Da cosa prendono il nome i luoghi
Dall’archeologia dei paesaggi, dalla cultura e dai dialetti dei popoli ma anche da plateali incomprensioni, come quella che ha battezzato il monte Somenga
La montagna più alta della Val Masino, una valle laterale della Valtellina, in provincia di Sondrio, è alta 3.678 metri e si chiama monte Disgrazia. Malgrado le apparenze, non deve il suo nome a una fama funesta: la scalata per raggiungere la vetta è impegnativa ma fattibile. Una delle ipotesi più accreditate sull’origine dell’oronimo – i nomi propri di montagne, in linguistica e in geografia – è che sia una traduzione sbagliata. Qualche cartografo dell’Ottocento, forse influenzato dal racconto delle montagne come luoghi maledetti e pericolosi, avrebbe frainteso la parola dialettale usata dagli alpigiani della valle per indicare quel monte: des’giascia (“disghiaccia”, “disgelo”).
Il nome si riferiva agli effetti dello scioglimento ciclico dell’imponente ghiacciaio del versante settentrionale della montagna, da cui a volte si staccavano e precipitavano fragorosamente grandi seracchi. Ma un’altra ipotesi è che derivi dal cognome Quai, una famiglia della bassa Valtellina proprietaria nell’Ottocento degli alpeggi lungo le pendici della montagna. Un cartografo a cui “Quai” suonò come “guai” potrebbe aver tradotto liberamente munt dei Quai come monte Disgrazia anziché “alpeggio dei Quai”, ignorando uno dei significati di munt (“alpeggio”) nel dialetto di diverse regioni alpine.
La ricerca dell’origine del nome del monte Disgrazia è uno degli innumerevoli esempi di incertezze e difficoltà nella toponomastica, la materia che studia la formazione, la distribuzione e il significato dei nomi propri dei luoghi: i toponimi, appunto. Per farlo serve considerare aspetti storici, geografici e di altro tipo, oltre a quelli linguistici, e non sempre la ricerca porta a risultati conclusivi e inconfutabili. Perché i toponimi, scrivono i linguisti Francesco Perono Cacciafoco e Francesco Cavallaro nel libro del 2023 Place names: approaches and perspectives in toponymy and toponomastics, sono «fossili linguistici»: restano relativamente invariati nel tempo, mentre il lessico delle comunità intorno si evolve.
Una caratteristica dei toponimi è che generalmente possono sopravvivere ai cambiamenti demografici dei territori, a volte anche nei casi di insediamento violento delle nuove popolazioni. Spesso conservano nella loro morfologia alcuni tratti delle forme originali, che vengono adattati al sistema linguistico della nuova comunità senza essere del tutto rimossi. In molti casi, anche se ne ignorano i significati, i nuovi parlanti considerano i toponimi denominazioni dei paesaggi stabili nel tempo, utili da mantenere per ragioni di orientamento e navigazione. Hanno poco interesse a modificarli, a meno di una volontà esplicita di cancellare ogni traccia della popolazione sconfitta o sottomessa.
Allo stesso tempo i toponimi sono particolari fossili «vivi»: per quanto siano più stabili rispetto ad altri nomi, continuano a essere usati e subiscono comunque l’influenza dei cambiamenti linguistici circostanti. Ricostruirne l’origine e comprenderne il significato è difficile perché in molti casi derivano da lingue che nel tempo sono state sostituite da altre lingue, a volte correlate con le prime, a volte non correlate per niente. E la sostituzione implica di solito anche la progressiva perdita da parte delle comunità locali delle competenze necessarie per comprendere le lingue precedenti.
Spesso le lingue di civiltà diverse e lontanissime nel tempo continuano per secoli a essere rintracciabili nei toponimi. Sull’isola siciliana di San Pantaleo, nello Stagnone di Marsala, sorgeva un tempo l’antica città Mozia, una fortezza cartaginese del VIII secolo a.C. il cui nome fenicio (Mtw o Hmtw) è attestato anche in successive fonti greche (Μοτύη) ed è sopravvissuto fino all’età contemporanea. Un altro esempio siciliano noto è il nome di uno dei rioni storici di Palermo, Tribunali, conosciuto in città come la Kalsa, che deriva dall’arabo al-Khālisa (“l’eletta”), nome dato alla cittadella all’epoca della sua costruzione nel 937, durante la dominazione araba.
In un certo senso l’obiettivo della toponomastica è cercare di ottenere una stratigrafia, come in geologia e in archeologia, ma dei nomi dei luoghi anziché delle rocce. Lo studio dei toponimi è una forma di «archeologia del linguaggio», scrivono Perono Cacciafoco e Cavallaro, perché richiede di occuparsi di denominazioni antiche, a volte preistoriche.
Un’ipotesi comunemente accettata è che in una gran parte dei casi i toponimi derivino da nomi riferiti a oggetti naturali nel paesaggio. Oltre agli oronomi, altri nomi tendenzialmente molto antichi sono gli idronimi, cioè quelli dati a fiumi, laghi e corsi d’acqua, luoghi in cui è frequente trovare tracce di insediamenti umani di epoche diverse. Dal fiume Akragas, per esempio, prese il nome la città che prima di diventare Agrigento fu Ἀκράγας per i greci, Agrigentum per i romani, Kirkant o Jirjant per i saraceni e Girgenti per i normanni e poi i Borbone, fino al 1927.
Ma per i nomi dei luoghi, così come per quelli di battesimo, non sempre è possibile risalire all’origine: alla domanda su chi li abbia utilizzati prima di chiunque altro, e perché, «si può dare soltanto una risposta generale», scrisse nel 1937 il linguista croato Petar Skok. Possono essere il risultato del consenso spontaneo di una collettività, oppure quello di un atto di autorità individuale: soltanto nel secondo caso è possibile avere una datazione precisa. Per esempio, a differenza di Akragas, si sa esattamente quando e da chi fu denominata San Pietroburgo la capitale della Russia presovietica: il 27 maggio 1703, anno della fondazione della città, dallo zar Pietro il Grande.
Negli altri casi la ricerca del significato dei toponimi è complicata dal fatto che le parole che li compongono, in quanto in origine parte del lessico generale, possono riferirsi a oggetti differenti. Ed è ulteriormente complicata dal fatto che caratteristiche significative del paesaggio visibili un tempo potrebbero non esserlo più nel presente, per effetto di attività umane o processi geomorfologici e idrogeologici naturali. Per questo motivo, per ricostruire correttamente l’origine dei toponimi, è spesso necessario anche studiare la storia del paesaggio.
Un esempio significativo dell’importanza del paesaggio è la ricostruzione dell’origine del nome del borgo piemontese Pareto, in provincia di Alessandria. Per lungo tempo si è ipotizzato che derivasse dal latino medievale piretum, “pereto”, formato dal latino pĭrus, “albero di pere”, e dal suffisso -eto/a, utilizzato per indicare luoghi con una vegetazione (come in “pineta”). La ricostruzione presupponeva una trasformazione da -er- ad -ar-, avvenuta forse nel passaggio dal latino medievale all’italiano volgare, per adattamento al dialetto locale.
È possibile che il presupposto sia però errato, scrisse Perono Cacciafoco in un articolo pubblicato nel 2014. L’analisi dei documenti e delle cronache locali suggerisce che a Pareto non ci siano mai stati frutteti di pero, anche perché la conformazione e il microclima del paese, situato in cima a una collina, non sono proprio adatti a questa coltivazione. Reperti archeologici e paleoantropologici rinvenuti nella zona mostrano piuttosto che l’area fosse utilizzata in epoca preistorica come rifugio.
Il toponimo potrebbe allora derivare da una caratteristica geomorfologica: l’altitudine del paese e la sua natura rocciosa, indicate dalla radice protoindoeuropea *br-/*bar-, che significa “roccia, rupe”. È la stessa radice da cui deriva presumibilmente la parola latina pariēs, “terreno scosceso” o “roccia a strapiombo”, e da lì la parola italiana “parete”. Pareto sarebbe quindi un luogo su una rupe, secondo una ricostruzione peraltro valida anche per altri toponimi italiani come Paretola, una frazione del comune toscano di Zeri.
Nel caso di Pareto l’associazione al pero sarebbe insomma un esempio di paretimologia, l’accostamento in linguistica di due parole con un’etimologia apparentemente comune ma in realtà diversa. E sarebbe peraltro un malinteso secolare, largamente accettato e influente, come dimostra la rappresentazione di una torre medievale e di un pero nello stemma araldico del comune.
Le paretimologie sono una possibilità molto frequente nella toponomastica, che da sempre attira la curiosità delle persone: incluse quelle che senza conoscenze di linguistica se ne occupano «con il desiderio di dimostrare l’antichità e nobilitare le origini di un paese», scrive la linguista italiana Carla Marcato nel libro Nomi di persona, nomi di luogo. Capita che alle paretimologie siano anche associate leggende sulla fondazione delle città, come quella del comune molisano di Scapoli, in provincia di Isernia.
Il toponimo deriva probabilmente dal latino scapula, “scapola”, in riferimento a una caratteristica geomorfologica del territorio. Queste informazioni non hanno tuttavia impedito che, sulla base di un’interpretazione fantasiosa, si diffondesse una leggenda popolare secondo cui la città sarebbe stata fondata intorno all’anno 1.000 da una comunità di monaci scapoli.
Il glottologo e linguista italiano Carlo Tagliavini, in un testo del 1946 citato da Marcato, scrisse che la toponomastica è una delle parti più difficili della linguistica perché più esposta al rischio di errori etimologici rispetto alla ricerca sui nomi comuni. Nessuno, per esempio, confronterebbe la parola italiana burro con l’omonima parola spagnola, che significa “asino”: perché la differenza di significato è più evidente di qualsiasi omonimia.
Ma nella toponomastica la semantica serve a poco, salvo rare eccezioni, scrisse Tagliavini, perché normalmente i nomi dei luoghi richiamano alla mente località precise, non significati. E per riconoscerli e scoprirne l’etimologia non basta conoscerne la forma linguistica, ma servono competenze su più livelli, incluse quelle del dialetto locale, come dimostra un caso celebre citato da Tagliavini.
«Così è diventato celebre il caso di un «monte Somenga» registrato da una carta in Lombardia; l’inquisitore aveva chiesto a un contadino del luogo come si chiamasse un determinato monte; alla domanda, il contadino risponde nel suo dialetto so menga cioè «non so (lett. so mica)» e lo zelante cartografo, ignaro delle condizioni dialettali del luogo, credette che quello fosse il nome della montagna e scrisse accuratamente «Monte Somenga».
L’equivoco del monte Somenga ricorda in parte una vicenda più volgare e recente, che mostra come le conoscenze linguistiche non bastino, e anzi siano a volte fuorvianti, quando si tratta di toponimi. È risaputo, anche intuitivamente, che quelli con il suffisso in -ate sono frequenti e perlopiù circoscritti in Lombardia e in Piemonte. Hanno di solito valore aggettivale, che indica l’appartenenza del territorio a una famiglia o a una persona (come in Gallarate, “di Galerius”), o la vicinanza a un elemento geografico (come in Lambrate, “vicino al fiume Lambro”).
Forse per questa ragione, cioè per l’assonanza con altri toponimi lombardi, o forse per automatismo o superficialità, nel 2011 lo staff dell’allora sindaca di Milano Letizia Moratti considerò verosimile su Twitter un commento goliardico e provocatorio di un utente, a cui rispose seriamente. Fingeva, l’utente, di voler richiamare l’attenzione dell’amministrazione sui problemi del suo quartiere, in realtà inesistente: “Sucate”.