Una storia di violenza contro le donne ogni 8 minuti
Le operatrici del 1522 ricevono ogni giorno decine di telefonate, che dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin sono aumentate di oltre il 50%
Nella piccola stanza al settimo piano dell’edificio di Roma dove lavorano le centraliniste del 1522, il numero gratuito per le donne vittime di violenza e stalking, suona il telefono ogni pochi minuti. Tra telefonate e contatti via chat, nell’ultimo anno sono arrivate mediamente 176 richieste al giorno: molte di più di quelle del 2023, che erano state circa 112. In questo periodo poi, con le iniziative di sensibilizzazione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, questo numero sale molto: tra il 25 e il 27 novembre sono state tra le 800 e le 900.
Le telefonate sono sempre anonime, con l’unica eccezione dei casi di emergenza. «Se la donna che ci chiama sta subendo un’aggressione in quel momento, per esempio perché il marito sta provando a buttare giù la porta e lei è chiusa in bagno, e ci autorizza a chiamare i carabinieri e mandarli al suo indirizzo, noi li chiamiamo. Poi restiamo con lei al telefono finché non intervengono» spiega Arianna Gentili, responsabile del 1522. «Le emergenze comunque non sono frequentissime rispetto al totale delle chiamate», dice, «circa una quindicina al mese». Cioè un giorno sì e uno no.
Al 1522 (si legge “quindici ventidue”) lavorano 16 centraliniste che si alternano per coprire tutte le ore del giorno e della notte, nei giorni lavorativi e festivi. Di giorno sono solitamente in quattro, di notte meno perché dopo le 20 le richieste diminuiscono, anche se non si interrompono mai troppo a lungo: di notte sono solitamente più frequenti quelle via chat, magari di donne che fanno fatica a dormire perché sono preoccupate.
Una telefonata tipica al 1522 inizia più o meno così: «non so se ho fatto il numero giusto, ho bisogno di confrontarmi con qualcuno per sapere se quello che mi sta succedendo è grave». Molto spesso la risposta delle operatrici è sì, che è grave. Altre volte chi chiama non vuole raccontare niente, ma ha solo bisogno di avere una risposta a una domanda: per esempio «se denuncio che succede?».
Le telefonate durano tra i 10 e i 12 minuti circa, e si concludono nella maggior parte dei casi con un invito a rivolgersi al centro antiviolenza più vicino (di cui il 1522 ha una mappatura aggiornata regione per regione). «È fondamentale rimandare chi chiama a uno spazio in cui possa raccontare cosa è accaduto, poi lì capiranno concretamente cosa fare», spiega Gentili. «Spingere per un’azione diretta, come una denuncia, senza che la vittima abbia maturato un suo pensiero non produce quasi mai risultati. A noi interessa che si mettano realmente in sicurezza e i centri antiviolenza servono a questo».
Il fatto che sia un numero anonimo lo rende un riferimento anche per molte donne che non racconterebbero mai a nessuno quello che subiscono perché hanno paure o convinzioni errate. Per esempio perché pensano che l’unica cosa che possono fare sia denunciare, ma non vogliono farlo: il 1522 spiega loro che non è così. Oppure perché temono che raccontando la propria situazione si attivi un servizio sociale per cui verranno monitorate e allontanate dai figli, cosa che non succede praticamente mai.
Tutte le operatrici del 1522 hanno lavorato in centri antiviolenza e case rifugio. Sono dipendenti e socie di Differenza Donna, l’associazione senza scopo di lucro che nel 2021 ha vinto il bando per la gestione del 1522, ma che si occupa anche di molti altri progetti in tutta Italia. L’associazione nacque nel 1989 da un gruppo di attiviste femministe e in quegli anni aprì a Roma uno dei primi due centri antiviolenza d’Italia (l’altro era quello della Casa delle Donne di Milano).
Il 1522 comunque non lo chiamano solo le vittime. Spesso le centraliniste si trovano a parlare con persone preoccupate per un’amica, una figlia, una sorella. «Familiari e amici hanno imparato a riconoscere i segnali, anche senza essere testimoni di violenza diretta: ci chiedono cosa fare e come gestirla», dice Gentili. Nell’ultimo periodo inoltre sono aumentati i genitori che chiamano dicendo di essere preoccupati per le figlie giovani, spesso minorenni: «ci dicono per esempio che la figlia è cambiata molto da quando ha un nuovo fidanzato, che non la riconoscono, che non sorride, non esce, che la sentono giustificarsi al telefono».
I genitori che chiamano preoccupati per i comportamenti controllanti o aggressivi dei figli maschi invece sono rarissimi, «quasi zero». E altrettanto rari sono gli uomini che chiamano dopo aver compiuto dei gesti violenti, magari per chiedere aiuto su come smettere di farlo: «non succede praticamente mai».
Altre telefonate molto frequenti sono quelle di donne anziane, sopra i 75 o gli 80 anni, che subiscono da anni maltrattamenti dal marito o dai figli e non ce la fanno più. E molte sono anche le donne con disabilità, sia fisica che cognitiva, per le quali essere ascoltate è più difficile, e che magari subiscono maltrattamenti proprio dagli uomini che si prendono cura di loro tutti i giorni e dai quali dipendono nel condurre la propria vita quotidiana.
Sono aumentate anche le donne che chiamano perché vittime di stalking, magari dopo aver deciso di separarsi per interrompere una relazione violenta. In generale è aumentata la consapevolezza del fatto che anche i comportamenti persecutori sono un reato. Può capitare che chiamino anche uomini con stalker donne: sono casi che non rientrano però nel genere di situazioni di cui si occupa il 1522 perché i centri antiviolenza a cui vengono rimandate le donne sono specializzati sulla violenza maschile contro le donne. I casi di stalking di donne nei confronti di uomini, che pure esistono e sono reati, non rientrano in questa definizione. «Sono proprio condizioni con presupposti di partenza molto diversi», dice Gentili: «tra le altre cose lo si vede perché le donne vittime di stalking con cui parliamo vivono nella paura. Per gli uomini invece è spesso solo una questione di fastidio».
Ci sono anche altri casi in cui chi chiama presenta situazioni per cui il 1522 non può fare niente. Per esempio una volta una donna anziana ha chiamato per sapere cosa fare dopo essere stata scippata: «questa è violenza e lei è una donna, ma non è violenza di genere, cioè non è violenza su una donna in quanto donna», spiega Gentile.
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Nell’ultimo anno, dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin e il caso mediatico che ne è derivato, le persone che contattano il 1522 sono molto aumentate. Cecchettin è stata uccisa l’11 novembre del 2023 e per circa due mesi il 1522 ha ricevuto tra i 700 e gli 800 contatti al giorno. «Il picco è stato molto alto e prolungato, ma essendo legato a un’emergenza emotiva ci si aspettava che poi sarebbe completamente rientrato», spiega Gentili. «Invece da gennaio 2024 il numero di contatti è diminuito, ma è rimasto stabilmente più alto di prima. Qualcosa è cambiato a livello culturale».
La presidenza del Consiglio, che finanzia il 1522 dal 2006, quando è stato istituito dall’allora governo Prodi, ha pubblicato di recente i dati sui contatti del 2024. Nei primi nove mesi dell’anno sono stati 48mila: il 57 per cento in più rispetto ai primi nove mesi del 2023, prima del femminicidio di Cecchettin.
Il 1522 costituisce di fatto il principale osservatorio sulla violenza contro le donne in Italia. Per ogni telefonata o contatto via chat, infatti, c’è un’operatrice che compila una scheda: un po’ per fare una valutazione del rischio, un po’ per raccogliere informazioni (sempre anonime) a scopo statistico. Per esempio le operatrici indicano se la persona che chiama è vittima di violenza, se è un parente preoccupato, o se è un operatore sociale in cerca di informazioni. Ma anche il tipo di violenza di cui si parla: se è psicologica, fisica, stalking. E ancora che rapporto ha l’uomo violento con la sua vittima, quanti anni ha, da dove viene, se soffre di dipendenze o ha patologie psichiatriche. Tutti questi dati vengono passati all’ISTAT, che li elabora e li pubblica.
«L’esperienza ci ha insegnato che molte idee diffuse non hanno nessun fondamento: tendiamo a pensare che gli uomini violenti siano persone con patologie psichiatriche, dipendenze, o con pochi strumenti a livello culturale, ma il 1522 ci dà una fotografia chiara e mostra che non è così. Certo a volte ci sono anche queste componenti, e con una persona dipendente dall’alcol o con patologie psichiatriche valutiamo un rischio più alto per la vittima, tra le due cose però non c’è causalità», dice Gentili. «Anche riguardo al rapporto tra violenza di genere e processi migratori», aggiunge, «i dati ci dicono che l’80 per cento di chi compie violenza di genere è italiano».
Per gestire il carico emotivo che l’ascolto quotidiano di storie di violenza comporta, le operatrici del 1522 fanno riunioni di équipe in cui condividono le proprie fatiche: parlano dei casi in cui quello che sentono ha un particolare impatto su di loro, perché magari si collega a esperienze personali. Chi ha più responsabilità fa anche un percorso di supervisione con un terapeuta. Una delle frustrazioni maggiori di questo lavoro, raccontano, è non sapere cosa succederà a chi chiama quando avrà messo giù. In generale però, quello che dicono tutte è che il fatto di avere un’esperienza diretta di come funzionano i centri antiviolenza e le case rifugio, e dei percorsi positivi che nascono lì dentro, aiuta molto. «Noi sappiamo che quello che facciamo ha un senso e questo ci stimola a continuare anche quando è difficile», racconta un’operatrice.