad e viceversa, e soltanto dopo battaglie furiose. Questa volta sono stati lasciati nel giro di poche ore e senza sparare un colpo. Dentro le postazioni abbandonate i gruppi armati hanno trovato tonnellate di armi, incluso un sistema missilistico terra-aria russo Pantsir in grado di abbattere aerei. Il bottino alimenterà una nuova fase della guerra.

Combattenti nemici di Assad alla cittadella di Aleppo. (Anas Alkharboutli/dpa)

Con la conquista di questi luoghi i gruppi di Idlib hanno creato una linea difensiva esterna e hanno messo in sicurezza la loro avanzata dentro Aleppo. Se le forze assadiste volessero entrare di nuovo in città sarebbero prima costrette a prendere queste postazioni chiave. È come se qualcuno avesse riportato la guerra civile nel nord della Siria indietro ai primi due anni, quando il regime di Assad era in grande difficoltà mentre affrontava la rivolta armata da solo.

Mentre alcune colonne di miliziani occupavano Aleppo, altre hanno puntato in direzione sud e sono arrivate poco a nord di Hama, un’altra grande città della Siria. In quella zona la loro avanzata si è fermata, perché l’esercito siriano si è riorganizzato e ha cominciato a opporre resistenza.

– Leggi anche: In Siria i gruppi nemici di Assad consolidano le proprie conquiste

Per la classe dirigente del regime di Assad riuscire a resistere a queste offensive è una questione di sopravvivenza, perché in questi anni ha represso le rivolte con azioni così brutali da trasformare la guerra in un duello esistenziale, senza possibilità di negoziare una soluzione di compromesso. Il regime ha compiuto attacchi con armi chimiche contro i civili (il più conosciuto, nell’agosto del 2013 alla periferia di Damasco, uccise più di mille persone), ha arrestato, torturato e ucciso decine di migliaia di siriani, ha assediato piccoli centri abitati fino alla morte per fame degli abitanti, e ha bombardato in modo indiscriminato le regioni che aveva perduto. Se gli assadisti perdono il controllo della Siria si espongono al desiderio di vendetta delle milizie e di molti siriani. Il motto della controrivoluzione è: “Assad o bruciamo il paese”.

Un combattente dei gruppi che si oppongono ad Assad passa davanti alla statua equestre del fratello del presidente, Basil, morto nel 1994. La statua è stata poi abbattuta. (EPA/Mohammed Al-Rifai)

La debolezza del regime
Il regime è debole perché, quando la guerra civile ha rallentato, invece di riorganizzarsi ha continuato per anni a fare affidamento sui suoi alleati: la Russia, l’Iran e Hezbollah. Oggi però gli alleati hanno altro a cui pensare.

A partire dal 2012 e poi sempre di più negli anni successivi, e sempre più pubblicamente, il gruppo libanese Hezbollah ha combattuto in Siria per salvare Assad. Ha partecipato e a volte è stato il responsabile principale di atrocità commesse in nome del regime, in luoghi come al Qusayr, Madaya e Zabadani. Quando un combattente di Hezbollah moriva il gruppo pubblicava un manifesto mortuario nel quale usava questa formula fissa: “martire sulla strada per Gerusalemme”, perché la guerra contro Israele e per liberare Gerusalemme è uno dei pilastri ideologici dei miliziani. I siriani rispondevano sempre con commenti sarcastici: guardate che Gerusalemme non è qui, dicevano, è dall’altra parte.

Quando la sera del 27 settembre è cominciata a circolare la voce che il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, era stato ucciso da un bombardamento israeliano a Beirut, i siriani della regione di Idlib sono scesi in strada a festeggiare. Hanno distribuito dolcetti ai passanti, hanno fatto caroselli con le macchine e hanno pubblicato video di minacce contro Assad.

I siriani di Idlib non festeggiavano il raid aereo israeliano, anzi: quella regione è dominata da gruppi armati islamisti e molta gente è ostile a Israele. Celebravano invece la disfatta di Hezbollah in Libano, che nelle settimane successive è diventata ancora più grave.

Combattenti tolgono manifesti di Assad ad Aleppo. (EPA/KARAM AL-MASRI)

Avevano due buoni motivi. Il primo era l’odio accumulato durante i primi anni della guerra civile. Il secondo è che sapevano che Hezbollah, alle prese con la guerra in Libano, non avrebbe più avuto le forze per combattere anche in Siria. In questi giorni durante l’offensiva verso Aleppo il gruppo libanese non ha pubblicato nessun annuncio di morte, perché non sta aiutando gli assadisti.

Con il suo intervento militare in Siria nel settembre 2015, la Russia salvò Assad. Non inviò truppe per combattere a terra, quello era un incarico delegato a Hezbollah, ma mandò una sessantina tra elicotteri e bombardieri e si occupò dei raid aerei. Le cronache dell’epoca raccontano che il presidente russo Vladimir Putin fosse affascinato dall’intervento e ogni giorno partecipasse alle decisioni militari più di quanto fosse necessario. La campagna di bombardamenti dei piloti russi fu devastante, cambiò il corso della guerra e permise agli assadisti di prendere il pieno controllo di Aleppo. Oggi però Putin è assorbito dall’invasione in Ucraina, cominciata ormai più di mille giorni fa, e non ha risorse da gettare in altre guerre. È persino costretto a impiegare truppe nordcoreane per cacciare i soldati ucraini che da agosto sono in territorio russo. Aleppo non è più una sua priorità e oggi i velivoli russi in Siria sono un decimo rispetto ai primi anni.

I danni di un bombardamento degli aerei russi o dell’esercito di Assad su Idlib, domenica primo dicembre. (BILAL AL HAMMOUD)

L’Iran nel 2013 decise di aiutare Assad mandando il generale Qassem Suleimani, comandante dell’unità al Quds, che è la branca dei Guardiani della rivoluzione che si occupa delle operazioni clandestine all’estero. Suleimani aveva uno status leggendario in Medio Oriente perché aveva causato infiniti problemi ai soldati americani che avevano invaso l’Iraq nel 2003, e aveva creato un sistema di milizie  armate di volontari stranieri, finanziate dall’Iran, che poteva muovere a suo piacimento. Fece così anche in Siria, dove portò a combattere migliaia di iracheni, afghani e pakistani. Di questo sistema delle milizie facevano parte anche i libanesi di Hezbollah.

Anche l’Iran è assorbito da altre preoccupazioni. Non ha smesso di aiutare Assad, e un generale iraniano dei Guardiani della rivoluzione, Kioumars Pourhashemi, è stato ucciso ad Aleppo il primo giorno di combattimenti. Ma i militari iraniani in teoria vanno in Siria per minacciare Israele da vicino, e non per farsi uccidere a sorpresa dai gruppi armati siriani.

Tra i bombardieri russi, le decisioni prese sul campo da Suleimani e le milizie arrivate da fuori, il presidente siriano Bashar al Assad, che aveva temuto di essere ucciso come Gheddafi in Libia nel 2011, si era convinto di essere fuori pericolo. Adesso deve riconsiderare la situazione.