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  • Sabato 30 novembre 2024

Gli sfollati israeliani non si fidano a tornare nel nord del paese

Sono scettici sulla tenuta del cessate il fuoco con Hezbollah e, a differenza di quelli libanesi, hanno un'alternativa

Kibbutz Manara, nel nord di Israele, il 28 novembre
La stanza di una casa distrutta da un razzo di Hezbollah, nel kibbutz Manara, nel nord di Israele, il 28 novembre (AP Photo/Leo Correa)
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Nella zona settentrionale di Israele poche persone sono tornate nelle loro case dopo il cessate il fuoco con Hezbollah. È il contrario di quello che sta avvenendo nel sud del Libano, dove migliaia di sfollati si sono subito diretti nelle città da cui erano dovuti fuggire, per gli ordini di evacuazione dell’esercito israeliano, i bombardamenti e la successiva invasione via terra.

Gli abitanti dei piccoli centri israeliani vicino al confine, infatti, sono scettici sulla possibilità che possa durare il fragile cessate il fuoco che è entrato in vigore mercoledì. Dall’ottobre dell’anno scorso, circa 45mila israeliani hanno lasciato il nord del paese dopo l’intensificarsi degli attacchi di Hezbollah, in sostegno ai suoi alleati di Hamas.

A differenza del Libano – dove fin dall’inizio non ci sono state strutture né servizi adatti ad accogliere i circa 1,2 milioni di sfollati – in Israele il governo ha pagato stanze d’albergo per le persone evacuate e gestito il trasferimento in nuove scuole dei loro figli.

In Libano gli sfollati sono stati molti di più: per molti di loro tornare a casa, anche se danneggiata o distrutta, è comunque un’alternativa preferibile a restare nei rifugi sovraffollati e con scarso accesso ai servizi sanitari.

Un reportage di Associated Press dai kibbutz di Malkiya e Manara, vicino al confine col Libano, ha raccontato la riluttanza dei residenti a tornare. In larga parte, oggi, questi kibbutz sono abbandonati e i danni causati dai razzi di Hezbollah non sono stati ancora riparati. Gli abitanti intervistati non si fidano del cessate il fuoco e, in generale, del proprio governo e della missione UNIFIL delle Nazioni Unite.

Per il primo ministro Benjamin Netanyahu uno degli obiettivi dell’accordo (oltreché far riposare i soldati, impegnati anche nell’invasione della Striscia di Gaza) era proprio poter rivendicare di aver messo in sicurezza il nord di Israele, e consentire quindi il ritorno degli sfollati.

Molti dei residenti, però, non pensano che Hezbollah sia stato «neutralizzato», come sostiene Netanyahu, nonostante l’impegno a spostare i suoi miliziani a nord del fiume Litani (o Leonte) e la creazione di una zona cuscinetto da parte dell’esercito regolare libanese (che non è Hezbollah).

Chi viveva nei kibbutz sul confine li ritiene tuttora poco sicuri rispetto alle altre zone del paese, e soprattutto più esposti a nuovi attacchi di Hezbollah qualora una delle parti violasse le regole del cessate il fuoco, e riprendessero quindi le ostilità.

Sabato l’esercito israeliano ha vietato agli abitanti di tornare in circa 62 centri libanesi sul confine, con un messaggio in lingua araba del portavoce Avichay Adraee. In base all’accordo, l’esercito israeliano ha 60 giorni per ritirarsi dai villaggi occupati: i militari hanno detto che, prima di permettere il ritorno della popolazione, vogliono attendere l’arrivo dei soldati libanesi.

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