In Israele Haaretz racconta un’altra storia
Lo storico giornale della sinistra israeliana è l'unico a parlare degli abusi dell'esercito e della situazione dei civili di Gaza, e questo gli sta creando molti problemi
Negli ultimi 14 mesi d’invasione israeliana della Striscia di Gaza, mentre tutto il mondo vedeva sui giornali e alla tv le immagini di devastazioni e sofferenze, gli israeliani hanno vissuto quasi in un mondo a parte. I media locali hanno parlato costantemente della guerra, ma ne hanno mostrato soltanto gli aspetti militari e le operazioni dell’esercito, presentandole come azioni contro i «terroristi». Delle conseguenze sulla popolazione civile, delle devastazioni e dei massacri, non hanno praticamente parlato.
C’è una sola eccezione rilevante: Haaretz, lo storico giornale della sinistra israeliana che è anche il più antico quotidiano del paese. Haaretz è stato l’unico importante giornale israeliano a raccontare gli effetti della guerra, le sofferenze dei civili e i crimini dell’esercito israeliano. Per questo da mesi è l’oggetto di una campagna di denigrazione e di attacchi da parte del governo del primo ministro Benjamin Netanyahu, di estrema destra, che negli scorsi giorni si è concretizzata in sanzioni dirette.
Il 24 novembre il governo israeliano ha annunciato che eliminerà completamente tutta la pubblicità pubblica dal giornale e che cancellerà gli abbonamenti a Haaretz forniti ai dipendenti pubblici. La ragione, secondo il governo, sarebbe una dichiarazione dell’editore di Haaretz, Amos Schocken, che durante un evento a Londra aveva parlato dei palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana in Cisgiordania come di «combattenti per la libertà». Le parole di Schocken sono poi state distorte, e nel dibattito pubblico israeliano si è cominciato a dire che l’editore di Haaretz aveva definito «combattenti per la libertà» i miliziani di Hamas.
Schocken ha poi chiarito la sua posizione, ma il governo israeliano, che da tempo tentava di attaccare il quotidiano, ha approfittato dell’occasione.
Per Haaretz la perdita della pubblicità pubblica non è un grave danno economico, ma potrebbe «creare un effetto domino: delegittimando il giornale si crea una tendenza, e anche le aziende private potrebbero decidere che non conviene loro comprare pubblicità su Haaretz», dice Anat Saragusti, storica giornalista israeliana (fu la prima israeliana a intervistare Yasser Arafat nel 1982) e oggi responsabile della libertà di stampa all’interno dell’Unione dei giornalisti israeliani, il principale sindacato di giornalisti del paese. «Questo, alla lunga, potrebbe mettere in pericolo la sostenibilità economica del giornale».
Haaretz, che in ebraico significa il paese, fu fondato nel 1918, 30 anni prima della fondazione dello stesso stato di Israele. È un giornale dichiaratamente progressista, che ha sempre avuto posizioni molto combattive nei confronti delle politiche dello stato israeliano e contrarie all’occupazione dei territori palestinesi. Con l’ascesa al potere del primo ministro Netanyahu, che ha governato Israele per buona parte degli ultimi 15 anni, è diventato il quotidiano di riferimento dell’opposizione progressista.
Haaretz non è un quotidiano ad ampia diffusione: il panorama dei quotidiani israeliano è dominato da due grandi tabloid – Yedioth Ahronoth e Israel Hayom, il primo centrista e il secondo populista di destra, molto vicino a Netanyahu, e distribuito gratuitamente come free press – che hanno ciascuno più del 25 per cento delle quote di mercato. Haaretz è il terzo quotidiano più letto, ma molto distaccato: ha poco più del 5 per cento del mercato (le vendite sono nell’ordine di qualche decina di migliaia di copie).
«Per quanto mantenga la sua autorevolezza anche presso la classe dirigente, per lo meno fino all’inizio della guerra, in Israele ormai la circolazione di Haaretz è molto marginale e per certi versi è quasi più importante il ruolo dell’edizione in inglese», dice Davide Lerner, ricercatore al Reuters Institute di Oxford, uno dei principali centri di ricerca internazionali sul giornalismo, ed ex giornalista di Haaretz. Il giornale ha una versione in inglese che viene pubblicata negli Stati Uniti, oltre che un sito in inglese seguito in tutto il mondo, gestito da una redazione apposita di giornalisti bilingue che in parte creano contenuti originali e in parte traducono quelli dall’ebraico.
Le lotte con il governo israeliano risalgono a ben prima dell’arrivo di Netanyahu al governo, e hanno spesso fatto di Haaretz un’eccezione nel panorama mediatico israeliano, che pur essendo tendenzialmente libero ha caratteristiche molto diverse da quello occidentale.
In Israele, che si ritiene uno stato in guerra, è attiva per esempio la censura militare, che ha la facoltà legale di impedire la pubblicazione di notizie che potrebbero danneggiare la sicurezza nazionale. I giornali sono tenuti a sottoporre alla censura prima della pubblicazione gli articoli che riguardano l’esercito, per esempio, e sono obbligati a rispettare eventuali divieti di pubblicazione (che riguardano però solo la sicurezza: la censura militare non vieta articoli che parlano male dei soldati).
Questo crea situazioni paradossali, in cui molto spesso quando si parla di manovre militari o di guerra i giornali israeliani sono costretti ad aspettare che le notizie siano pubblicate dai giornali internazionali, e poi a riprenderle da loro.
Lo stato israeliano, poi, fa un ampio uso di ordinanze restrittive (“gag order”, in inglese) emesse dalla magistratura per impedire la pubblicazione di notizie che potrebbero mettere in difficoltà o in imbarazzo le forze di sicurezza e le forze armate.
Un esempio molto celebre che mostra il funzionamento di queste ordinanze è il cosiddetto caso Kamm-Blau: nel 2008 una giovane recluta militare, Anat Kamm, consegnò segretamente al giornalista di Haaretz Uri Blau documenti che mostravano che in Cisgiordania l’esercito aveva approvato senza valide ragioni l’assassinio di alcune persone palestinesi. Dopo la pubblicazione dell’articolo, nel dicembre del 2009 Anat Kamm fu individuata dalle forze di sicurezza e messa agli arresti domiciliari. La magistratura emise un ordine restrittivo attorno all’arresto di Kamm, e i giornali israeliani non poterono raccontare quello che stava succedendo.
Kamm rimase per mesi agli arresti domiciliari in una situazione paradossale: tutti nel mondo del giornalismo israeliano sapevano che la fonte di un importante articolo di Haaretz era stata arrestata, ma nessuno poteva scriverlo, e il pubblico non aveva idea di quello che stava succedendo. Soltanto mesi dopo, nell’aprile del 2010, l’ordinanza sul caso fu annullata, e solo perché se ne occupò un giornale statunitense, il Daily Beast. Kamm in seguito denunciò Haaretz sostenendo che non avesse fatto abbastanza per proteggere la sua identità.
L’inizio della guerra a Gaza ha polarizzato questo contesto mediatico già molto complicato.
L’attacco del 7 ottobre 2023 è stato un trauma per tutta la società israeliana, che si è sentita nel suo complesso minacciata. I media, così come buona parte degli israeliani, hanno risposto con una reazione che in gergo inglese viene definita “rally around the flag”, cioè “stringersi attorno alla bandiera”: quando una nazione è minacciata, cerca di rafforzarsi e di unirsi internamente. Fin dai primi giorni di guerra i media israeliani hanno adottato toni militaristi, nazionalisti e in alcuni casi vendicativi, un po’ come avvenne negli Stati Uniti dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001.
La maggior parte dei media ha cominciato a pubblicare contenuti che sollevassero il morale del pubblico e poi, quando è cominciata l’invasione della Striscia di Gaza, anche delle truppe, con contenuti retorici e militaristi. Il canale televisivo privato Channel 12, uno dei più visti in Israele, ha cominciato a trasmettere sempre in sovrimpressione il messaggio «Uniti vinceremo»; Channel 13 invece «Insieme siamo più forti».
Questa retorica si è anche trasformata in discorsi di odio o di vendetta nei confronti di Hamas o anche della popolazione palestinese. Secondo uno studio dei ricercatori Roy Katz della Reichman University e Yuval Benziman dell’Università Ebraica di Gerusalemme, nelle prime tre settimane di guerra i media israeliani hanno paragonato decine di volte Hamas alla Germania nazista. Ci sono stati anche 31 casi di appelli diretti alla vendetta. Questo non era successo nelle guerre precedenti, come quella del 2006 in Libano o la guerra a Gaza del 2014, in cui i nemici non erano mai stati paragonati a nazisti.
Un caso particolare è quello di Channel 14, un canale tv privato di estrema destra vicinissimo al governo Netanyahu.
Channel 14 viene spesso paragonato alla rete americana Fox News, ma la sua retorica è ancora più estrema. Nei giorni successivi al 7 ottobre i suoi presentatori e ospiti fecero dichiarazioni molto violente, dicendo per esempio che tra i palestinesi «non ci sono innocenti» e che Gaza «dovrebbe essere totalmente distrutta, non deve rimanere nessun essere umano». Fino a poco tempo fa sul sito internet di Channel 14 il conteggio di tutte le persone uccise a Gaza veniva presentato come il conteggio dei «terroristi uccisi», anche se la stragrande maggioranza dei morti sono civili.
La distorsione maggiore è che i media, oltre a esaltare il lavoro dell’esercito, non parlano di quello che sta succedendo alla popolazione civile della Striscia di Gaza.
Questo è abbastanza difficile da comprendere per chi vive in paesi come l’Italia, dove negli ultimi 14 mesi la sofferenza dei civili palestinesi, i bombardamenti sulle scuole e sugli ospedali, le evacuazioni forzate di milioni di persone sono stati molto visibili. Ma i media israeliani sono riusciti a presentare la guerra a Gaza come una successione di operazioni militari israeliane contro miliziani e terroristi di Hamas. I servizi dei telegiornali e dei programmi televisivi mostrano le operazioni in cui i soldati entrano nei tunnel di Hamas, in cui distruggono gli edifici nelle mani dei terroristi e sgomberano le strade dalle macerie per far passare i mezzi militari. Ma non si vedono mai i civili.
La ricercatrice israeliana Ayala Panievsky ha fatto uno studio non ancora pubblicato ma i cui risultati preliminari sono stati condivisi con Haaretz. Lo studio ha preso in considerazione 700 servizi di telegiornale trasmessi nei primi sei mesi di guerra su Channel 12, il principale canale televisivo israeliano: di tutti questi servizi soltanto quattro citavano i civili uccisi a Gaza, e soltanto due ne mostravano delle immagini. Panievsky sostiene che la situazione sia simile ancora oggi.
«Parlare di civili uccisi dalle operazioni israeliane è considerato una forma di tradimento, e dunque rimane un non detto», dice Davide Lerner.
Secondo Anat Saragusti, «la maggioranza dei media israeliani continua a raccontare la storia del 7 ottobre, ancora e ancora. Sono rimasti bloccati al racconto delle atrocità del 7 ottobre». L’atteggiamento nazionalista dei media non dipende tanto da imposizioni del governo, quanto dalla volontà della maggioranza del pubblico israeliano, che subisce ancora il trauma dell’attacco di Hamas. Saragusti parla di «autocensura» da parte dei media, che «hanno paura della reazione del pubblico se mostreranno cosa sta succedendo a Gaza».
In questo contesto, Haaretz è un’eccezione. Non è l’unica: altri media come il giornale online +972, gestito da una redazione di giornalisti in parte israeliani e in parte palestinesi, parlano apertamente della condizione dei palestinesi. Ma Haaretz è certamente la realtà più grande, la più nota e quella che ha più mezzi.
In questi mesi di guerra Haaretz ha pubblicato quotidianamente articoli sulle condizioni umanitarie della popolazione di Gaza, e numerosi reportage sui crimini di guerra e i crimini contro l’umanità dell’esercito israeliano. Ha raccontato come l’esercito utilizzi i palestinesi come «scudi umani», ha raccontato dell’aumento degli abusi sui palestinesi in Cisgiordania e ha descritto il modo indiscriminato in cui Israele ha condotto la guerra, soltanto per fare alcuni esempi.
I suoi giornalisti, inoltre, sono stati tra i primi a criticare l’atteggiamento nazionalista degli altri media. Gideon Levy, uno dei più famosi opinionisti di Haaretz, ha scritto nel suo ultimo libro che l’omissione della sofferenza del popolo palestinese è cominciata molto prima della guerra:
«Senza l’occultamento sistematico, durato per decenni, e la deumanizzazione [dei palestinesi, ndr], forse l’opinione pubblica israeliana si sarebbe opposta più decisamente a quello che sta succedendo. Ma se non dici niente, se non mostri niente, se non sai niente e non hai nessun desiderio di sapere, se i palestinesi non sono davvero umani – non come noi, gli israeliani – allora il crimine commesso contro di loro è più sopportabile, può essere tollerato.
Il 7 ottobre ha portato tutto questo a nuove vette. I media israeliani non hanno mostrato quasi niente di quello che stava avvenendo a Gaza, e gli israeliani hanno visto soltanto la propria sofferenza, ancora e ancora, come se fosse l’unica sofferenza esistente. Quando a Gaza ci sono state più di 25 mila persone uccise in meno di quattro mesi, in maggioranza civili innocenti, in Israele non c’è stato nessuno shock».
La posizione di Haaretz rimane tuttavia minoritaria, e poco popolare. «Se volessero, gli israeliani potrebbero guardare la CNN, i media stranieri, potrebbero leggere Haaretz e gli altri media che mostrano cosa sta succedendo a Gaza: è tutto accessibile. Ma non vogliono farlo», dice Saragusti. «A volte non riescono a comprendere l’altra parte perché pensano che l’altra parte sia il nemico».
A ottobre Ilana Dayan, una delle più note giornaliste d’inchiesta israeliane, che lavora per Channel 12 e ha posizioni progressiste, partecipando a una trasmissione tv statunitense ha cercato di spiegare l’atteggiamento dei media israeliani: ha sostenuto che non soltanto per il pubblico, ma anche per molti giornalisti il trauma del 7 ottobre è stato così grande che è difficile mantenere «il distacco che bisognerebbe avere come reporter».
Dayan ha raccontato che ogni volta che parla della Striscia di Gaza «porto con me il 7 ottobre. Porto con me tutto quello che ho visto: i corpi che ho visto, le atrocità che ho visto, le persone che conoscevo, il mio cugino di secondo grado che è stato rapito, la famiglia del nostro corrispondente politico, due genitori e due bambini, uccisi a freddo. (…) È qualcosa di cui tutti abbiamo una fortissima esperienza personale».
Nel corso della stessa conversazione, Dayan ha però riconosciuto che i media israeliani dovrebbero occuparsi di più della popolazione civile di Gaza. Per quella singola frase è stata attaccata in maniera brutale sui social media da account israeliani, con decine di persone che l’hanno perseguitata anche al suo numero di telefono personale.