Nell’Agro Pontino molti lavoratori indiani in nero non lavorano più
Dopo la morte di Satnam Singh a giugno, i datori di lavoro preferiscono rinunciare ai braccianti piuttosto che metterli in regola: e per i braccianti è un grosso problema
di Angelo Mastrandrea
A metà mattina di lunedì 25 novembre nelle strade di Bella Farnia, un piccolo borgo in provincia di Latina abitato da indiani di religione sikh, ci sono più persone del solito. La maggior parte di loro lavora nelle aziende agricole dell’Agro Pontino, la pianura che si estende tra Sabaudia e Terracina. A quest’ora i lavoratori indiani solitamente sarebbero stati nei campi a preparare i terreni per le coltivazioni invernali, a sostituire le coperture di plastica delle serre dopo la fine della stagione estiva o a raccogliere kiwi e olive. Le cose sono cambiate come conseguenza della morte di Satnam Singh, il 31enne indiano che morì lo scorso giugno dopo aver perso un braccio mentre stava lavorando nei campi intorno a Latina. Ora molti degli indiani che lavoravano nell’Agro Pontino non hanno più un lavoro.
Alcuni indiani entrano ed escono da un negozio di generi alimentari o da un parrucchiere vicino. Altri sono in un bar che prepara kebab o in un parco con poche panchine e nessun albero. Molti sono in giro con le biciclette che normalmente utilizzavano per andare al lavoro. Qualcuno è affacciato alla finestra della sua abitazione. «Dopo la morte di Satnam Singh i padroni si sono messi paura e hanno mandato a casa tutti quelli che avevano il permesso di lavoro stagionale scaduto e lavoravano in nero», spiega il presidente della comunità indiana del Lazio Gurmukh Singh (i sikh maschi si chiamano tutti Singh, che vuol dire «leone», e le donne Kaur, «principessa»: è un sistema adottato per superare il sistema delle caste, fondato sui cognomi).
Anche Satnam Singh era arrivato in Italia con un permesso di lavoro temporaneo. Quando era scaduto non era ripartito per il Punjab, lo stato indiano da cui proveniva, ma era rimasto a lavorare in nero in un’azienda di Borgo Santa Maria, la Agrilovato. Il 17 giugno una macchina avvolgi-plastiche gli aveva tagliato un braccio mentre era impegnato nella raccolta dei cocomeri. Secondo le testimonianze di alcuni lavoratori presenti, il proprietario dell’azienda Alessandro Lovato invece di soccorrerlo lo aveva messo su un furgone e scaricato davanti a casa sua. L’ambulanza era stata chiamata dopo due ore, ma nel frattempo Singh aveva perso molto sangue e due giorni dopo era morto all’ospedale San Camillo di Roma. Lovato è stato poi indagato per omicidio volontario con dolo eventuale e il processo di primo grado è ancora in corso al tribunale di Latina.
Agli inizi di novembre il fratello maggiore di Satnam Singh, Amritpal, è venuto in Italia per seguire il dibattimento, per ottenere dall’Inail un risarcimento e il pagamento delle spese per il funerale, che si è svolto in Punjab. «Non lo vedevo da cinque anni, perché ero andato a lavorare come elettricista in Arabia Saudita», racconta. Quando Satnam è morto, Amritpal è tornato in Punjab per assistere la famiglia.
Nelle settimane seguenti i sindacati e la comunità indiana hanno organizzato scioperi e proteste, il ministero del Lavoro ha approvato un piano per aumentare le ispezioni nelle 6mila aziende dell’Agro Pontino, la pianura a sud di Latina, con l’obiettivo di verificare i contratti e i permessi di soggiorno: così le aziende hanno cominciato a mandare a casa chi non era in regola.
Gurmukh Singh stima che dalla fine dell’estate almeno il 30 per cento dei lavoratori indiani è rimasto senza lavoro. «Prima accadeva che li chiamassero anche solo per una giornata, ora non fanno più nemmeno quello, molti ragazzi sono in difficoltà perché non hanno più un salario e vengono da noi per essere aiutati», racconta. «Se avessimo fatto meno scioperi, forse ora avremmo ancora il lavoro», dice uno di loro in forma anonima. La comunità indiana, che è abituata ad autorganizzarsi, ha costruito una sorta di welfare informale per sostenere chi ha perso il lavoro, garantendogli cibo e alloggio.
Nel suo ufficio a Latina, il segretario dell’Unione italiana dei lavori agroalimentari (UILA) Giorgio Carra dice di non avere dati precisi su quanti indiani hanno perso il lavoro: sono persone che definisce «invisibili» per le istituzioni, di cui si sa poco o nulla. «Di sicuro però ci sono migliaia di persone per strada», dice, come in effetti è facile notare passando per la zona. Spiega che il fenomeno è più evidente tra le campagne di Aprilia, Cisterna e Latina, perché le aziende di questi comuni non hanno diritto alla cosiddetta «decontribuzione per il sud», cioè a un esonero del 30 per cento dei contributi da versare, a differenza di quelle dei comuni dell’area più meridionale dell’Agro Pontino. La CGIL calcola che gli indiani sfruttati in tutta la provincia di Latina siano tra i 5mila e gli 8mila, ed è plausibile che gran parte di questi negli ultimi mesi sia rimasta senza lavoro.
Carra spiega che «i sikh arrivano qui con permessi di lavoro stagionale per la raccolta estiva di cocomeri e zucchine, reclutati da intermediari che gli organizzano il viaggio e gli trovano una sistemazione, per questo pagano svariate migliaia di euro, indebitandosi con loro». Quando il permesso scade però non hanno i soldi per andare in Punjab e tornare di nuovo l’estate successiva, «per questo rimangono da irregolari e lavorano in nero nelle stesse aziende», dice ancora Carra. A suo parere, sarebbe sufficiente che il governo concedesse un permesso di lavoro permanente per ridurre i casi di sfruttamento più estremi e per evitare che l’aumento dei controlli si ritorca ancora una volta sui lavoratori, che vengono lasciati a casa senza neppure quei 5 euro all’ora che guadagnano in nero. «Finché non saranno tutti regolarizzati, il sistema di sfruttamento rimarrà lo stesso», conclude Carra.
In tutto l’Agro Pontino vivono 13mila indiani con il permesso di soggiorno, ma secondo diverse stime con gli irregolari arriverebbero a 30mila. È certo che almeno un migliaio di questi abiti a Bella Farnia, ma potrebbero essere anche il doppio, tenendo conto dei migranti senza documenti che non sono censiti. Il «residence» è un complesso di 400 abitazioni di edilizia povera costruite alla metà degli anni Settanta per essere vendute come seconde case per le vacanze al mare. Non fu completato perché la società immobiliare che lo stava costruendo fallì e le case rimasero abbandonate. Nel 2017 il Tribunale amministrativo del Lazio (TAR) assegnò la gestione al Comune di Sabaudia. Nel frattempo, fu occupato dai sikh provenienti dal Punjab, che lavoravano nelle aziende agricole dell’Agro Pontino.
Molti di loro fanno «lavoro grigio», come si dice in contrapposizione al lavoro in nero: cioè con contratti solo formalmente regolari, ma con orari e condizioni di lavoro molto differenti da quelli reali. Il 17 ottobre, in quattro aziende agricole la Guardia di Finanza ha trovato 450 lavoratori che lavoravano per un numero di ore molto più alto rispetto a quello stabilito dal contratto, senza riposo settimanale e con una parte della retribuzione pagata in nero, per risparmiare su contributi e tasse. Gurmukh Singh spiega che non sempre la paga «fuori busta», come viene chiamata, corrisponde a quanto pattuito. «Molti lavoratori aspettano per qualche mese di essere pagati, poi il padrone arriva e gli propone una cifra forfettaria, più bassa, con la scusa che il mercato non va bene e cose del genere», dice.
I sindacati raccolgono molte segnalazioni e assistono molte persone, ma le denunce scarseggiano perché i lavoratori hanno paura. Spesso gli indiani si rivolgono ai capi della comunità. Saman Singh, il figlio di Gurmukh, nel suo negozio di generi alimentari raccoglie molte segnalazioni dai suoi connazionali. Dice di aver appena ricevuto una telefonata in cui gli hanno raccontato che un lavoratore ha avuto uno sbalzo di pressione, forse un’ischemia o un ictus, e «il padrone lo ha messo fuori senza avvisare neppure la moglie, che lavora nella stessa azienda».
In sei mesi, quelli che sono passati dalla morte di Satnam Singh, un solo bracciante ha denunciato il datore di lavoro perché non gli versava la cifra pattuita. La questura di Latina per questo gli ha concesso un permesso di lavoro speciale, come anche ai quattro testimoni oculari della morte di Satnam, tra cui la sua compagna Soni, che hanno raccontato ai magistrati cos’era accaduto. Neppure quest’incentivo però è stato sufficiente a far aumentare le denunce.
«Gli indiani spesso hanno paura perfino di essere visti se vanno nella sede di un sindacato o alla questura e di essere giudicati male dalla loro stessa comunità», spiega il sociologo Marco Omizzolo, che da anni lavora sulla comunità sikh dell’Agro Pontino. Secondo i sindacati, a disincentivare le denunce è anche il fatto che spesso non hanno alcun esito o si protraggono in indagini che durano anni. Per esemplificare, alla FLAI (Federazione lavoratori dell’agro-alimentare) CGIL dicono di aver consegnato alla procura di Latina un video in cui due giovani lavoratori indiani mostrano le vessazioni del datore di lavoro, che li costringe a lavorare per 12 ore di fila e poi li chiude con un lucchetto nell’alloggio in cui riposano. Sostengono che dopo la denuncia tutto è continuato come prima.