E se Crista fosse stata una donna?
«Il Dio dei Vangeli avrebbe potuto non incarnarsi in un maschio? La questione è trascurata nella tradizione scritturale e patristica ma fu ampiamente dibattuta dal XII secolo alla metà del XIII, quando scomparve dall’orizzonte filosofico. Il maschile ha sempre avuto un’evidente preponderanza, nel testo come nell’iconografia. Il termine “Padre” si dovrebbe utilizzare in chiave puramente metaforica, ma ogni rappresentazione di Dio dal tardo Rinascimento lo mostra come un uomo anziano dalla barba fluente; e così è rimasto nell’immaginario popolare. Quanto a Gesù, non ci sono dubbi sul suo genere nei Vangeli. Il carico simbolico della domanda iniziale, però, resta intatto: cosa sarebbe accaduto con una Figlia di Dio?»
È nota l’attenzione dedicata da Cristo alle donne, piuttosto scandalosa per la cultura dell’epoca (e non solo): con loro discuteva trattandole alla pari degli uomini, benché certo i suoi discepoli più stretti fossero tutti maschi. Inoltre nei Vangeli la risurrezione viene annunciata dall’angelo a due figure femminili, ed è Maria Maddalena la prima a vedere Cristo dopo la morte: per un lettore non specialista ma piuttosto eccezionale — Nick Cave — il passaggio più bello della Bibbia è proprio Matteo 27, 61: «Erano lì, davanti al sepolcro, Maria di Màgdala e l’altra Maria». Rispondendo sul suo sito alla lettera di un fan italiano, Cave spiega come in questo semplice versetto si evidenzi la superiorità morale delle due donne davanti ai dodici, che nel frattempo erano scappati; e più nel dettaglio, come Maddalena rappresenti «il nucleo sovversivo attorno cui ruota la storia dei Vangeli».
I cristiani più illuminati non faticheranno a riconoscere queste tracce nel Nuovo Testamento, sebbene il patriarcato domini ancora ampiamente la loro religione non meno di altre — o della società civile, se è per questo. Dopotutto il cristianesimo trovò un’eccellente alleanza teorica nella “filosofia matricida” di stampo platonico, per dirla con Adriana Cavarero: una volta negata la priorità dell’elemento genetico — il fatto che noi esseri umani siamo innanzitutto generati come corpi e introdotti al mondo in un ambiente di cura — il pensiero resta per lo più un affare tra uomini. E così la religione.
Ma il Dio dei Vangeli avrebbe potuto incarnarsi in una donna?
La questione è trascurata nella tradizione scritturale e patristica ma fu ampiamente dibattuta durante il XII-XIII secolo, per lo più nella forma che Pier Lombardo indicò nelle Sentenze. Diversi commenti a questo libro riprendono il tema, pur con qualche imbarazzo, e cercano di offrire una risposta.
San Bonaventura, per esempio, elabora alcuni argomenti a favore dell’incarnazione femminile: dato che «la nostra rovina accadde per causa di una donna», ha senso che una donna le ponga fine; inoltre una natura più fragile avrebbe consentito alla gloria divina di splendere maggiormente, e del resto lo spirito è indifferente al sesso; infine, essendo nato da una vergine Cristo avrebbe dovuto trarre carne dalla sua unica genitrice.
Quanto alle ragioni contrarie, Bonaventura cita Aristotele e san Paolo per affermare la superiorità dell’uomo, così come il fatto che il principio generativo sta nel sesso maschile; inoltre, a rigor di logica, avrebbe dovuto essere chiamato Dea fin dall’inizio e non Dio. Alla fine del passo Bonaventura critica ulteriormente gli argomenti a favore e conclude che il maschio è senza dubbio più degno e autorevole, avendo priorità nell’agire e nel presiedere; dunque l’incarnazione in Gesù appare adeguata.
A un orecchio moderno queste ultime tesi sembrano fragilissime, ma non dovremmo giudicare la cultura dell’epoca usando il nostro metro. Inoltre è interessante che anche allora non si cancelli la possibilità di un Cristo donna ma se ne evidenzi, seppur con forza, la minore congruità. Su questa scia si muove anche san Tommaso d’Aquino. Dio doveva incarnarsi in una forma sessuata perché ciò corrisponde alla perfezione umana: l’ermafroditismo viene considerato una mostruosità. Ciò detto, anche per l’aquinate la priorità dell’elemento maschile è assodata.
Dalla metà del XIII secolo cambiano gli interessi dottrinali e il tema scompare dall’orizzonte filosofico: se ne trovano appena alcune tracce nei mistici a seguire. Giuliana di Norwich, per esempio, scrive nelle Rivelazioni che Dio è sia padre che madre e non esita ad attribuire a Cristo virtù femminili; ma è per lo più un’eccezione. Da allora non se ne parlerà più.
D’accordo, sono stato un po’ pedante: ma era necessario per inquadrare il problema e mostrare come abbia tenuto occupate, per quanto tangenzialmente, le menti di un periodo chiave della cristianità.
Al di là di questo, però, anche da un punto di vista del tutto laico (come il mio) è inevitabile riconoscere l’influenza del lessico teologico nel linguaggio moderno. Benché secolarizzato ed elusivo, esso permane: in Nessuna passione spenta George Steiner afferma che «i nostri tentativi di passare dalla lettera allo spirito, sono gli eredi diretti della teologia giudeo-cristiana occidentale e dell’esegesi biblica e patristica. […] Abbiamo preso a prestito, commerciato, ridotto a spiccioli i fondi dell’autorità trascendente». Tuttavia pochissimi di noi, prosegue, hanno versato qualcosa in cambio. Vorrei dunque offrire la mia monetina per risarcire tale furto concettuale.
Secondo il Catechismo della Chiesa cattolica Dio è asessuato e la sua essenza supera tali distinzioni; già nell’Antico Testamento, del resto, il plurale Elohim si riferisce a entrambi i generi (benché YHWH sia maschile): inoltre Dio ha creato entrambi gli esseri umani, maschio e femmina, a sua immagine. Tuttavia il maschile ha sempre avuto un’evidente preponderanza, nel testo come nell’iconografia. Si dovrebbe utilizzare il termine “Padre” in chiave puramente metaforica, ma ogni rappresentazione di Dio, almeno dal XII secolo e in particolare dal tardo Rinascimento, lo mostra come un uomo anziano dalla barba fluente; e così è rimasto nell’immaginario popolare.
Quanto a Gesù, non ci sono dubbi sul suo genere nei Vangeli: ma come abbiamo visto scorrendo rapidamente il dibattito medievale sul tema, avrebbe potuto senza contraddizione essere una donna. La storia non si fa con i condizionali, men che meno la presunta storia della salvezza universale; ed è facile obiettare che nel contesto del I secolo solo un uomo avrebbe potuto diventare un leader religioso. Il carico simbolico della domanda resta intatto: cosa sarebbe accaduto con una Figlia di Dio?
Il problema, come al solito, è che anche questo discorso è da sempre monopolio degli uomini. In un articolo di Donne Chiesa Mondo, la biblista Marinella Perroni obiettò che
«se uno percorre in su e in giù la storia della teologia, in fondo, da Tertulliano a Wojtyła, passando per Agostino, Tommaso o von Balthasar, tutti i teologi hanno sempre parlato della donna. In modi e con toni diversi, certo, ma sempre esprimendo la necessità e, forse, anche la pretesa di avere comunque qualcosa da dire sulla donna, di sanzionarla come janua diaboli (porta del diavolo) o di esaltarla per il suo “genio femminile”».
Perroni osserva come l’esodo delle donne dalle chiese sia anche dovuto a una mancanza di ascolto reale, a causa della perenne differenza di ruolo e autorità. Chiude allora con un invito: «Non parlate delle donne e, tanto meno, della donna continuando, di fatto, a parlare di voi. Troppo spesso, assistiamo a una sorta di “paternalismo femminista” che è una contraddizione in termini».
Sì: le donne sono escluse dal ministero cattolico sia dal punto di vista normativo — poco tempo fa lo stesso papa Francesco ha definito la questione del diaconato femminile «non matura» — sia da quello, più sottile, del patriarcato quotidiano. Oltre alle espressioni a porte chiuse come l’associazione fra donna e chiacchiericcio, in un criticato discorso pubblico all’Università di Lovanio, il papa ha ridotto la donna ad «accoglienza feconda, cura, dedizione vitale» e opposto femminismo e maschilismo come se fossero due posizioni egualmente criticabili.
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Fin qui la parte facile, per così dire. Ma allora io che potrei dire da uomo — ateo, per di più — di un’incarnazione divina al femminile? Forse suggerirei una capacità collaborativa più accentuata invece di una dimensione verticale di potere, e una giustizia differente. Farei di tutto per evitare il deleterio cliché che associa in automatico donna e accudimento, ma suggerirei che la storia di sopraffazione di questo genere renderebbe un Cristo donna ancor più vicino agli ultimi: le parole di Isaia che per i fedeli anticipano la venuta del Salvatore — «come una radice in terra arida», «che ben conosce il patire» — splenderebbero di una luce diversa.
E aggiungerei come ciò avrebbe dato linfa a un aspetto che per certi versi è già nel Vangelo ma sfugge a chi vi legge solo una vicenda di morte e risurrezione — e non invece la chance di un nuovo inizio nell’esistenza terrena. Hannah Arendt lo colse benissimo in un libro che di cristiano ha in fondo ben poco, Vita activa:
«Il corso della vita umana diretto verso la morte condurrebbe inevitabilmente ogni essere umano alla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromperlo e di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che è inerente all’azione, e ci ricorda in permanenza che gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare.
[…] L’azione è in effetti l’unica facoltà dell’uomo capace di operare miracoli, come Gesù di Nazareth — la cui comprensione di questa facoltà può essere paragonata per la sua originalità senza precedenti alla comprensione socratica delle possibilità del pensiero — doveva sapere benissimo, quando paragonava il potere di perdonare al potere più generale di far miracoli, ponendoli allo stesso livello e alla portata dell’uomo».
(Parole che stanno bene accanto a quelle di un altro grande pensatore tedesco, prigioniero e vittima dei nazisti, il pastore Dietrich Bonhoeffer: «Gesù non chiama a una nuova religione, ma alla vita»).
Ecco, potrei dire più o meno questo. Tuttavia la novità radicale di un Cristo donna sarebbe stata ciò che appunto fatico a immaginare fino in fondo per educazione ed esperienza: l’immediata imposizione del femminile quale protagonista. Una soggettività carica di un ruolo e una responsabilità interamente rivoluzionarie rispetto ai millenni di dominio maschile.
Nel suo bel libro Uomini giusti Ivan Jablonka fa notare come le religioni, «che siano fondate da Mosè, Confucio, Buddha, Gesù (attorniato da dodici apostoli) o Maometto […] trovano le loro origini nel messaggio di un uomo». E nonostante il loro ideale universalistico ed egualitario, nella realtà quotidiana si piegano subito in tutt’altra direzione. Basti come esempio la prima lettera ai Corinzi, la celebre epistola dell’amore, dove san Paolo lo dice chiaramente: «di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio».
E quindi? Quindi ha ragione Perroni. Credo sia più opportuno lasciare l’elaborazione dello spunto alle donne stesse, come la teologa e psicologa Kelley A. Raab in un notevolissimo capitolo del suo When Women Become Priests. Potrà sembrare una scusa per coprire la mia scarsità di idee al riguardo, o una mossa per accattivarmi simpatie. Pazienza. Quel che importa sono le domande aperte: quali parabole, quale discorso della montagna (Matteo, 5) avremmo avuto? Quali discepole? Quali miracoli? Quali gesti, quali momenti d’ira? Quale morte, infine: Marco ci avrebbe raccontato lo sgomento della croce prima della resurrezione, oppure no?
Non sono questioni pressanti, certo, ma forse ci aiutano a dissolvere l’incantesimo teologico cui per Steiner è ancora sottoposto il discorso comune — o a dirigerlo verso nuove forme. E chissà che la seconda venuta di Cristo, per chi crede, non riservi qualche sorpresa.
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